Le problematiche relative all'accertamento del reddito d'impresa in presenza di fatture per operazioni inesistenti

in seguito ad un accertamento basato su fatture emesse per operazioni inesistenti, quali sono le opzioni a disposizione del Fisco per la ricostruzione del reddito del contribuente?

La problematica relativa alle modalità con cui l’ufficio deve procedere all’accertamento in presenza di fatture per operazioni inesistenti è stata oggetto di specifico intervento del Se.C.I.T., con le delibere n. 78/1982, n. 101/1982 e n. 10/1988, e di esame da parte della Conferenza degli Ispettori compartimentali delle imposte dirette (verbale del 13-14 aprile 1984).

Gli orientamenti all’epoca assunti, sulla base del parere reso dall’Avvocatura generale dello Stato, sono contenuti nella circolare n. 271/E del 21 ottobre 2007, e possono così sintetizzarsi:

  • indeducibilità dei costi ed oneri non imputati a conto economico;

  • concorrenza alla formazione della base imponibile dei ricavi fatturati ma inesistenti, nella considerazione che il potere di rettifica è conferito al Fisco per recuperare a tassazione i ricavi non evidenziati e non già per procedere a correzioni della dichiarazione nell’interesse del contribuente, talché la contabilizzazione di oneri inesistenti impone la rettifica mentre la dichiarazione di ricavi fittizi non è presupposto di tale potere 1”.

 

La citata circolare n. 271/97, inoltre, distingue due ipotesi:

a) soggetti emittenti fatture per operazioni inesistenti (cosiddette cartiere);

b) soggetti utilizzatori di fatture per operazioni inesistenti.

 

Nella prima ipotesi – fatturazione eseguite da imprese esistenti sotto il profilo formale ma non sotto il profilo sostanziale, in quanto prive della struttura operativa idonea a produrre, fornire o prestare i relativi beni e servizi – si è in presenza di un’organizzazione criminosa diretta a frodare il Fisco.

In tale ipotesi occorre procedere nei confronti della cosiddetta cartiera utilizzando lo strumento dell’accertamento induttivo, prescindendo dalle risultanze contabili che rappresentano delle mere finzioni e mirando all’individuazione dell’effettivo profitto tratto dagli organizzatori dell’attività illecita. Ciò in quanto il procedimento induttivo consente un’approssimazione più realistica al reddito conseguito, che normalmente non coincide con l’ammontare dei ricavi rilevati”.

Ai fini dell’imputazione del reddito, “in conformità al principio fissato dall’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973, non si farà riferimento ai responsabili legali dell’impresa ma a coloro che hanno effettivamente gestito il traffico delle fatture fittizie, conseguendone un profitto”.

I presupposti legislativi che consentono il ricorso all’accertamento induttivo e i criteri logici attraverso i quali si perviene alla ricostruzione del reddito in capo alla cartiera dovranno essere evidenziati nella motivazione dell’avviso di accertamento.

Al riguardo, il documento di prassi del 1997 richiama i concetti relativi all’uso delle presunzioni espressi nella circolare 4 maggio 1994, n. 44/E.

La circolare n. 271/97 ritiene, altresì, utile “il ricorso ai poteri di indagine bancaria per analizzare i movimenti dei conti dai quali potrebbero rilevarsi connessioni con l’attività illecita” e “ai fini della quantificazione del reddito assumerà rilievo l’importo complessivo delle fatture fittizie emesse, in quanto generalmente l’effettivo provento conseguito è rapportato ad esso. Infatti, nella realtà, il valore esposto in una fattura fittizia non corrisponde al corrispettivo incassato per ottenerla”.

Naturalmente, ai fini Iva, per espressa previsione normativa, “se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, ovvero se nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative sono indicati in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura” (art. 21, c. 7, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633).

 

Nella seconda ipotesi – soggetti utilizzatori di fatture per operazioni inesistenti -, la nota ministeriale opera un’ulteriore distinzione:

  • ipotesi in cui le operazioni siano soggettivamente ed oggettivamente inesistenti, al fine di esporre un reddito inferiore a quello reale;

  • ipotesi in cui le fatture siano solo soggettivamente fittizie, allo scopo di coprire costi effettivamente sostenuti ma non documentabili.

 

Nel primo caso si deve necessariamente procedere alla ripresa analitica a tassazione delle spese fittizie”.

Nel secondo caso, pur ritenendo che preliminarmente si debba ricorrere alla ricostruzione analitica del reddito, gli estensori del documento di prassi citato aggiungono che “qualora con tale metodo si pervenga ad un risultato irrealistico sul piano economico, è opportuno procedere ad un accertamento induttivo tenendo conto di tutti gli elementi utili a quantificare un reddito ragionevole ed attendibile. Procedimento quest’ultimo che è legittimato dall’inattendibilità delle scritture contabili, di cui la presenza di fatture fittizie costituisce prova”.

 

Il D.L. Semplificazioni

L’art. 8, c. 2, del D.L.n.16 del 2 marzo 2012, appena introdotto prevede che “ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi. In tal caso si applica la sanzione amministrativa dal 25 al 50 per cento dell’ammontare delle spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi. In nessun caso si applicano le disposizioni di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n.472, e la sanzione è riducibile esclusivamente ai sensi dell’art. 16, comma 3, del decreto legislativo 18 dicembre 1997 n. 472”.

