Rimborsi fiscali e rivalutazione monetaria

La rivalutazione monetaria è l’adeguamento del potere d’acquisto di un determinato importo, ad un tempo successivo alla data nella quale doveva essere corrisposto l’importo stesso. La spettanza della rivalutazione monetaria al rimborso di maggiori ritenute ha costituito una questione fiscale particolarmente spinosa che solo di recente ha trovato soluzione, con un orientamento giurisprudenziale che merita di essere segnalato

Cos’è la rivalutazione monetaria

La rivalutazione monetaria è l’adeguamento del potere d’acquisto di un determinato importo, ad un tempo successivo alla data nella quale doveva essere corrisposto l’importo stesso.

La spettanza della rivalutazione monetaria al rimborso di maggiori ritenute, a suo tempo (erroneamente) operate dal datore di lavoro, ha costituito una questione fiscale particolarmente spinosa e controversa che solo di recente ha trovato univoca soluzione, con un ormai consolidato e qualificato orientamento giurisprudenziale che merita di essere segnalato.

La controversia sulla spettanza della rivalutazione monetaria è solitamente accessoria a quella principale, tendente ad ottenere il rimborso della quota IRPEF indebitamente trattenuta (e, quindi, riversata) dal datore di lavoro all’atto della liquidazione del trattamento di fine rapporto (TFR) dovuto al dipendente collocato a riposo.

La richiesta del contribuente – proposta prima in via amministrativa e, in caso di rifiuto espresso o tacito, in sede giurisdizionale –   è volta ad ottenere, oltre al rimborso della maggiore IRPEF corrisposta ed agli interessi di legge,  anche la rivalutazione di detto credito, aumentato degli indici ISTAT, a decorrere dal momento della liquidazione del trattamento di fine rapporto.

L’amministrazione finanziaria motiva la propria resistenza alla corresponsione della rivalutazione monetaria osservando che il diritto al rimborso di un’imposta illegittimamente trattenuta non è automaticamente soggetto ad essere rivalutato.

Il rapporto d’imposta, infatti, è strutturato come avente ad oggetto un’obbligazione pecuniaria, correlata con oneri ed obblighi strumentali rispetto ad essa, nonché un’obbligazione di interessi regolata da norme speciali in una prefissata misura legale in caso di obiettivo ritardo  nell’adempimento dell’una o dell’altra parte.

Ed infatti, vi sono disposizioni particolari specificamente emanate (artt. 44 e 44 bis del DPR 602/1973 per le imposte dirette; art. 5 legge 29/1961 per le imposte indirette, nonché l’art. 7 della legge 482/1985) che riconoscono esclusivamente il pagamento degli interessi semestrali in seguito al ritardato pagamento di rimborsi d’imposta.

Dunque, la rivalutazione monetaria non può essere riconosciuta in quanto la restituzione del capitale e la corresponsione degli interessi  esaurisce l’obbligazione verso contribuente, essendo esclusa, in materia tributaria, la possibilità di fare ricorso alla  disposizione di cui al secondo comma dell’art. 1224 c.c. per la cui applicabilità occorre la mora del debitore e la dimostrazione di un danno maggiore da parte del contribuente stesso, rimasto insoddisfatto per un tempo apprezzabile; in altre parole, il principio secondo il quale si debba tenere conto della svalutazione monetaria, indipendentemente dalla disciplina di cui all’art. 1224 c.c., è circoscritto a crediti determinati, aventi particolari caratteristiche e natura (1) (art. 429 c.p.c.).

Si fa ancora osservare che oggetto di domanda non è un credito di lavoro, bensì il rimborso di ritenute fiscali: ciò appare evidente ove si consideri sia lo status del ricorrente (pensionato, già lavoratore dipendente) che la giurisdizione adita dallo stesso per ottenere il rimborso (Commissione tributaria).

Non sono, pertanto, applicabili alla subiecta materia le disposizioni dettate dal codice civile in tema di rivalutazione dei crediti di lavoro, che pure potrebbero trovare ingresso in una vertenza proposta dal dipendente al giudice del lavoro o al T.A.R..

