Irregolarità contabili ed incongruenze desumibili dal conto cassa: implicazioni operative alla luce dei recenti sviluppi giurisprudenziali

quali sono i rischi connessi ad un’irregolare tenuta del conto di cassa? Il caso della cassa negativa, il caso del saldo troppo elevato rispetto alle esigenze aziendali

1. Premessa

La posta contabile “cassa”, stante la sua apparente semplicità, nasconde una costante minaccia per le imprese, potendo rappresentare una sorta di “allarme”, capace di richiamare l’attenzione dei verificatori, in sede di controllo fiscale.

Nella prassi operativa si ravvisano ricorrenti casi di irregolarità nella gestione dello stesso conto : trattasi di fattispecie che, in caso di accertamento, rappresentano un problema di non poco conto per chi deve difendersi. Il presente contributo intende soffermarsi sulle indicazioni offerte da alcune recenti pronunce giurisprudenziali sul tema.

Il conto in esame è un componente del libro mastro, sul quale vengono rilevate le entrate e le uscite di denaro contante : in questo contributo si analizzeranno alcune fattispecie di irregolarità che possono caratterizzarne la gestione, con particolare riferimento a quelle che hanno formato oggetto di recenti sentenze ad opera della Corte di Cassazione.

Si tratta, precisamente :

  • del saldo cassa negativo1, di per sé costituente, evidentemente, un’anomalia inammissibile ;

  • e del saldo cassa elevato, a tal punto da apparire ingiustificabile, specie in presenza di contestuali, elevati, saldi debitori nei confronti degli istituti di credito.

 

2. La cassa negativa: un efficace viatico all’accertamento analitico-induttivo

L’inaccettabilità di una cassa avente saldo negativo, è riconducibile ai criteri logici, propri del buon senso comune, prima ancora che ai più elementari principi della dottrina ragioneristica. Immaginando il conto in esame come una sorta di “salvadanaio”, persino un non addetto ai lavori intuisce la materiale impossibilità, salvo improbabili giochi di prestigio, di una cassa con uscite di denaro eccedenti le entrate.

E’ su tale base che la Corte di Cassazione, seguendo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha avuto modo di affermare che “… poichè la chiusura in “rosso” di un conto cassa significa, senza possibilità di dubbio, che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degl’introiti registrati, non si può fare a meno di ravvisare, senza alcuna forzatura logica, l’esistenza di altri ricavi, non registrati, in misura almeno pari al disavanzo. Si deve conseguentemente ritenere che una chiusura di cassa con segno negativo, oltre a rappresentare, sotto il profilo formale, un’anomalia contabile, denota sostanzialmente l’omessa contabilizzazione di un’attività (almeno) equivalente al disavanzo2. La stessa Suprema Corte, successivamente, è ritornata sull’argomento, riaffermando, sostanzialmente, lo stesso principio, secondo cui “in tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa ai fini Irpeg ed Ilor, ai sensi dell’art.39 del d.p.r. n. 600/73, la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo3.

Premesso quanto sopra, ci sembra comunque interessante commentare la recente sentenza n. 11988 del 31 maggio 2011, emessa dalla Cassazione: la casistica sottoposta alla Suprema Corte prevedeva la rettifica a fini Iva ed Irpeg dei redditi dichiarati da una società, a seguito di una verifica fiscale. L’ufficio, tenuto conto dell’importo della cassa con saldo negativo, e dei finanziamenti infruttiferi operati dai soci, a mezzo contanti, ne recuperava a tassazione l’ammontare complessivo, come risultante dalla somma dei predetti elementi, riqualificandolo il tutto a titolo di ricavi non contabilizzati. La società si opponeva, vedendosi accogliere il ricorso dai giudici di merito, di prime e seconde cure : questi ultimi, in particolare, respingevano l’appello proposto dall’ufficio, osservando che l’operato dei verificatori appariva privo di logica, dal momento che le risultanze del conto cassa avevano implicazioni di natura prettamente finanziaria, non interessando in alcun modo la gestione economica dell’impresa, e, di conseguenza, i suoi ricavi. In sostanza, quindi, a parere della commissione tributaria regionale adita, l’ufficio avrebbe dovuto fornire ulteriori elementi probatori, a supporto della propria tesi: non bastavano i meri elementi costituiti dal saldo negativo della cassa, e dalla presenza di finanziamenti infruttiferi dei soci, a mezzo contanti, per dar luogo alla pretesa equazione capace di trasformare il tutto in ricavi non contabilizzati.