Come rilevato in dottrina2, nel caso di fatture oggettivamente inesistenti, “l’amministrazione, in questi casi, contesta l’indeducibilità del costo (oltre che dell’Iva) in quanto la transazione è fittizia. Spesso però il contribuente, anche per non destare sospetti, dichiara la vendita di quei beni conseguendo così ricavi; ne consegue, in molte ipotesi, che i costi gli vengono disconosciuti, mentre i ricavi restano”.

Per effetto della norma introdotta, i ricavi relativi a costi non veritieri non vengono accertati quali maggiori ricavi nella misura in cui i costi inesistenti non sono ammessi in deduzione. Si applica, però, la sanzione dal 25% al 50% dei costi falsi, senza che possa trovare applicazione il concorso di reato e la continuazione.

Evidenziamo che la relazione illustrativa al provvedimento ha affermato che la disposizione relativa alle fatture oggettivamente inesistenti intende, da un lato, colpire con una specifica sanzione pecuniaria l’antigiuridicità dell’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, con la sanzione amministrativa dal 25 al 50 per cento dell’ammontare delle spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi, e, dall’altro, salvaguardare il principio costituzionale della capacità contributiva.

In particolare la disposizione, di natura procedurale, in materia di accertamento ai fini delle imposte sui redditi, prevede che non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi che, per effetto delle ordinarie disposizioni tributarie, non sono in alcun caso ammessi in deduzione in quanto non effettivamente sostenuti.

In ogni caso, resta applicabile il disposto di cui all’art. 21, c. 7, del D.P.R. n. 633/72 e resta ferma l’indetraibilità dell’imposta sul valore aggiunto relativa ai beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati.

In forza di quanto disposto dal comma 3, dell’articolo 8, del D.L.n.16 del 2 marzo 2012, tale disposizione si applica, in luogo di quanto disposto dal comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore del D.L., ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi; “resta ferma l’applicabilità delle previsioni di cui al periodo precedente ed ai commi 1 e 2 anche per la determinazione del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive”.

 

12 aprile 2012

Francesco Buetto

1 Sul punto, in senso conforme si è attestata, di recente la Cassazione – sentenza n. 12905 del 12.3.2008 (dep. il 21.5.2008), ove ha affermato che il recupero a tassazione di costi fittizi non comporta l’esclusione dalla base imponibile dei ricavi ritenuti fittizi, in quanto non sussiste alcun obbligo per l’Amministrazione finanziaria di ricercare elementi tendenti alla riduzione del debito d’imposta del contribuente. In particolare la Suprema Corte, con pregevole argomentazione giuridica, nel ritenere legittimo l’accertamento dell’ufficio, ha affermato il principio secondo cui “a parte la previsione del D.P.R. n. 633/72, art. 21, co. 7, che esplicitamente prevede, in materia di IVA, l’assoggettamento ad imposta degli importi indicati da fatture emesse per operazioni inesistenti – esiste, nell’ordinamento tributario, il principio di tipicità degli atti di accertamento, per il quale, fatta eccezione per i provvedimenti adottati in via di discrezionale autotutela o su richiesta di rimborso,l’Amministrazione non è tenuta a ricercare, ai fini dell’accertamento,ragioni idonee a comportare la riduzione del debito d’imposta del contribuente; che è, pertanto, legittimo il comportamento dell’Ufficio che si limiti a recuperare i costi fittizi, senza, poi, escludere dai ricavi quelli asseritamente fittizi (v. Cass. 4224/06), dovendosi le ragioni che il contribuente potesse in proposito vantare farsi valere (cfr., anche, Cass.26839/07 e 8965/07) con l’esercizio (a mezzo istanza di rimborso e conseguente impugnazione ex D.Lgs. n. 546/92, art. 19, del silenzio rifiuto su di esso eventualmente formatosi) dell’azione di restituzione della maggior imposta indebitamente corrisposta“. Per il giudice di legittimità, quindi, la controversia avente ad oggetto, al tempo stesso, costi e ricavi fittizi assume differenti connotati sia giuridici che processuali. Dal punto di vista squisitamente giuridico il vero e proprio avviso di accertamento è quello diretto all’emersione di una maggiore imposta (non importa se ottenuta attraverso un maggior imponibile o un minor costo), conseguentemente, non può ipotizzarsi un accertamento a favore del contribuente (al di fuori dell’ipotesi di autotutela e del diritto al rimborso). Sotto il versante processuale, invece, nell’ambito della controversia, come quella in discussione, nella quale il contribuente eccepisca la tassazione di ricavi fittizi, tale eccezione non andrà fatta valere nel giudizio avverso l’avviso di accertamento bensì proponendo un autonomo giudizio avente ad oggetto l’azione di restituzione della maggiore imposta indebitamente corrisposta sui ricavi fittizi.

2 IORIO, Costi indeducibili con l’azione penale, in “il Sole24ore”, guida pratica al decreto legge fiscale, 7 marzo 2012