Il trasferimento della sede sociale in una zona «depressa»

analizziamo una particolare fattispecie di giurispudenza in tema di “abuso del diritto”: il trasferimento “immotivato” della sede della società è da considerare antieconomico?

 

Aspetti generali

La nozione di abuso del diritto ha rappresentato e rappresenta – sulla scia di una successione di sentenze di legittimità che le hanno riconosciuto un ruolo via via sempre più importante – una sorta di «clausola generale» invocabile sempre e comunque, anche in difetto e «supplenza» di disposizioni antielusive specificamente orientate a colpire un determinato comportamento (ad esempio nel sistema dell’IVA, oppure con riferimento alle epoche anteriori rispetto all’introduzione dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973).

È stato tuttavia chiarito che l’introduzione di un diritto «pretorio» collide con gli interessi della stessa Amministrazione, che si sente più a proprio agio, per così dire, se può contare su un sistema di regole condivise e normativamente codificate, nella cornice di un sistema di civil law come è il nostro.

Per questi motivi, l’abuso del diritto può forse essere evocato laddove risultano insufficienti le tradizionali norme di contrasto, perché le fattispecie sconfinano nell’ambito penale della frode, ma risulta «ingombrante» in un contesto tutto tributario, caratterizzato da disposizioni stringenti e da previsioni tassative, nonché – come si diceva – dalla presenza di una disposizione idonea a coprire una vasta serie di ipotesi elusive, per lo meno nel settore delle imposte sui redditi.

In particolare, il presente contributo si occupa di un’ipotesi sottoposta alla Suprema Corte, nella quale si rende evidente che l’utilizzo di una disposizione normativa agevolativa non può di per sé costituire un segnale di abuso. Ciò è stato sostanzialmente rimarcato nella sentenza n. 10383 del 12.5.2011, chiarendo che il trasferimento della sede sociale in una zona «depressa», oggetto di agevolazioni tributarie (esenzione decennale IRPEG) non costituisce un’ipotesi elusiva.

 

La nozione di abuso del diritto

Il movimento normativo-giurisprudenziale e di prassi che ha condotto alla situazione attuale manifesta, nel corso degli anni, le difficoltà di tutti gli organismi coinvolti a circoscrivere, controllare, comprendere e contrastare una realtà fatta di comportamenti proteiformi, perché fondati sull’aggiramento «con destrezza» delle norme, e spesso anche sull’utilizzo «gli uni contro gli altri» di diversi ordinamenti nazionali, con la finalità di ridurre o eliminare il carico impositivo.

Sono stati di volta in volta seguiti i percorsi della prevalenza degli aspetti sostanziali (art. 20 del T.U. dell’imposta di registro), della nullità civilistica del negozio, e – per l’appunto, dell’abuso del diritto, che dapprima si è voluto fondare sul diritto comunitario vivente, e quindi – con riferimento anche ai tributi non armonizzati – direttamente sull’art. 53 della Costituzione.

Il percorso seguito dalla Corte appare come una ricerca incessante e pluriennale di una «clausola generale» antielusiva, che si rivolge infine agli stessi principi-base che presidiano il sistema tributario italiano, e sembra prescindere dall’esistenza di specifiche disposizioni di contrasto a livello normativo «primario» (tali disposizioni antielusive apparendo tutt’al più quale «mero sintomo» dell’esistenza della regola generale).

 

Il comportamento antieconomico dell’impresa

La Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (sentenza 3.8.2001, n. 10650), con richiamo alla precedente giurisprudenza di legittimità (Cass. 9.2.2001, n. 1821; Cass. 27.9.2000, n. 12813), ha evidenziato che: «non si vuole … introdurre il requisito della “antieconomicità” quale componente dell’evasione fiscale “tout court”; ma va tenuto conto che l’antieconomicità di un comportamento può rappresentare un serio elemento probatorio in ordine ad una evasione…».

Inoltre, «rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e la rettifica di queste ultime, anche se non ricorrono irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa; pertanto, la deducibilità dei compensi agli amministratori, soci e non soci, delle società in nome collettivo non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti» (Cass. Sez. Trib., sentenza 3.8.2001 n. 10650).

In linea generale, tutto quanto è classificabile nella categoria delle «scelte economiche dell’imprenditore» dovrebbe ritenersi escluso da possibilità di contestazione da parte delle autorità fiscali.