Con riferimento, inoltre, al recupero dei ricavi non contabilizzati riferibili ai finanziamenti infruttiferi dei soci, i giudici di seconde cure hanno evidenziato che, trattandosi di finanziamenti operati a mezzo contanti, gli stessi trovavano regolarmente la loro contropartita contabile4 nel conto cassa, e conseguentemente non sussistevano elementi di prova tali da contestarne la legittimità… I giudici del gravame insistevano, inoltre, asserendo che le indagini bancarie tese a dimostrare l’impossibilità, da parte dei soci, di effettuare i predetti finanziamenti non erano esaustive, e non potevano, di per sé, escludere che i versamenti in esame derivassero dall’utilizzo di riserve di liquidità generatesi nel corso di periodi antecedenti rispetto all’annualità oggetto di verifica.

Ulteriormente, la CTR del Veneto, con sentenza del 20 settembre 2005, determinava che la ricostruzione induttiva dei ricavi conducesse a percentuali di ricarico inattendibili, in quanto di molto superiori rispetto a quelle “indicate come congrue e coerenti per settori omogenei”.

A questo punto, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per Cassazione, asserendo, da un lato, la violazione degli articoli 54 del d.p.r. n. 633/72 e 39 del d.p.r. n. 600/73, oltre ad una motivazione insufficiente e carente da un punto di vista logico, su un assunto fondamentale per la decisione della controversia.

Il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate era teso ad evidenziare che la decisione dei giudici del gravame era fondata sull’errata convinzione che la contabilità aziendale sia suddivvisa in due sorte di compartimenti perfettamente isolati l’uno dall’altro: quello patrimoniale-finanziario, da un lato, e quello economico-reddituale dall’altro.

Al contrario, sempre a parere dell’Agenzia delle Entrate, la cassa è un conto nel quale confluiscono incassi e pagamenti relativi all’attività, e, in quanto tale, un suo saldo negativo non può che essere interpretato come la mancata contabilizzazione di incassi, derivanti da ricavi pertinenti l’attività stessa, che non sono stati rilevati contabilmente, né dichiarati fiscalmente. Ancora: l’ufficio, nella difesa delle proprie tesi, ha ulteriormente sostenuto che la presunzione dell’esistenza di ricavi non contabilizzati generava un’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente. Era quindi quest’ultimo a doversi discolpare, fornendo spiegazioni adeguate, onde giustificare i motivi che hanno generato il saldo cassa negativo, nel tentativo di smontare le conseguenti, logiche, presunzioni.

La Cassazione ha accolto le ragioni dell’Amministrazione finanziaria, sia con riguardo ai vizi motivazionali inerenti la pronuncia della Commissione Tributaria Regionale, che con riferimento all’inversione dell’onere della prova. Su quest’ultimo punti, infatti, la Suprema Corte ha osservato che la decisione dei giudici di seconde cure era in contrasto con le regole di riparto dell’onere della prova, come previste dagli articoli 54 del d.p.r. n. 633/72 e 39 del d.p.r. n. 600/73. Quanto precede, laddove poneva in capo all’Ufficio l’onere di dimostrare la diretta connessione tra i maggiori ricavi non contabilizzati alla presenza di un saldo negativo della cassa.

La Cassazione ha quindi concluso, accogliendo il ricorso dell’Agenzia, cassando la sentenza impugnata, con conseguente rinvio della causa ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale competente. Con la sentenza in esame, la Corte ha affermato il principio di diritto secondo cui “In tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa ai fini irpeg e iva, ai sensi dell’art.39 del d.p.r. 600 del 1973 e dell’art.54 del d.p.r. 633 del 1972, la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo”.

Come si è già avuto modo di evidenziare, quest’ultima sentenza ha confermato quanto già aveva formato oggetto di reiterate conferme susseguitesi nel corso degli anni recenti. Va tuttavia evidenziato come la stessa Cassazione, avesse anche avuto modo di pronunciarsi in senso contrario, con la propria sentenza n. 25476 del 20 ottobre 2008: nella citata, ed in verità isolata sentenza, i Giudici di legittimità hanno affermato l’insufficienza, di per sé sola, del saldo di cassa negativo, a dare piena legittimazione ad una ricostruzione induttiva del reddito. Andando tuttavia ad esaminare la motivazione della sentenza, resta vivo il dubbio che la stessa sia stata motivata essenzialmente da motivi di procedura e di forma, piuttosto che essere obiettivamente mirati alla questione di merito, oggetto d’esame specifico nel presente paragrafo. Non si ritiene pertanto dover attribuire eccessivo rilievo, o speranza, a seconda delle parti in causa, in quest’ultima sentenza della Suprema Corte.

