La plusvalenza da cessione di immobile: accertamento presuntivo sulla base del “valore di registro”

analizziamo, alla luce della recente giurisprudenza di Cassazione, l’annosa questione che riguarda il valore accertabile su una plusvalenza immobiliare: quello valido per l’imposta di registro si trasferisce anche alle imposte dirette?

Con due ordinanze del 2010, la Corte di Cassazione è intervenuta in materia di accertamento induttivo avente ad oggetto le plusvalenze immobiliari.

La Corte, nello specifico, è stata chiamata a confermare o meno l’orientamento che vede gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate effettuare l’accertamento assumendo come base di calcolo della plusvalenza il valore dell’immobile così come risultante da un precedente accertamento, definitivo, operato ai fini dell’imposta di registro.

La questione, in realtà vecchia e mai risolta, si ripresenta con alcuni interessanti sviluppi.

In primo luogo, sono utili ricordare le differenze che esistono nella determinazione della plusvalenza da tassare ai fini IRES/IRPEF e il valore da assoggettare all’imposta di registro.

Ai fini del registro, le regole sono quelle tipiche dell’imposta d’atto. La base imponibile è data dal corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita. Le parti, in solido, sono tenute a versare l’imposta dovuta. A tale regola, l’art. 51, c. 2, del DPR n. 131/1986, prevede una deroga secondo cui “per gli atti che hanno per oggetto beni immobili o diritti reali immobiliari, si intende per valore, il valore venale in comune commercio”.

In sede di controllo, quindi, l’Ufficio verifica il valore riportato nell’atto e se inferiore a quello venale in commercio, provvede alla rettifica notificando apposito accertamento (denominato di rettifica e liquidazione) per recuperare l’imposta dovuta, oltre che le sanzioni e gli interessi.

Per valore venale si intende quel prezzo che si riesce ad ottenere in una libera contrattazione di mercato, in condizioni normali. Si tratta di un paramento non oggettivo che deve essere ricostruito con passaggi logico-giuridici.

Dato che non si attiva l’accertamento se il valore dichiarato è congruo (uguale o maggiore a quello venale) è evidente che il ricorso al valore venale rappresenta una deroga al criterio di determinazione della base imponibile dell’imposta di registro che è (e resta) il corrispettivo stabilito dalle parti.

Ai fini delle imposte dirette, la plusvalenza è data dalla differenza tra corrispettivo e costo di acquisizione. Ciò è vero sia nell’ambito della tassazione delle persone fisiche (art. 67 e 68 del TUIR) sia ai fini del reddito di impresa (art. 86 del TUIR).

Non rileva ai fini della tassazione, né IRPEF né IRES, il valore normale di cui all’art. 9 del TUIR. Questo, infatti, viene assunto dalla norma per finalità diverse e ben precise e solo come alternativa più generale, all’ordinaria tassazione basata sul corrispettivo.

In sede di accertamento, gli Uffici possono far ricorso al cd. accertamento analitico- induttivo di cui all’art. 39 del DPR n. 600/1973. Gli Uffici possono rideterminare il reddito quando sono presenti incompletezze, falsità ed inesattezze degli elementi indicati in dichiarazione, oppure l’esistenza di attività non dichiarate sono desumibili da presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti.

La sussistenza delle presunzioni “qualificate” (gravi, precise e concordanti) comporta l’inversione dell’onere della prova che, quindi, viene posta in capo al contribuente.

Dall’inquadramento sistematico delle norme vigenti, quindi, sembra emergere che l’Amministrazione Finanziaria possa procedere alla rettifica del reddito sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti. Uno dei dati acquisibili, ai fini della valutazione, può essere sicuramente anche il valore venale in comune commercio che si è reso definitivo a seguito di accertamento. Tuttavia esso è “un dato” che deve essere avvalorato da altri dati convergenti ovvero da motivazioni puntuali. In sostanza, se viene utilizzato solo il dato rinveniente dall’accertato ai fini del registro ci si trova di fronte ad un presunzione semplice che deve essere integrata con elementi aggiuntivi i quali consentono di ottenere una presunzione “qualificata” in grado di invertire l’onere dalla prova.

