Elusione fiscale: applicabilità delle sanzioni per infedele dichiarazione

Una sentenza di Cassazione interviene sull’applicazione e sulla quantificazione delle sanzioni tributarie in caso di elusione fiscale ed importi dichiarati dal contribuenti inferiori rispetto a quelli accertati dal Fisco.

Sanzioni amministrative tributarie – Aspetti generali

Il vigente sistema delle sanzioni amministrative tributarie accoglie principi generali «garantisti» ricalcati su quelli penalistici, orientati a una concezione afflittiva, con tutte le conseguenti garanzie e cautele per la posizione dell’autore della violazione.

Gli atti legislativi che costituiscono, nell’attuale ordinamento italiano, la fonte diretta della disciplina sanzionatoria amministrativa in materia tributaria, sono i seguenti:

  • D.Lgs. 18.12.1997, n. 471;

  • D.Lgs. 18.12.1997, n. 472;

  • D.Lgs. 18.12.1997, n. 473.

 

Nel D.Lgs. 18.12.1997 n. 472 sono racchiusi, in particolare, i principi generali in tema di sanzioni amministrative tributarie, orientati alla responsabilità personale, all’imputabilità e alla colpevolezza dell’autore materiale della violazione.

In ogni caso, perché possano validamente irrogarsi delle sanzioni amministrative occorre che vengano riscontrate delle violazioni, cioè dei comportamenti contrari rispetto a norme di diritto positivo: tale considerazione di base ha fatto dubitare in dottrina della possibilità di sanzionare (in via amministrativa, ovvero anche penalmente) le fattispecie ritenute elusive a norma dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973.

Una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. 30.11.2011 n. 25537) assume un opposto orientamento, affermando il principio secondo il quale, per legittimare la sanzione amministrativa, è sufficiente il riscontro del semplice «disallineamento» tra il quantum accertato dall’ufficio e ciò che viene dichiarato dal contribuente.

 

 

In breve: le sanzioni amministrative dichiarative

sanzioni amministrative tributarie per infedele dichiarazioneImposte sui redditi, IVA e IRAP, che sono spesso oggetto di rilievi unitari negli avvisi di accertamento emanati dall’Agenzia delle Entrate, prevedono ipotesi di violazione sostanzialmente «allineate»; in particolare, la fattispecie della dichiarazione infedele è punita con una sanzione amministrativa variabile (secondo la gravità dei fatti) dal 100 al 200% della maggiore imposta accertata (imposte sui redditi: art. 1, secondo comma, D.Lgs. n. 471/1997; IVA: art. 5, quarto comma, D.Lgs. n. 471/1997; IRAP: art. 32, secondo comma, D.Lgs. n. 446/1997).

Al fine di meglio comprendere la materia sulla quale è intervenuto il giudizio della Cassazione, si rammenta che queste sanzioni, così come, in generale, tutte le sanzioni amministrative tributarie, sono soggette al principio di legalità, «codificato» nell’art. 3 del D.Lgs. 472/1997.

Secondo la disposizione normativa da ultima richiamata, la determinazione dei fatti che costituiscono violazione punibile deve essere riservata al legislatore, escludendo ogni possibilità di integrazione analogica.

Il primo comma dell’articolo in commento riguarda il principio dell’irretroattività della norma sanzionatoria, già fissato:

  • per le sanzioni penali, dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione;

  • per le sanzioni amministrative in generale, dall’art. 1 della L. 24.11.1981, n. 689.

Sulla base di tale principio, nessuna violazione della norma tributaria può dar luogo all’irrogazione della sanzione se la relativa previsione legislativa non era in vigore al momento in cui essa è stata commessa.

È altresì esclusa la retroattività anche delle eventuali norme peggiorative rispetto a sanzioni già esistenti.

 

I requisiti psicologici dell’illecito amministrativo tributario

La normativa sanzionatoria tributaria, volta alla personalizzazione dell’illecito tributario, si impernia sull’art. 5 del D.Lgs. n. 472/1997, relativo al principio di colpevolezza.