Infatti, a differenza delle controversie in materia di lavoro, per le quali  la rivalutazione monetaria del credito vantato dal dipendente non solo è spettante, ma anche espressamente prevista dalla legge, in caso di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro (art. 429 c.p.c. (2)),  in ambito fiscale e alla luce della legislazione speciale che governa la materia tributaria, il ritardo nella liquidazione di rimborsi di imposte e/o ritenute è adeguato dalla corresponsione degli interessi, come espressamente previsto dall’art. 7 della legge n. 482/1985, mentre nessuna norma prevede la rivalutazione dei crediti fiscali secondo gli indici ISTAT.

E’ innegabile, pertanto, che la rivalutazione monetaria prevista dal legislatore civile sui crediti di lavoro ha natura retributiva e non risarcitoria: precisa, infatti, la Suprema Corte (sent. n. 6246/2004) che, in tema di imposte sui redditi, la rivalutazione monetaria, rappresentando una componente essenziale del credito cui accede, ha la sua medesima natura ed è pertanto soggetta ad identica imposizione (3) e tale natura risulta del tutto inconciliabile con l’oggetto di domanda (rimborso di ritenute fiscali) che ha introdotto il giudizio tributario da parte del ricorrente.

Inoltre, deve contestarsi l’eventuale applicabilità alla presente fattispecie dell’art. 1224 del c.c.  che, pur prevedendo la rivalutazione monetaria  per le obbligazioni (si ripete: civili, non fiscali) che hanno per oggetto una somma di denaro (pecuniarie), limita tale ulteriore risarcimento solo “al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore”.

L’inapplicabilità di tale norma  alle controversie fiscali  discende non solo dal fatto che l’oggetto del contendere è un rimborso fiscale, disciplinato dal d.p.r. 917/1986 e dal  d.p.r. 602/1973, come pure in conseguenza del fatto che il ricorrente deve fornire  la prova dell’eventuale maggior danno, senza limitarsi a richiedere con semplice istanza la riliquidazione dell’indennità di fine rapporto, con conseguente rimborso delle maggiori ritenute a suo tempo operate.

In altre parole, la disciplina del rimborso d’imposta dettata dalle norme di cui all’art. 17 del d.p.r. 917/1986 e dell’art. 7 della legge 482/1985 è una disciplina speciale rispetto a quella civilistica, coerente con la natura pubblicistica del rapporto d’imposta, mentre la richiesta di applicazione della rivalutazione monetaria attiene alle somme di denaro per crediti relativi alle retribuzioni collegate a rapporti di lavoro per i quali la disposizione civilistica non può trovare applicazione (4).

La tesi dell’amministrazione finanziaria è stata condivisa dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 16871 del 31 luglio 2007.

Preliminarmente la Corte ha affrontato la questione della giurisdizione, confermando la competenza del giudice tributario sulle domande concernenti la rivalutazione monetaria dei rimborsi d’imposta, in forza del “principio della concentrazione” della tutela giurisdizionale che caratterizza l’attuale sviluppo dell’ordinamento anche in materia tributaria.

Il massimo giudice di legittimità ha poi precisato che nelle obbligazioni pecuniarie, fra le quali rientrano anche i crediti d’imposta, la svalutazione monetaria intervenuta durante la mora debendi  non giustifica  un risarcimento automatico, spettando al debitore l’onere di allegare (prima) e provare (poi) l’esistenza di un danno maggiore rispetto a quello risarcito mediante la corresponsione degli interessi di legge. 

Ciò in quanto a tali obbligazioni risultano inapplicabili le disposizioni contenute nell’art. 1224, comma 1 (5) e 1284 (6) c.c. , essendo la disciplina dei relativi interessi moratori regolata da norme speciali, che prevalgono sulla regola civilistica, la cui applicabilità si giustifica: a) in ragione della particolare natura del credito; b) in relazione alla qualità dei soggetti; c) con riguardo ai presupposti del rapporto tributario.