La possibile «censurabilità» di un comportamento «infondato» (o non adeguatamente fondato) sotto il profilo economico, con le derivanti conseguenze ai fini fiscali, sembra incrociare l’analoga problematica delle «valide ragioni economiche», utilizzate quale criterio-guida nell’ambito della valutazione della possibile elusività dei comportamenti dell’impresa, sia in sede di accertamento e interpello ex art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 e art. 21, L. n. 413/1991, sia nell’ambito dell’interpello specifico incardinato nell’ottavo comma del medesimo articolo.

Le ragioni «economicamente valide» si traducono infatti nell’«apprezzabilità economico-gestionale» del comportamento, ossia nella sua fondatezza dal punto di vista del progetto imprenditoriale, o quanto meno nel suo non essere «antieconomico», vale a dire irragionevole (alla luce della massima di «senso comune» che dice che l’impresa è volta a produrre un utile, e non semplicemente alla sua autoconservazione). È chiaro tuttavia che l’impresa è a volte di per sé una sorta di «paradosso», perché richiede una forte capacità di «scommettere» sul futuro, evitando gli investimenti meno rischiosi o più remunerativi per puro «spirito imprenditoriale».

 

In sintesi: la questione sottoposta alla Suprema Corte (transfer price interno)

Il caso esaminato dalla Corte – nella sentenza del 2011 in commento – trae origine da un contenzioso generato dalle contestazioni della G.d.F., in uno schema di trasfer pricing interno tra la società verificata e un’altra società, appartenente alla medesima compagine familiare e societaria, che fruiva di agevolazioni fiscali (esenzione IRPEG) perché situata in un’area depressa.

Si osserva a tale riguardo che il fenomeno del trasfer pricing interno, che non è espressamente disciplinato dal legislatore tributario, è stato esaminato nella circolare ministeriale 26.2.1999, n. 53/E/1999/34112, la quale, dopo aver escluso l’applicabilità della normativa sui prezzi di trasferimento e quella in materia di elusione fiscale contenuta nell’articolo 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, ha riconosciuto la possibilità di ricorrere all’accertamento analitico-induttivo, ai sensi dell’articolo 39, primo comma, lettera d), del D.P.R. n. 600/1973, e alla disposizione sull’interposizione soggettiva, disciplinata nell’art. 37, c. 3, del medesimo decreto sull’accertamento.

La circolare precisa che lo strumento può essere utilizzato da società controllanti o collegate, con sede nei territori del Centro-Nord, che cedono merci o beni immateriali alle controllate o consociate aventi sede nel Mezzogiorno ad un prezzo inferiore al valore normale così come definito dall’art. 9 del TUIR.

Tale manovra consente di realizzare una contrazione dell’utile per l’impresa settentrionale con reddito assoggettato alle aliquote ordinarie e di «gonfiare» l’utile dell’impresa meridionale che gode delle agevolazioni fiscali stabilite dall’art. 26 del D.P.R. n. 601/1973.

Con riferimento al caso di specie, sussistevano in verità dei forti elementi di sospetto che facevano propendere l’Amministrazione, e con essa i giudici di prime cure, per un complessivo giudizio di elusività/strumentalità della stessa al vantaggio fiscale: in particolare, la motivazione unicamente fiscale, e non economica, delle transazioni con la società in area disagiata sarebbe stata svelata dalla stessa società verificata/accertata/ricorrente, anche considerando la natura delle operazioni poste in essere, di semplice acquisto e successiva cessione di materie prime «dopo un semplice miscelamento con altre sostanze che non richiedevano l’impiego di alcuna tecnologia», a un prezzo assai più elevato rispetto a quello originariamente corrisposto.

In tale contesto, la cessione era stata ritenuta priva di valige ragioni economiche in quanto «totalmente priva di mezzi e di dipendenti necessari per effettuare qualunque operazione», benché le «materie prime» venissero poi «acquistate dalla società acquirente «a prezzi talmente alti da evidenziare la natura antieconomica degli acquisti».

Sembra di cogliere in questa impostazione più l’intenzione di far leva sull’antieconomicità del comportamento imprenditoriale (opzione quasi sicuramente più fruttuosa rispetto alla strada dell’abuso del diritto, alla luce della giurisprudenza formatasi in materia): ciò nonostante, il contenzioso si «piega» verso l’abuso, «ipotesi di lavoro» probabilmente indotta dall’evocazione delle valide ragioni economiche, la cui valutazione è comunque «limitrofa» rispetto a quella operata in sede di «sindacato» antielusivo.