Per colpevolezza è definito l’insieme dei criteri che consentono di muovere al soggetto agente una contestazione per avere commesso il fatto antigiuridico.

Il D.Lgs. n. 472/1997 ha accolto la concezione psicologica della colpevolezza, ciò la teoria secondo la quale la nozione in esame è identificata come il nesso psichico tra il fatto e l’autore dello stesso, nelle forme del dolo e della colpa.

Il requisito della «suitas» consiste nella coscienza e volontarietà della condotta in capo all’autore dell’illecito. Quanto all’elemento psicologico, esso può assumere in campo amministrativo tributario i caratteri del dolo o della colpa.

La circolare focalizza come segue tali nozioni, in quanto utilizzabili dal Fisco:

  • il dolo può ricondursi al c.d. «dolo specifico»; in base alla lettura testuale dell’art. 5, quarto comma, del D.Lgs. n. 472/1997, parrebbe infatti che non possa considerarsi doloso il comportamento che, pur violando la legge tributaria, non sia stato adottato intenzionalmente a tale scopo;

  • la colpa sorge quando l’illecito è «contro l’intenzione», ovvero si verifica per negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

 

Perché sorga responsabilità sanzionatoria amministrativa, è necessario che la violazione sia stata commessa quanto meno con colpa.

Il secondo periodo del primo comma, che richiama la regola valevole in tema di responsabilità professionale (art. 2236 c.c.), esclude che la semplice colpa rilevi al fine di configurare una violazione punibile a carico del consulente eventualmente in concorso con il contribuente o con l’autore della violazione, quando l’attività richiestagli attenga alla soluzione di problemi complessi.

Conseguentemente, la limitazione della responsabilità non riguarda lo svolgimento, da parte di soggetti investiti anche di attività di consulenza, di compiti di carattere esecutivo che non implichino la soluzione di problemi interpretativi o di compiti complessi.

 

 

Il problema della sanzionabilità dei comportamenti elusivi

Come è stato evidenziato in dottrina1, l’etichetta «elusione fiscale» copre:

  • un’elusione «generica», priva di norme esplicite di contrasto («mera elusione»);

  • un’elusione «codificata», che si connota quale «illecito» perché costituisce violazione di specifiche disposizioni tributarie.

 

Mentre la prima (eventualmente contestabile in base alla più recente giurisprudenza di legittimità in materia di abuso del diritto) appare concettualmente in contrasto con l’idea della sanzione correlata a una condotta illecita secondo la normativa vigente, per la seconda sembrerebbero non sussistere problemi.

È tuttavia evidente che, se essa consistesse in vere e proprie violazioni di norme «positive», non si tratterebbe di elusione nel senso fatto proprio dal primo comma dell’art. 37-bis (quale «aggiramento» di norme), bensì di un diretto contrasto della normativa (ossia di una norma antielusiva specifica, eventualmente «disapplicabile» dall’amministrazione su richiesta del contribuente, a norma dell’ottavo comma del medesimo art. 37-bis).

Secondo la dottrina cui si è fatto richiamo,

«… la punibilità dell’elusione, sia in ambito amministrativo, sia in ambito penale, non si basa su specifiche norme sanzionatorie (del tutto inesistenti), quanto piuttosto sul ruolo che l’art. 37-bis, e le altre norme antielusive, rivestono nella determinazione dei tributi e nell’autoliquidazione da parte dei contribuenti».

Valorizzando la natura meramente procedimentale della norma, è altresì osservato che il contribuente non è tenuto ad applicarla in sede di autoliquidazione, e che il disconoscimento consegue all’atto di accertamento, sicché imposta – o la maggiore imposta – risulta dovuta solo in seguito al controllo.

Secondo queste riflessioni, il comportamento elusivo non comporterebbe l’infedeltà della dichiarazione, e quindi nessuna sanzione risulterebbe dovuta.

A tale posizione si contrappone il diverso orientamento secondo il quale l’art. 37-bis avrebbe natura di norma sostanziale, con il correlato obbligo, in capo al contribuente, di conformarsi ad essa già in sede di autoliquidazione.

