La natura del reclamo tributario

il reclamo tributario appare analogo ad un’istanza di autotutela; approfondiamo quale natura giuridica ha questa autotutela obbligatoria

Dato il tenore della norma – art. 17 bis, c. 8 “annullamento totale o parziale” – il reclamo sembra avere i connotati di un’istanza di autotutela obbligatoria, preventiva al ricorso.(relativamente al profilo critico di questo aspetto si rinvia al par. 9, lett. f).

Da un’attenta lettura del disposto normativo, emerge come la disciplina del reclamo-mediazione di cui all’art. 17 bis, è stata inserita nel corpus delle norme processuali tributarie quasi ad evidenziare la diretta strumentalità dell’istituto con i propositi funzionali della giustizia tributaria.

La nuova procedura, infatti, si offre come rimedio amministrativo prima, e come presupposto giudiziale poi, al fine di far coincidere – in un’ottica di deflazionamento del contenzioso – le necessità del sistema tributario e i diritti dei contribuenti.

Almeno questi sono gli intenti divulgati dalla voce fiscale, ancora in attesa di essere verificati.

Il reclamo è un procedimento di “secondo grado”, in quanto viene avviato alla conclusione di un precedente procedimento amministrativo (quello che si è concluso con l’emanazione dell’atto ritenuto viziato).

Esso definisce la questione nell’ambito della funzione tipica della Pubblica Amministrazione, quella amministrativa, senza che alcun organo giurisdizionale (Giustizia Amministrativa o Giustizia Ordinaria) debba pronunziarsi.

Infatti, sebbene rivolto a conseguire l’annullamento totale o parziale del provvedimento, non assume la forma di uno dei ricorsi tipici, bensì ne ricava alcune caratteristiche peculiari:

  • l’impugnatorietà: il reclamo ha certamente natura impugnatoria, in quanto configura un rimedio contro un atto amministrativo lesivo dell’interesse sostanziale garantito dalla norma;

  • la giustizialità: il reclamo sorge da una controversia ed è un mezzo, il primo e in alcuni casi ultimo, di difesa del contribuente relativamente ad una situazione giuridica che la parte afferma essere stata lesa, per cui l’Ufficio si pronuncia in relazione ad elementi e motivi esistenti nella domanda di parte.

  • la non estraneità: il reclamo non è presentato ad un giudice, bensì ad un organo che non si trova in una posizione di distacco rispetto ad una delle parti in causa: infatti fa parte della stessa Pubblica Amministrazione alla quale appartiene l’organo che ha emanato l’atto – nonostante la sua ubicazione sia estranea agli uffici dai quali vengono posti in essere gli atti di accertamento – .

Non può, oltretutto, essere considerato un ricorso gerarchico vero e proprio.

La norma dispone che la struttura dell’ente impositore competente al reclamo sia diversa e autonoma da quella che ha emanato l’atto reclamabile, anche se non è né sovra né sott’ordinata all’ufficio che ha emanato l’atto: il reclamo va infatti presentato alla direzione provinciale o alla direzione regionale, che lo affida alle strutture deputate alla gestione del contenzioso per un esame operato in piena autonomia rispetto alle diverse strutture che hanno curato l’istruttoria degli atti reclamabili; tale struttura autonoma farà capo direttamente al direttore provinciale o al direttore regionale.

Il reclamo appare così come uno strumento “atipico”, ma comunque aderente alle linee organizzative della Pubblica Amministrazione, ormai irreversibilmente mutate e che sempre più vedono affievolire il rilievo dell’ordinamento gerarchico al proprio interno.

Risulta opportuno, in questa sede, evidenziare come in dottrina, ci siano già delle tesi contrastanti proprio sulla natura dell’istituto ed in particolare sulle lapalissiane differenze emergenti dal confronto con la disciplina civilistica (da cui proviene l’istituto).

Infatti, alcuni hanno intravisto nella mediazione uno strumento di privatizzazione della giustizia con la conseguenza che diventa elevatissimo il rischio della caduta delle garanzie offerte alla parte più debole e una sostanziale negazione dell’accesso alla giustizia.

Da un confronto con la disciplina civilistica, invero, balza agli occhi una grave anomalia; nel settore civilistico la domanda di mediazione è proposta con una istanza (avente determinati requisiti) ad un organismo abilitato e terzo(enti appositamente iscritti in un apposito registro presso il Ministero della Giustizia); nel ramo tributario, invece, la stessa va inoltrata “alla Direzione provinciale o regionale che ha emanato l’atto, le quali provvedono attraverso apposite strutture diverse ed autonome da quelle che curano l’istruttoria degli atti reclamabili”(come disposto dall’art. 17-bis, c. 5).

Pur avendo mutuato dalla disciplina civilistica il carattere di procedibilità per l’accesso alla giustizia tributaria – che nel caso del diritto tributario si tramuta in “inammissibilità”, cfr. par. 9, lett. e – , non si intravede nessuna figura di “mediatore”, ma si continua a vedere ancora una violazione costituzionale dei principi di legittima difesa e di imparzialità dei procedimenti giurisdizionali.

Dunque, un rimedio amministrativo paraprocessuale, che attraverso la valutazione – per il tramite di un ufficio legale terzo rispetto all’ufficio “impositore” – del “grado di sostenibilità della pretesa, dell’incertezza della questione controversa e del principio di economicità dell’azione amministrativa”, consentirebbe – in via stragiudiziale – la definizione della lite.

Sicuramente, vi sarà un confronto dialettico tra Amministrazione e contribuenti, ma non sembra ancora chiaro, in che modo e secondo quale principio sottostante all’imparzialità che vige nei procedimenti giudiziali, ci sarà un accordo, nel vero senso del termine.

L’introduzione dell’istituto in esame, non può non tenere conto del fatto che, da sempre, il Fisco e i contribuenti parlano due lingue diverse; figuriamoci poi, quando la valutazione di una querelle viene affidata a qualcuno di parte – di cui non si sanno neanche le competenze e il modo in cui sono state raggiunte.

 

8 maggio 2012

Maurizio Villani

Francesca Giorgia Romana Sannicandro