Ciò detto, occorre precisare che la contestazione del comportamento antieconomico poteva essere effettuata con riferimento alla società partner che acquistava la materia prima «rimaneggiata» a un prezzo troppo elevato, e non già alla società «esentata».

Anche le dimostrazioni fornite dalla parte controricorrente per cassazione (ossia dalla difesa della società) appaiono modeste – nella sintesi operata dalla S.C., in quanto appare difficile ritenere che un opificio industriale di proprietà dell’impresa in area disagiata impieghi un solo operaio, mantenendosi «operativa», mentre non sembra adeguatamente chiarita la «non antieconomicità» del comportamento.

 

La soluzione fornita dalla Cassazione

Il problema – per la parte erariale – è costituito dal fatto che la Corte ha letto e deciso sulla controversia sollevata in sede di legittimità, utilizzando la «lente» dell’abuso del diritto, che forse poteva non essere impiegata nella fattispecie in esame.

è quindi presente nella pronuncia uno sforzo ricostruttivo per riprendere i fili della questione «abuso», nozione dapprima innestata sul diritto comunitario e quindi su quello interno costituzionale, distillando dei principi dai quali si evince «che per la sussistenza della peculiare fattispecie (o “figura”) denominata “abuso di diritto” l’operazione economica contestata deve essere stata posta in essere dal contribuente esclusivamente per ottenere un beneficio fiscale “indebito”, ovverosia una riduzione od una eliminazione dell’imposta altrimenti non dovute, e che, come ovvio, il beneficio fiscale considerato “indebito” deve essere stato conseguito dal contribuente e non da altri, come dalla controparte dell’operazione detta».

È quindi esclusa ogni ipotesi «abusiva» per le cessioni a «prezzo spropositato», perché solo dalla deduzione del costo effettuata dalla società «esentata» poteva derivare un vantaggio fiscale, e non già dall’elevata percentuale di ricarico applicata.

Inoltre, alla costituzione di un soggetto societario e alla successiva effettuazione di cessioni nei confronti dello stesso veniva disconosciuta natura elusiva, dato che la leva fiscale e contributiva (comportante la concessione di agevolazioni alle imprese) veniva ritenuta uno strumento ordinario offerto al legislatore «per il conseguimento di finalità socio economiche ritenute necessarie e/o, comunque, meritevoli».

L’introduzione di norme agevolative quali quelle considerate nella sentenza, peraltro, è stata ritenuta non in contrasto con gli artt. 3, 41 e 53 della Costituzione, in quanto:

  • tesa a correggere «le situazioni di fatto in cui vengono a trovarsi, rispetto agli obiettivi di incentivazione perseguiti dal legislatore, le società di nuova costituzione rispetto a quelle già esistenti»;

  • «rivolta alla creazione di nuove imprese societarie, si risolve in un incentivo alla sviluppo dell’iniziativa economica privata»;

  • volta a beneficiare le società di nuova costituzione, «impegnate nella difficile e gravosa fase dell’avvio della loro attività imprenditoriale», che le colloca «in una situazione di minore capacità contributiva rispetto alle società già esistenti e da tempo operanti sul mercato».

     

Ciò fa dire ai Supremi Giudici che «il perseguimento del “risparmio fiscale” concesso (nel concorso delle condizioni previste) dal legislatore ad un insediamento produttivo nelle zone svantaggiate costituisce scopo lecito dell’attività giuridica (oltre che propriamente economica) non solo di costituzione di quell’insediamento ma anche della produzione e del conseguente commercio del prodotto ottenuto».

 

Considerazioni di sintesi

Senza poter compiere un esame approfondito degli elementi riscontrati dai giudici di merito, sembra a chi scrive che le elaborazioni della Suprema Corte siano la conseguenza (più o meno) logica di una linea interpretativa un po’ troppo spostata sull’evocazione di una clausola residuale dalla natura e dai confini incerti, come – per l’appunto – l’abuso del diritto, mentre ben potevano essere valorizzati altri elementi, in una cornice «contestuale» delle operazioni poste in essere.

In ogni caso, è chiaro che la tenuta di una qualsivoglia contestazione fiscale nell’ambito del sistema di impresa è subordinata al riconoscimento di un vantaggio rilevabile, certo o altamente presumibile (nel contesto antielusivo): e ciò occorre appunto verificare, al di là delle affermazioni in ordine all’antieconomicità, peraltro difficili da trasferire, nel caso di specie, dalla società cedente a quella acquirente (verificata/accertata).

 

20 giugno 2011

Fabio Carrirolo