Inoltre, pur riconoscendo all’articolo carattere procedimentale, la sanzionabilità delle condotte elusive in sede amministrativa potrebbe essere ricondotta alle previsioni dell’art. 1, c. 2, del D.Lgs. n. 471/1997, ove è stabilito che

«se nella dichiarazione è indicato … un reddito imponibile inferiore a quello accertato … si applica la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento della maggiore imposta».

Ovviamente, si tratterebbe di escludere nell’accertamento «antielusivo» qualsiasi «specificità» rispetto agli accertamenti «ordinari» (analitici, induttivi, etc.), il che sembra alquanto difficile da sostenere: l’art. 37-bis si pone infatti nel contesto del D.P.R. n. 600/1973 come una sorta di corpus normativo autonomo, dotato di una propria procedura e di propri presupposti applicativi.

 

La vicenda esaminata dalla Cassazione

La Suprema Corte è intervenuta su un contenzioso che era scaturito da una contestazione di marca «antielusiva», formulata dall’Agenzia delle Entrate per contrastare una cessione di partecipazioni avvenuta in due «step»; in particolare:

  • nella prima fase, la società S.M.C.H. s.p.a. aveva trasferito alla K. s.p.a. il 60% delle partecipazioni detenute nelle proprie controllate;

  • nella seconda fase, la medesima cedente aveva trasferito il residuo 40% non alla K. s.p.a., bensì a un’altra società, S.M.C. della quale aveva acquisito contestualmente il pieno controllo, che a propria volta aveva ceduto le quote residue alla predetta K. s.p.a.

Questo iter «irrituale» era stato ritenuto dall’ufficio privo di valide ragioni economiche e diretto soltanto ad acquisire vantaggi fiscali, che erano stati negati con il recupero a tassazione dei relativi importi, considerando la complessiva operazione come elusiva ai sensi dell’art. 37-bis DPR n. 600/1973.

 

I principali motivi del ricorso per cassazione

La società sottoposta ad accertamento tenta la strada del ricorso per cassazione producendo una «costellazione» di motivi, i quali vengono raggruppati dalla Corte per pervenire a una decisione unitaria.

In primissimo luogo, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 37-bis, primo e secondo comma, del D.P.R. n. 600/1973, nonché dei principi comunitari e costituzionali in tema di abuso del diritto, affermando che l’ufficio aveva riscontrato solamente l’aggiramento di obblighi o divieti e il conseguimento di vantaggi indebiti, senza però accertare l’effettiva mancanza di valide ragioni economiche.

Seguono poi alcuni motivi imperniati sull’esistenza, nel caso specifico, di precedenti accordi per la cessione totalitaria delle partecipazioni al gruppo Ke., nonché all’asserita «illogicità» della motivazione (si tratta, comunque, di circostanze non rilevanti ai fini dell’illustrazione della problematica principale, relativa all’applicabilità delle sanzioni tributarie amministrative nelle ipotesi di elusione).

L’ottavo motivo di ricorso era invece relativo all’affermata violazione dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 e dei principi in materia di abuso del diritto: la ricorrente sosteneva a riguardo che una riduzione di prezzo non può essere di per sé elusiva, essendo la giustificazione economica «in re ipsa» e la diminuzione di plusvalenza in capo all’acquirente la logica conseguenza della diminuzione reddituale.

Inoltre, con l’undicesimo motivo aveva affermato la società una carenza di motivazione nella sentenza di merito, che avrebbe omesso di giustificare

«l’assenza di valide ragioni economiche nella acquisizione da parte della Ho. dell’intero capitale sociale di S.M.C. co., assunto che ritiene contraddetto dalle emergenze probatorie che attestavano l’interesse della società a liquidare i soci della S.M.C. co. dissenzienti rispetto alla integrazione dei gruppi».