In conclusione, per poter meglio comprendere il consolidato orientamento della Cassazione, di cui la sentenza commentata fa parte a pieno titolo, si ritiene possa essere di utile ausilio l’esame del disposto normativo di cui all’articolo 39, comma 1, lettera d, del d.p.r. n. 600/735, laddove recita: L’esistenza di attività non dichiarate, o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”.

Orbene, la prevalente giurisprudenza di legittimità ritiene che l’esistenza di un saldo negativo del conto cassa costituisca una fattispecie capace di generare presunzioni che integrano le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza: presunzioni tali, pertanto, da consentire la legittima applicazione dell’accertamento analitico-induttivo al contribuente sottoposto a verifica.

E’ altrettanto evidente, secondo i giudici di legittimità, che l’onere della prova, in presenza di tale presunzione, ricada sul contribuente: sarà quest’ultimo a dover dimostrare che non esiste equivalenza tra saldo negativo del conto cassa e ricavi non contabilizzati.

E’ infatti ben noto agli operatori, come peraltro rimarcato da autorevole dottrina6, che possono sussistere valide spiegazioni, tese a giustificare l’esistenza del saldo negativo della cassa, smontando l’equivalenza presuntiva cassa negativa = ricavi non contabilizzati. Fattispecie operative concretamente ipotizzabili nella prassi amministrativa delle imprese possono essere le seguenti:

  • la registrazione erronea del pagamento di un fornitore a mezzo cassa, anziché, nel conto acceso al conto corrente bancario, effettivamente utilizzato per saldare il debito in esame;

  • la registrazione scorretta dell’incasso di un credito vantato presso un cliente, nel conto acceso ad un conto corrente bancario dell’impresa, anziché, come effettivamente avvenuto, nel conto cassa;

  • la registrazione di diverse operazioni, avvenute nella stessa data, in un senso cronologico errato, ove si contabilizzino prima le uscite di cassa, rispetto alle entrate;

  • la registrazione di uscite di cassa, con riferimento ai primi giorni di un nuovo anno, senza che sia stato riportato il saldo di riapertura, coincidente con quello di chiusura dell’esercizio precedente;

  • l’omissione della registrazione di apporti dai soci, o, più frequentemente, nelle imprese individuali, da parte del titolare, di apporti tesi a soddisfare temporanee situazioni di carenza di liquidità aziendale.

 

3. La cassa troppo elevata offre il fianco”all’accertamento induttivo

Altra problematica oggetto del presente contributo è quella del saldo cassa troppo elevato, sottoposta al giudizio della Cassazione, che, in merito, ha emesso la sentenza n. 21101 del 13.10.2011.

Una società in nome collettivo, esercente attività di commercio al dettaglio di elettrodomestici, a fronte di una verifica fiscale, vedeva rettificato il proprio reddito, ai fini Iva ed Irap, sulla base di un accertamento di tipo induttivo: la metodologia seguita dall’Ufficio è stata quella della ricostruzione del volume d’affari, tramite l’applicazione di percentuali di ricarico al costo del venduto di un campione di merci, mediante la formula del ricarico medio ponderato .

Precisato che la percentuale di ricarico, concettualmente può definirsi come la maggiorazione che l’impresa esercente attività commerciale applica al costo di acquisto, per determinare il prezzo finale di vendita al pubblico, va chiarito che il concetto utilizzato in sede di accertamento è un po’ più complesso, e può essere così riassunto :

 

Percentuale di ricarico = (Ricavi di vendita – Costo del Venduto)

______________________________ X 100

Costo del Venduto

 

 

Per una piena comprensione di quanto appena illustrato, si ricorda che con il termine Costo del Venduto, in riferimento ad imprese di tipo commerciale si intende quanto segue :

 

Costo del Venduto = (Rimanenze Iniziali + Acquisti – Rimanenze Finali)

 

Infine, il Ricarico medio ponderato viene invece definito dalla formula seguente:

 

RMP = (Sommatoria per i da 1 ad n) X (Ri x pi)

_______

100

RMP = Ricavo Medio Ponderato

n= numero degli articoli considerati

Ri= ricarico articolo considerato

pi = incidenza o peso del costo del venduto dell’articolo sul costo del venduto totale (o sul costo del venduto del campione, se l’indagine è di tipo campionario)

Volendo esemplificare, supponiamo la presenza di tre articoli “a”, “b” e “c”, caratterizzati da un ricarico pari, rispettivamente al 100%, al 150%, ed al 200%, e da un’incidenza sul costo del venduto totale (del campione) del 30%, 50% e 20%, rispettivamente.

