La Corte di Giustizia Europea ha dichiarato non punibile l’utilizzatore finale che dimostra di non essere parte dell’illecito, la Corte di Cassazione ha delineato i casi di interposizione reale e di deducibilità dei costi relativi a fatture soggettivamente inesistenti…
La frequentazione di evasori IVA abituali
In un intervento a firma di Francesco Buetto (Frodi Carosello: le cattive frequentazioni) viene commentata una sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Venezia (sezione XIV, n. 36 del 3.6.2009) nella quale si statuisce il forte valore indiziario della condotta di chi intrattiene rapporti commerciali abituali con soggetti dediti all’evasione dell’iva.
In particolare, viene sottolineata la circostanza che acquistare auto da rivenditori che – come viene poi appurato dai verificatori – non hanno una struttura adeguata a giustificarne il commercio e, soprattutto, che non versano l’iva, va valutata come un indizio di una deliberata scelta diretta ad ottenere i vantaggi derivanti dalla possibilità utilizzare i medesimi nelle frodi carosello.
Tale sentenza, però, lungi dal costituire un parametro di riferimento per dirimere le delicate controversie in materia di frodi carosello, omette di considerare alcuni elementi importanti, che in questa sede proviamo a riassumere.
La particolare ipotesi della frode carosello in tema di rivendita di autoveicoli configura, solitamente, la contestazione in sede penale del delitto di utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti1 ed in ambito tributario il conseguente recupero a tassazione dei relativi costi.
Si tratta infatti di un’ipotesi in cui l’operazione è stata realmente posta in essere, ma tramite un soggetto interposto che gode di una fiscalità privilegiata ovvero è dedito a non versare l’imposta sul valore aggiunto.
Deducibilità dei costi per fatture soggettivamente false
La giurisprudenza della Suprema Corte
La Corte di Cassazione (sentenza n. 19353 del 19.6.2006 depositata l’8.9.2006) ha ribadito un importante principio in tema di deducibilità dei costi, effettivamente sostenuti e opportunamente documentati, per fatture che la Guardia di Finanza ha contestato in quanto “soggettivamente false”.
In particolare, se alcuni costi contabilizzati e portati in deduzione del reddito sono rappresentati da fatture che l’Amministrazione Finanziaria dimostra (non desume) come irregolari, il contribuente è ammesso a provare che l’operazione ed il corrispondente esborso sono reali, a prescindere dalla falsità della fattura.
In caso di esito positivo della prova fornita dal contribuente, dovrà, pertanto, riconoscersi la deducibilità del costo inerente alla produzione del reddito, nella misura in cui risulta contabilizzato ed imputato al conto economico relativo all’esercizio di competenza.
Per casi analoghi, la Corte di Cassazione ha sostenuto che, a prescindere dall’irregolarità delle fatture, rilevante in altra sede, occorre stabilire se la spesa per le prestazioni inerenti all’attività sociale sia stata, o meno, effettivamente sostenuta.
Non può, infatti, ritenersi giuridicamente corretto l’assunto per cui, a fronte di fatture soggettivamente inesistenti, debba logicamente e certamente dedursi la totale mancanza della prestazione e la simulazione assoluta del corrispondente debito.
In tema di accertamento delle imposte sui redditi e, specificamente nell’ipotesi di costi documentati da fatture emesse da soggetto diverso rispetto all’effettivo fornitore di beni o di servizi, il contribuente deve quindi essere ammesso a provare che, a prescindere dalla falsità della fattura, l’operazione ed il corrispondente esborso sono reali.
Sempre in tema di fatture emesse da soggetto diverso da quello che ha effettivamente eseguito l’operazione, la Corte di Cassazione si era già pronunciata con la sentenza n. 28695 dell’11.10.2005, depositata il 23.12.2005, in tema di accertamenti in materia di Iva, rilevando che
“(…) ove l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture perché relative a prestazioni inesistenti, spetta al contribuente l’onere di provare la legittimità e la correttezza dell’operazione, mediante l’esibizione dei relativi documenti contabili e degli elementi necessari a suffragare l’operazione.”