 

In altre parole, secondo l’orientamento più volte espresso dalla Corte  (Cass. N. 255/2006)

“nelle questioni pecuniarie il fenomeno inflattivo non consente un automatico adeguamento dell’ammontare del debito, ne’ costituisce di per sè un danno risarcibile, ma può implicare, in applicazione dell’art. 1224, comma 2, del codice civile, solo il riconoscimento in favore del creditore, oltre che degli interessi, del maggior danno che sia derivato dall’impossibilità di disporre della somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui il creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l’inflazione produce a carico di tutti i possessori di denaro”.

 

Il massimo giudice di legittimità insiste, dunque, affinché la prova e la documentazione relativa al  lamentato maggior danno risponda a più rigidi criteri di specificità perché

“è da ritenere che la specialità della fattispecie tributaria giustifichi un’interpretazione restrittiva della disposizione di cui all’art. 1224, comma 2, del codice civile”.

          Subordinando il riconoscimento della rivalutazione monetaria in materia di rimborso di imposte a criteri di particolare rigore, la Corte si discosta da precedente  giurisprudenza di segno contrario (Cass. n. 22204/2006 e n. 19400/2005) che, invece, ne riconosceva la spettanza ancorchè le disposizioni  specificamente  emanate  in  materia  di  rimborsi d’imposta, nulla prevedano al riguardo.

Ma a fare definitiva chiarezza sul tema è di intervenuta la sentenza n. 19499 del 16 luglio 2008, resa sempre a Sezioni Unite, con la quale la Corte di Cassazione ha precisato che, nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all’art. 1224, comma 2, cod. civ. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento – dovendo ritenersi superata l’esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate -, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del primo comma dell’art. 1284 cod. civ.. 

Non va trascurato, inoltre, che la sentenza è stata resa nell’ambito di una causa di lavoro ed intendeva  comporre il contrasto di giurisprudenza in ordine alla sufficienza della qualità di imprenditore del creditore ai fini della presumibilità di impieghi antinflattivi della somma non tempestivamente versata dal debitore.

 Ciò ne conferma ulteriormente l’inconferenza nell’ambito dei rimborsi fiscali e, pertanto, tale pronunciamento non è applicabile alla speciale materia tributaria, nella quale resta escluso qualunque automatico riconoscimento del maggior danno da svalutazione monetaria in mancanza di specifica domanda e di idonea documentazione probatoria, come chiarito dalla Corte di Cassazione  con la sentenza n. 16871 del 31 luglio 2007.

 

Valeria Fusconi

5 Novembre 2009

 

NOTE

(1) In tal senso, si confrontino le sentenze della Cassazione  n. 7236 del 12/05/2003 e n. 4830 del 10/3/2004, nelle quali la Suprema Corte ha incontrovertibilmente affermato la non spettanza del risarcimento dell’eventuale maggior danno, causato dalla svalutazione monetaria, superiore a quello riconosciuto con la corresponsione degli interessi

(2) La norma dispone in ordine alla pronuncia della sentenza e, al terzo comma, così precisa: “Il giudice,  quando  pronuncia  sentenza  di condanna al pagamento di somme di denaro per  crediti  di  lavoro,  deve  determinare, oltre gli interessi nella misura legale,  il  maggior  danno  eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di  valore  del  suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto”.

(3) Art. 6, secondo comma, d.p.r. 917/1986, come modificato dall’art. 1, comma 1, del d.l. 557/1993.

(4) In senso conforme, cfr. CTR Sicilia, sez. Messina sentenza n. 79/02/08 dep. 10/07/2008 (Presidente Savoca, relatore Micali)

(5) Tale disposizione, immutata dal 1942, così recita: ”Nelle obbligazioni  che  hanno  per oggetto una somma di danaro, sono dovuti dal giorno  della  mora  gli  interessi  legali,  anche  se  non  erano dovuti precedentemente e  anche  se  il  creditore  non  prova di aver sofferto alcun danno. Se  prima  della  mora  erano  dovuti  interessi  in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura.

Al creditore   che   dimostra  di  aver  subito  un  danno  maggiore  spetta l’ulteriore risarcimento.  Questo  non  e’  dovuto  se  e’  stata convenuta la misura degli interessi moratori”.    

(6) La norma disciplina il saggio degli interessi legali.