La controprova che questa dovrebbe essere la corretta interpretazione è data dal fatto che era stata inserita all’art. 39 citato una disposizione che consentiva, automaticamente di rettificare il valore dei beni immobili sulla sola base del valore normale, considerando tale presunzione grave, precisa e concordante(modifica apportata dall’art. 35, c. 3, D.l. n. 223/2006). La norma ha avuto vita brevissima ed è stata soppressa dall’art. 24 della L. n. 88/2009. Ciò che in questa sede è utile rilevare è che, se si era resa necessaria una disposizione ad hoc per consentire l’attività di accertamento immobiliare sulla base del valore venale, al contrario – cioè senza la disposizione specifica – detta attività è preclusa o, almeno, non opera alcun automatismo accertativo.

Ai fini che qui interessano, facendo leva sulla presunzione, gli Uffici finanziari sono soliti assumere il valore già accertato in via definitiva (anche con adesione) ai fini dell’imposta di registro per effettuare la rettifica dei redditi dei soggetti che hanno venduto l’immobile. Tale presunzione viene considerata “qualificata” e quindi di per sé motivazione dell’atto di accertamento (senza altra indagine o acquisizione di dati e notizie), con l’ulteriore considerazione che detta presunzione è in grado di invertire l’onere della prova.

L’Amministrazione finanziaria, peraltro, si è espressa sull’argomento con una datata interpretazione. (RM n. 9/1437 del 1/7/1980). L’Amministrazione aveva sostenuto che un corrispettivo di cessione diverso dal valore definito ai fini del registro“non sembra, in via di principio, che possa legittimare, di per sè, una ripresa fiscale ai fini delle imposte sul reddito; in altri termini la definizione dell’accertamento ai fini dell’imposta di registro non può esplicare una efficacia automatica anche ai fini delle imposte dirette atteso che, per queste ultime, la determinazione del reddito d’impresa va fatta mediante la contrapposizione di costi e ricavi nella loro effettiva misura, mentre, com’è noto, l’ imposta di registro colpisce non già il prezzo bensì il valore dei beni oggetto di trasferimento”. Ciò premesso, poi, l’Amministrazione segnalava che in sede di accertamento “la definizione relativamente alle imposte indirette non può neppure costituire un limite alla ripresa fiscale per gli stessi motivi per i quali prima ne è stata esclusa l’ automatica efficacia”. In pratica, l’accertamento può basarsi anche sul valore accertato ai fini del registro che “costituisce, indubbiamente, un valido elemento per il predetto accertamento pur, anche in questo caso, non costituendo, necessariamente, un limite invalicabile per l’ Ufficio” In ultimo viene precisato che “la definizione ai fini dell’imposta di registro non può, di per sè, spiegare automatica efficacia anche ai fini delle imposte dirette in quanto intervenuta sul “valore” del bene; ma non può escludersi che essa possa avere non di meno rilevanza presuntiva in concorso con altri elementi”. La risoluzione è stata riportata ampiamente e testualmente perché non fornisce un chiarimento che possa veramente definirsi tale. E’ pur vero che negli ultimi anni la normativa sugli accertamenti si è sviluppata e sono maturati nuovi principi interpretativi, ma la risoluzione lascia aperta la strada ad ogni interpretazione. La cosa importante però da sottolineare è che evidentemente gli Uffici “leggono” in questa interpretazione una fonte di legittimazione (amministrativa) del proprio operato inprontandolo, sic et simpliciter, ad assumere, come presunzione presunzioni grave, precisa e concordante, il valore definito nell’ambito dell’imposta di registro anche ai fini delle imposte dirette.

Le due ordinanze della Corte di Cassazione cercano di fare chiarezza sul punto.