 

Con il diciottesimo motivo, la parte deduceva la violazione e la falsa applicazione dell’art. 37-bis DPR n. 600/1973, dell’art. 2, primo comma, del D.Lgs. n. 471/1997, nonché dell’art. 32, secondo comma, DLgs. n. 446 del 1997, in relazione al problema delle sanzioni.

«Assume che alla ipotesi di ritenuta elusione fiscale di cui all’art. 37-bis citato non può conseguire l’applicazione di sanzioni, in quanto queste sono unicamente ricollegabili a violazioni di leggi tributarie, laddove la elusione delle stesse non costituisce violazione, ma semplice aggiramento delle stesse con strumenti astrattamente leciti, per cui unica conseguenza della elusione è la inopponibilità dell’atto alla Amministrazione finanziaria, con conseguente recupero della imposta e non la applicazione di una sanzione, come osservato dalla giurisprudenza comunitaria». 

Infine, col diciannovesimo motivo la società aveva dedotto la violazione dell’art. 1, c. 2, del D.Lgs. n. 546/1992 e dell’art. 112 c.p.c., in quanto la CTR avrebbe omesso di prendere in considerazione l’istanza subordinata formulata in appello, di disapplicazione delle sanzioni ex artt. 5 e 6 del D.Lgs. n. 472/1997, in difetto di dolo o colpa dell’agente e in presenza di incertezza sull’ambito applicativo della disciplina sulla elusione. 

 

L’orientamento assunto dalla Corte

La Cassazione ha inequivocabilmente affermato l’infondatezza del primo punto, con le seguenti argomentazioni:

«Se è vero … che per ritenere verificata una ipotesi di abuso del diritto ai sensi dell’art. 37-bis c.p.c. è necessario che gli atti diretti ad ottenere vantaggi fiscali con l’aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario siano privi di valide ragioni economiche, questo ultimo requisito, a differenza dei primi due, può ritenersi implicitamente verificato, ove si assuma, come nella sentenza impugnata, che l’unico motivo dell’aggiramento della norma tributaria sia il conseguimento di un vantaggio fiscale».

 

Nel periodo sopra riportato possono notarsi:

  1. la piena assimilazione tra abuso del diritto ed elusione «codificata»;

  2. l’affermazione che le valide ragioni economiche sono in sé insussistenti se l’unica motivazione del comportamento (dell’«aggiramento») è fiscale.

«Infatti la sentenza afferma che il discrimine tra una attività lecita ed elusiva consiste nel fatto che la seconda è compiuta ‘essenzialmente … per il conseguimento di un vantaggio economico (sul piano fiscale)’ e ciò esclude, univocamente, la presenza di una valida ragione economica di fondo, la quale, ove esistente, si pone come elemento in primo luogo anteriore, ma comunque diverso ed aggiuntivo rispetto al mero vantaggio pecuniario perseguito con l’aggiramento della normativa fiscale».

«Ciò è così vero che la stessa sentenza richiama, correttamente il principio giurisprudenziale secondo cui una volta che si sia in presenza di atto che appaia di abuso del diritto l’onere di provare la esistenza di valide ragioni economiche per compierlo ricade sul contribuente (Cass. n. 8772 del 2008)».

 

I motivi seguenti (secondo, terzo e quarto) sono stati rigettati unitariamente dalla Corte affermando che non erano stati adeguatamente dimostrati i vizi di motivazione della sentenza della CTR.

Infatti,

«la motivazione espressa dalla CTR, per quanto sintetica, è chiara e non contraddittoria. Era quindi onere della ricorrente dedurre elementi di prova trascurati o fraintesi da cui si potesse evincere l’errore di ricostruzione del fatto operato dal giudice di appello».

«Quanto all’assunto secondo cui l’apparato accusatorio cadrebbe ove non fosse provato il previo intendimento di trasferire la totalità delle partecipazioni, ma solo la quota di maggioranza, questo manca in ogni caso del carattere di decisività in relazione all’impianto motivazionale della sentenza».

«È infatti necessario e sufficiente che rimanga provata la preordinazione in ordine al passaggio a K. del 40% delle quote, per ritenere di conseguenza artificiosa la cessione ad una società terza la quale a sua volta aveva il compito esclusivo di rivendere le quote all’acquirente designato in precedenza».