Il RMP = (RaxPa)+(RbxPb)+(RcxPc) = (100%x30)+(150%x50)+(200%x20) = 145%

100 100

 

Effettuati sinteticamente i necessari chiarimenti, si riprende immediatamente l’esame della fattispecie oggetto della sentenza di nostro interesse.

I verificatori, onde procedere a detta ricostruzione induttiva del volume d’affari della società verificata, si erano avvalsi del disposto di cui all’articolo 39, comma 2, del d.p.r. n. 600/73, in ragione del quale “… l’ufficio delle imposte determina il reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio, e dalle scritture contabili in quanto esistenti, e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui alla lettera d) del precedente comma…”.

In sostanza, quindi, in presenza di determinate circostanze, l’amministrazione finanziaria è libera di ricostruire induttivamente il reddito derivante dall’esercizio di imprese e/o di arti e professioni, sulla base di dati e notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, facendo uso di presunzioni semplici, prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza : quanto precede, in modo tale da prescindere completamente o parzialmente dai riscontri forniti dalle scritture contabili e dalle risultanze di bilancio.

Le predette circostanze che legittimano tale invasivo potere di accertamento, si manifestano, laddove:

  • il contribuente ometta l’indicazione in dichiarazione del proprio reddito d’impresa;

  • dal verbale di ispezione emerga che il contribuente abbia omesso la tenuta di scritture obbligatorie, ovvero le abbia sottratte a controllo, o, ancora, le medesime non risultino disponibili per cause di forza maggiore;

  • dal verbale di ispezione si evinca la presenza di irregolarità formali, di false od inesatte indicazioni, reiterate e così “gravi, numerose e ripetute”, da rendere inattendibile l’impianto contabile nel suo complesso.

Alla luce della predetta elencazione, si intuisce immediatamente che le predette ipotesi risultano piuttosto vaghe, o, comunque, tali da generare rilevanti problematiche di ordine interpretativo, ogni qualvolta si debbano ricollegare le fattispecie che si presentano nella prassi quotidiana alle casistiche richiamate dalla normativa in esame.

La ricostruzione induttiva dei ricavi della società sottoposta a verifica, per tramite della procedura del ricarico medio percentuale, utilizzata come presunzione semplice, prescindendo dalle risultanze contabili, è stata resa possibile dal riscontro, in sede di verifica, di un elemento cruciale, fondato sul conto cassa, tema principale del presente contributo.

L’ufficio, in sede di verifica, aveva infatti rilevato la presenza di un saldo positivo del conto cassa, in ragione di lire 389.641.975: tale somma rappresentava il saldo contabile alla data del 31.12.1998, dopo operazioni di prelievo utili da parte dei soci, e di rimborso prestiti ai soci stessi, in ragione di oltre 53 milioni di lire complessivi.

A fronte del predetto, elevatissimo saldo del conto cassa, la società interessata risultava peraltro contestualmente esposta in maniera significativa verso gli istituti di credito, con un saldo passivo di conto corrente per oltre 117 milioni di lire; per di più, nel conto economico, tra le voci di costo, emergevano oneri finanziari per oltre 2 milioni di lire, connessi al rimborso di un mutuo contemporaneamente acceso.

La questione era già stata sottoposta alla CTP di Torino ed alla CTR del Piemonte: entrambi i gradi di giudizio avevano condotto a parziali accoglimenti delle tesi difensive della società sottoposta a verifica, con specifico riferimento alla riduzione delle percentuali di ricarico applicabili, rispetto a quelle utilizzate dall’ufficio nella propria ricostruzione induttiva del volume d’affari. A giudizio dei giudici di seconde cure, infatti, la contribuente aveva dimostrato che, con riferimento a determinati generi merceologici, le percentuali di ricarico fossero inferiori a quelle presunte dall’amministrazione. La contribuente, inoltre, aveva da subito affermato che il saldo del conto cassa sproporzionatamente elevato era determinato esclusivamente “… dall’omissione, da parte di chi redigeva materialmente la contabilità, delle registrazioni di ‘scarico della cassa’ dal 31/8 al 02/11/1998”.