Con l’ordinanza n.1333 del 25/1/2010 la Corte di Cassazione ha esaminato un accertamento in materia di tassazione dei redditi diversi derivanti da una plusvalenza realizzata da una persona fisica per la cessione di un terreno edificabile. Ovviamente, gli Uffici avevano assunto come base del calcolo della plusvalenza, il valore del terreno edificabile accertato, in via definitiva, ai fini dell’imposta di registro. La Corte si è espressa nel riconoscere la legittimità dell’accertamento, sostenendo che l’Amministrazione Finanziaria può fondare l’accertamento in parola assumendo, quale presunzione, il valore del bene accertato ai fini dell’imposta di registro, valore evidentemente più basso del corrispettivo indicato nell’atto di compravendita. La Corte conferma che si tratta di una presunzione legale relativa che ammette, anche in via indiziaria, la prova contraria da parte del contribuente. Testualmente “la giurisprudenza di questa Corte è consolidatamente orientata a ritenere che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere in via induttiva all’accertamento del reddito da plusvalenza patrimoniale, realizzata a seguito di cessione immobiliare, sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, e che è onere probatorio del contribuente superare (anche con ricorso ad elementi indiziari) la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro, dimostrando di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore (v. Cass. 4057/07, 21055/05, 14448/00)”.

Detto filone interpretativo trova conferma nella più recente pronuncia della Corte di Cassazione (ordinanza 9 novembre 2010, n. 22793 che, però, quasi senza darne peso, precisa la natura dell’accertamento con conseguenze, come si accennerà, importanti.

Nell’ordinanza, la Corte ha ribadito che nel caso esaminato – compravendita di terreno tra persone giuridiche – l’Ufficio ha legittimamente utilizzato tutte le informazioni in suo possesso e quindi anche quelle derivanti dall’accertamento di valore operato ai fini dell’imposta di registro.

Su un altro punto su cui era chiamata a decidere, la Corte ha sottolineato che non rileva la circostanza che il prezzo indicato nell’atto di compravendita risulti non solo nella contabilità del cedente (soggetto accertato) ma anche nella contabilità dell’acquirente La Corte, probabilmente, pur riconoscendo che le parti hanno interessi contrapposti e quindi l’acquirente potrebbe avere interesse a far emergere il prezzo effettivo, ha espressamente fatto notare che anche nelle transazioni tra persone giuridiche, così come per quelle fatte dalle persone fisiche, è possibile eseguire vendite “in nero”.

Il punto più interessante dell’ordinanza è però un altro. La Corte esprime un ulteriore principio che costituisce peraltro motivo di rinvio al giudizio di merito: al pari dell’accertamento operato ai fini degli studi di settore, l’accertamento in oggetto – a parere della Corte –rientra tra quelli effettuati in base a parametri, ossia agli accertamenti che si basano su valori standard a cui i contribuenti dovrebbero adeguarsi.

Infatti, così come negli studi di settore si utilizzano, come standard, le presunzioni del modello statistico, ai fini dell’imposta di registro si utilizza, come standard, il “valore venale in comune commercio”.

A parere della Corte, deve intendersi superato l’orientamento secondo cui il mancato adeguamento allo standard costituisce motivo sufficiente per invertire l’onere della prova (l’ordinanza richiama la sentenza n. 2816/2008). Le Sezione Unite della stessa Corte, con la sentenza n. 26635/2009 hanno reputato insufficiente, ai fini della motivazione, il mancato adeguamento allo standard. fondare l’accertamento solo sull’adeguamento o meno allo standard. In pratica, è legittimo presumere che il valore accertato ai fini del registro possa essere valido anche ai fini delle imposte dirette, ma l’Ufficio deve ulteriormente motivare l’accertamento, con altri dati e notizie convergenti.

Da ciò ne dovrebbe discendere che la materia sicuramente formerà oggetto di nuova ed ulteriore giurisprudenza. Infatti, dopo che la Corte ha segnalato che la presunzione in esame è declassata da “qualificata” a “semplice”, senza quindi l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, è lecito attendere che saranno impugnati numerosi accertamenti per per carenza di motivazione.

1 marzo 2011

Francesco Leone