«In sostanza rimane incontestato, anche per la ricorrente, che SMC Co. era una ‘società veicolo’ che non aveva alcun potere autonomo di disposizione della partecipazioni acquisite e che era un mero strumento per il trasferimento della quote al predesignato gruppo Ke..
E’ inoltre chiaro che il controllo totalitario della società veicolo era un elemento essenziale per il compimento della operazione, e quindi per la realizzazione del disegno elusivo, con reiezione del sesto motivo per la parte concernente tale questione».

«È bene a questo punto sottolineare che in nessuno dei motivi di ricorso relativi a difetto di motivazione, che nella loro pluralità tendono a “parcellizzare” il tessuto motivazionale della sentenza, che invece è unitario, la ricorrente espone un qualsivoglia valido motivo, obiettivamente documentato in causa, da cui possa evincersi che la vendita delle partecipazioni a Ke. tramite SMC co. fosse funzionale ad alcun altro fine diverso dall’ottenimento dei benefici fiscali».

 

Parallelamente riscontrando l’incontestabilità dell’operato della CTR sul punto della «fittizietà» delle operazioni intercorse (intesa come «predisposizione al fine di aggirare la normativa fiscale ed ottenere un beneficio in tale ambito»), la Cassazione ha rigettato anche il quinto e il sesto motivo di ricorso.

Analoghe considerazioni devono farsi per i successivi motivi di ricorso, relativi alla rettifica del prezzo di vendita delle partecipazioni, dalla quale era scaturita una minusvalenza di un miliardo di lire (dichiarata inopponibili all’amministrazione finanziaria),

II settimo, l’ottavo ed il nono motivo possono essere trattati congiuntamente in quanto tutti relativi alla “rettifica di prezzo” della vendita delle quote di partecipazioni a SMC, dalla quale è derivata, ad avviso della CTR, la minusvalenza di £ 1.000.000.000, dichiarata inopponibile alla Amministrazione Finanziaria.

E infondati pure sono apparsi i motivi decimo, undicesimo, dodicesimo, riferiti alla svalutazione operata dalla Ho. della partecipazione della stessa al capitale di SMC.

A tale riguardo, la S.C. ha affermato che

«la asserzione della CTR circa la elusività dell’operazione si collega, sotto il profilo motivazionale, alle precedenti, che hanno come base fondante l’utilizzo ingiustificato della società veicolo nella cessione a Ke..

Poiché la motivazione non è né inesistente né contraddittoria, spettava alla ricorrente, che sostiene la insufficienza della stessa sotto l’aspetto logico ed argomentativo, illustrare la erroneità della asserzione del giudice di appello evidenziando argomenti svolti in sede di gravame da cui emergessero fatti obiettivi non considerati o fraintesi dalla CTR».

«Detti argomenti, illustrati nei motivi, non sono idonei al fine prospettato (quello di esporre valide ragioni economiche per la operazione) in quanto sfuggono al tema trattato».

 

Allo stesso modo vengono trattati i rilievi relativi agli ulteriori aspetti del contenzioso di merito (svalutazione della partecipazione nella società “Im. So. s.r.l.”).

 

In particolare sulla sanzionabilità dell’elusione

Il punto di più notevole interesse toccato dalla pronuncia riguarda il diciottesimo motivo di ricorso, e nella sostanza afferma con chiarezza la legittimità delle sanzioni amministrative irrogate nei confronti del contribuente che pone in essere un comportamento elusivo ai sensi dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, nonché, si comprende da quanto viene puntualizzato dalla Corte, anche delle ipotesi in senso lato elusive che vengano fatte rientrare nella nozione di «abuso del diritto» e siano oggetto di accertamento.

In buona sostanza, quindi, secondo l’orientamento espresso dai giudici di legittimità un determinato comportamento, ritenuto elusivo dal Fisco in sede di controllo, e quindi «disconosciuto» ex post (con i conseguenti recuperi a tassazione), ancorché pienamente legittimo in base alle norme del diritto positivo, «porta con sé» le sanzioni, che ordinariamente devono collegarsi a una violazione diretta di norme tributarie.

