L'interpretazione dell'Amministrazione finanziaria sui costi connessi ai reati: nuovi e vecchi problemi

le variazioni normative sui cosiddetti costi da reato e sulla loro deducibilità hanno provocato una variazione interpretativa dell’Agenzia delle Entrate su tali casi, che lascia aperti ancora molti dubbi (a cura Avv. Valeria Nicoletti)

Il decreto legge 2 marzo 2012, n. 16 recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento”, convertito con modificazioni dalla Legge 26 aprile 2012, n. 44, pubblicata nel Supplemento Ordinario n. 85/L alla Gazzetta Ufficiale n. 99 del 28 aprile 2012, all’articolo 8, commi 1, 2 e 3, ha novellato il comma 4 bis dell’articolo 14 della Legge 24 dicembre 1993, n. 537 che così recita “Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque,qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale, ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato, prevista dall’articolo 157 del codice penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’articolo 530 del codice di procedura penale, ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”.

La modifica normativa si pone l’obbiettivo di sostituire la previgente disposizione con altra più adeguata al fine di inibire in modo inequivoco (come espressamente si legge nella relazione illustrativa al decreto) la deducibilità dei componenti negativi di reddito, direttamente connessi al compimento delle fattispecie di reato più gravi, i delitti non colposi, per il quale il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio.

Nell’esaminare il nuovo testo normativo, l’Agenzia delle Entrate nella Circolare n. 32/E del 3 agosto 2012, dopo aver affermato che, ai fini dell’indeducibilità dei costi, si deve aver riguardo “ai soli elementi passivi sostenuti dal medesimo in relazione alla fattispecie penalmente rilevante allo stesso imputata, e non già all’intero ammontare degli elementi passivi sostenuti nell’esercizio dell’attività d’impresa o di lavoro autonomo” allarga l’ambito di applicazione della norma, sostenendo che “ quel che rileva, infatti, ai fini della contestazione di indeducibilità del relativo costo, è che il fattore produttivo acquisito sia utilizzato direttamente, ancorché non esclusivamente, per il compimento del reato.”

Il concetto di utilizzo diretto, ancorché non esclusivo, non appare in linea, a parere di cui scrive, con quanto stabilito dal Legislatore, che aveva inteso circoscrivere in modo inequivoco l’ambito di indeducibilità dei costi, attraverso una connessione diretta con il reato, il che confligge con i criteri di proporzionalità, indicati nella Circolare proprio al fine di individuare la quota dei costi promiscuamente utilizzati.

Tutto ciò assume notevole rilevanza, soprattutto, ai fini della contestazione dei reati tributari, in quanto, anche la quota parte dei costi promiscui proporzionalmente individuati andrebbe a computarsi nel calcolo delle soglie previste per i reati di cui al decreto legislativo 10 marzo 2000, n.74.

La questione non è di secondaria importanza, poiché la sola denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, comporta il raddoppio dei termini di accertamento relativamente al periodo di imposta, in cui é stata commessa la violazione ai sensi dell’ articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973.

Ebbene, i reati tributari, in particolare quelli di cui agli articoli 3 e 4 del citato decreto legislativo, prevedono espressamente che, qualora si configuri l’ipotesi di reato, gli elementi passivi debbano essere fittizi.

In relazione a questo elemento delle fattispecie incriminatrici, la recente sentenza n. 246 del 12 giugno 2012 della Commissione Tributaria Provinciale di Siracusa, inserendosi in un complesso dibattito1, dà alla “fittizietà” un connotato quasi “naturalistico”, ritenendo “fittizio” solamente ciò che non esiste in natura, ossia ciò che non è effettivamente venuto ad esistenza.

Questa interpretazione, come si afferma nella sentenza, viene sostenuta argomentando dalla previsione dell’articolo 1 decreto legislativo 10 marzo 2000, n.74 in tema di “inesistenza” dell’operazione: “si muove dalla coincidenza tra “inesistenza e fittizietà” e si utilizza la definizione che viene data dall’art. 1, lett. a, del primo termine per interpretare anche il secondo. Se, quindi, “fittizio” equivale ad inesistente e l’inesistenza è la divergenza dal reale, si trae il corollario che anche la fittizietà si risolve in una non conformità al reale”.

Pertanto, darebbero luogo a componenti passive fittizie solamente quelle annotazioni di costi o di passività relativi ad operazioni non realmente avvenute nella realtà fenomenica dei fatti.

Orbene, il costo del personale “dirottato”, o utilizzato pro quota, per il compimento di un’attività d’intermediazione finanziaria illecita, l’esempio proposto dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare n. 32/E del 3 agosto 2012, non può certo dirsi relativo operazioni non realmente avvenute nella realtà fenomenica dei fatti.

A questo punto fondamentale, ai fini dell’interpretazione del novellato comma 4 bis dell’articolo 14 della Legge 24 dicembre 1993, n. 537, ma soprattutto, per il raddoppio dei termini per l’accertamento, sarà la posizione che verrà presa dalle Commissioni Tributarie, a cui spetta controllare, come statuito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 247 del 25 luglio 2011, “la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta ‘prognosi postuma’) circa la loro ricorrenza” accertando, quindi, se l’Amministrazione Finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento.

 

20 settembre 2012

Valeria Nicoletti

1 Per la posizione dell’Amministrazione Finanziaria: Circolare n. 154/E del 4 agosto 2000, Circolare del Comando generale della Guardia di Finanza n. 1 del 29 dicembre 2008; in dottrina: Marco Thione, Rilevanza penale degli elementi passivi fittizi, in Il fisco, n. 44 del 2009; in Giurisprudenza: Gip Tribunale di Milano, decisione del 20 novembre 2002.