La CTR del Piemonte, pur avallando la metodologia induttiva applicata dall’ufficio, sollevava dubbi circa i comportamenti omissivi che avrebbero generato il saldo della cassa, affermando “l’impossibilità di verificare se si trattava di ‘omissione’ o di ‘voluti’ mancati versamenti”.

L’Agenzia delle Entrate aveva presentato ricorso per cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione di una serie di disposizioni normative, tra le quali quelle in materia di ripartizione dell’onere della prova, oltre a vizi di motivazione della sentenza di secondo grado, in ordine all’esistenza di acquisti e vendite in nero, ed alla relativa prova per presunzioni. L’Agenzia intendeva sostenere :

  • in primo luogo, il diritto degli uffici all’utilizzo del metodo induttivo, in presenza di fattispecie del tipo riscontrato;

  • in secondo luogo, porre l’accento sul fatto che la cassa elevata fosse un elemento tale da far presumere acquisti (e vendite) in nero;

  • in ultima analisi, l’inesattezza della nuova determinazione delle percentuali di ricarico, come recepita dai giudici di merito.

La Suprema Corte, investita delle predette questioni, assume una posizione ben più intransigente, rispetto ai giudici del gravame, sostenendo che “… in sede di processo verbale di constatazione, e nel dibattito processuale, è emerso che il conto cassa della contribuente presentava un anomalo e rilevante saldo positivo, tanto più che la società era pesantemente esposta verso il ceto bancario per cospicuo saldo negativo di conto corrente e oneri di rimborso di un mutuo contemporaneamente acceso (quest’ultimo costituente dato sì, di sfondo, ma indirettamente rivelatore di capacità contributiva della parte mutuataria)…”. Proseguivano poi ulteriormente i Giudici di legittimità: “Nella fattispecie, a fronte della rilevazione di un saldo di cassa largamente attivo e di un saldo bancario, invece, fortemente passivo, la contribuente aveva addotto … che tale anomalia contabile sarebbe derivata dall’omissione, da parte di chi materialmente redigeva la contabilità, delle registrazioni di ‘scarico della cassa’ dal 31/8 al 2/11/1998…”. La sentenza prosegue affermando che “Ne deriva che, per espressa ammissione della stessa contro ricorrente, vi fossero gravi inesattezze nella tenuta della contabilità, protrattesi per parecchi mesi, delle quali non è mai stata fornita una chiara spiegazione. Il che, di per sé, è sufficiente a legittimare l’azione accertatrice con metodo induttivo da parte dell’amministrazione, secondo i parametri legali indicati dalla giurisprudenza di legittimità (art. 39 d.p.r. 29/09/1973, n.600…)”.

Circa l’allarme che l’elevato saldo di cassa dovesse legittimamente suscitare, facendo presumere acquisti non documentati e conseguenti vendite non contabilizzate, la Cassazione ha proseguito affermando che “… ne deriva, secondo criteri logici e di normalità, che verosimilmente la contribuente facesse figurare in cassa somme utilizzate per l’acquisto di merce in nero”.

In conclusione, con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha inteso :

  • avvalorare la piena legittimità dell’accertamento induttivo puro, ai sensi del comma 2 dell’articolo 39, d.p.r. n. 600/73, in corrispondenza di saldi elevatissimi del conto cassa, specie ove accompagnati da contestuali elevate posizioni debitorie, del tipo di quelle bancarie evidenziate nel caso specifico;

  • porre l’accento sul fatto che un elevato saldo del conto cassa può ragionevolmente celare somme utilizzate per acquisti in nero, seguiti, verosimilmente, da vendite e ricavi con contabilizzati, né dichiarati al fisco.

 

18 luglio 2012

Giuseppe Pagani

1 Cassazione, sentenza n. 11988 del 31 maggio 2011.

2 Cassazione, sentenza n. 27585 del 20.11.2008

3 Cassazione, sentenza n. 24509 del 20.11.2009

4 Secondo una scrittura del tipo seguente : “Cassa” a “Debiti v/soci per fin.ti infruttiferi”

5 Che ricalca la disposizione di cui all’articolo 54, comma 2, d.p.r. n. 633/72, in materia di imposta sul valore aggiunto.

6 F.Dezzani e L.Dezzani, “Cassazione, n.24509 del 20 novembre 2009.Cassa negativa uguale ricavi non contabilizzati. Ipotesi alternative?”, in “il fisco” n. 31 del 2 agosto 2010.