Per meglio chiarire la questione, può evidenziarsi che tali sanzioni risulterebbero applicabili in assenza di violazioni della norma tributaria (con qualche problema per la tenuta del principio di legalità, per lo meno come esso è comunemente inteso).

La Corte giunge a tale affermazione riconoscendo che

«è nota la esistenza in dottrina di una tesi secondo la quale l’art. 37-bis collocato peraltro nel DPR n. 600 del 1973 … ha natura meramente procedimentale»,

e pertanto

«la dichiarazione dei redditi del soggetto che pone in essere operazioni elusive non può considerarsi infedele, per cui l’unica conseguenza prevista dall’art. 37-bis sarebbe il disconoscimento del vantaggio fiscale…».

Sul punto del principio di legalità, poi, la stessa Sezione tributaria esclude

«che una sanzione amministrativa in materia tributaria possa essere applicata a fronte della violazione non di una precisa diposizione di legge ma di un principio generale, quale quello antielusivo ritenuto immanente al sistema anche anteriormente alla introduzione di una normativa specifica, come ritenuto da questa Corte (Cass., Sez. Un. n. 30055 del 2008) e dalla giurisprudenza comunitaria». 

 

Tale indicazione promana, peraltro, dalla nota sentenza comunitaria c.d. Halifax (sentenza del 21.2.2006, nella causa C-255/02), richiamata dalla parte ricorrente.

La Corte però supera – sorvola senza ulteriori riflessioni – queste considerazioni, osservando che l’amministrazione, procedendo a norma dell’art. 37-bis, deve emettere avviso di accertamento motivato, e che le sanzioni tributarie sono applicate allorquando nella dichiarazione sia stato indicato un imponibile inferiore rispetto a quello accertato (art. 1, D.Lgs. n. 471/1997).

«Da tale disposizione si evince che la legge non considera per la applicazione delle sanzioni quale criterio scriminante la violazione della legge o la sua elusione o aggiramento, essendo necessario e sufficiente che le voci di reddito evidenziate nella dichiarazione siano inferiori a quelle accertate o siano “indebite”, aggettivo espressamente menzionato nel primo comma dell’art. 37-bis cit.».

«In sostanza le sanzioni si applicano per il solo fatto che la dichiarazione del contribuente sia difforme rispetto all’accertamento. Tale conclusione è rafforzata dal testo del comma sesto della stessa disposizione, che prevede che le maggiori imposte accertate siano iscritte a ruolo “secondo i criteri di cui all’art. 68, DLgs. n. 546 del 1992 concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecuniarie in corso di giudizio” rendendo così evidente che il legislatore ritiene la applicazione di sanzioni come effetto naturale dell’esito dell’accertamento in materia di atti elusivi».

Relativamente poi all’elemento psicologico che può legittimare l’irrogazione della sanzione – dolo specifico – esso è ritenuto sussistente dalla Corte, che si allinea a quanto posto in luce dalla sentenza di merito.

Sulle considerazioni espresse dalla Corte può conclusivamente affermarsi che il contrasto logico (relativamente alle sanzioni applicabili in assenza di violazioni dirette di norme) permane, giacché, nel vigente ordinamento sanzionatorio tributario, il principio di legalità non sembra essere derogabile: sembra quindi di poter individuare un «vizio», o una lacuna, nella normativa di riferimento, a fronte peraltro di disposizioni specifiche che escludono l’applicazione delle sanzioni in presenza di condizioni di incertezza (art. 6, secondo comma, D.Lgs. n. 472/1997; art. 10, terzo comma, L. n. 212/2000, c.d. Statuto del contribuente).

 

8 marzo 2012

Fabio Carrirolo

 

NOTE

1 Cfr. L. Del Federico, «Elusione e illecito tributario», Il Corriere Tributario n. 39/2006, pp. 3110 e ss..