In tale prospettiva, il fenomeno evasivo riconducibile alle fatture soggettivamente inesistenti non rileva, per ciò che attiene all’utilizzatore poiché, trattandosi di fatture rappresentanti comunque operazioni oggettivamente vere, i costi in esse rappresentati sono reali, inerenti ed effettivamente sostenuti dal destinatario del documento, per cui, laddove siano certi e precisi, nulla osta alla loro deducibilità sul piano fiscale2.
Peraltro, è utile segnalare il recente arresto della Corte di Cassazione, sezione penale, che con la sentenza n. 3203 del 23 gennaio 2009, si è soffermata sulla nozione di interposizione reale, ricavandone un principio garantista che può riverberare effetti anche in ambito tributario.
E’ noto che secondo la definizione contenuta nel D.Lgs n. 74 del 2000, art. 1, comma 1, lett. a):
“per fatture o altri documenti per operazioni inesistenti si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base a norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”.
Orbene, la nozione di operazione soggettivamente fittizia prevista dalla norma – rilevano i Giudici della Suprema Corte – deve necessariamente corrispondere, per esigenze di omogeneità interpretativa, a quella che è tale oggettivamente e, cioè, all’operazione che non è realmente intercorsa tra i soggetti che figurano quale emittente e percettore della fattura o altra documentazione fiscalmente equivalente.
Occorre, cioè, che uno dei soggetti dell’operazione rilevante sotto il profilo fiscale sia del tutto estraneo a detta operazione, non avendo assunto affatto nella realtà la qualità di committente o cessionario della merce o del servizio ovvero di pagatore o di percettore dell’importo della relativa prestazione.
Tipiche ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti sono quelle che corrispondono alle fatturazioni provenienti dalle cosiddette società “cartiere”, cioè da società costituenti un mero simulacro, che non effettuano le operazioni commerciali nella realtà intercorse tra altri soggetti, ma emettono le relative fatture, al fine di consentire a colui che le riceve un’indebita imputazione di costi o più frequentemente dell’imposta sul valore aggiunta, mai sostenuti.
Diversa è, invece, l’ipotesi in cui l’operazione commerciale sia realmente intercorsa tra soggetti i quali risultino l’effettivo committente della merce o del servizio ed il cessionario degli stessi e il primo abbia effettuato il pagamento ad essi relativo.
In tal caso, infatti, si è al di fuori della fattispecie criminosa della emissione o utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, potendo eventualmente ravvisarsi nei confronti dell’utilizzatore della fattura, allorché si accerti la non inerenza della stessa ovvero della prestazione ad essa relativa, le diverse ipotesi di reato della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3) o della dichiarazione infedele (art. 4 del medesimo D.Lgs.).
A conforto di tale interpretazione la Corte di Cassazione richiama il disposto di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 18, secondo il quale
“il soggetto che effettua la cessione di beni o prestazione di servizi imponibile deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o al committente”,
nonché le altre disposizioni di cui al medesimo D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 6 e 21, dal cui tenore si evince in termini rigorosi l’obbligo del soggetto che effettua la cessione di beni o di servizi di emettere la relativa fattura nei confronti del committente nel momento in cui l’operazione si perfeziona.
Sicchè – si legge ancora nella sentenza n. 3203/2009 della Corte di Cassazione – ogni diversa interpretazione della definizione contenuta nel D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, determinerebbe un insanabile contrasto normativo tra le disposizioni che fanno obbligo di emettere la fattura nei confronti del committente della merce o del servizio e che ne effettua il pagamento e la attribuzione, ai fini penali, di natura fittizia a detta fatturazione.
Un ulteriore riscontro all’interpretazione della norma nei sensi sopra riportati può infine desumersi dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 9, che esclude il concorso nello stesso reato di colui che emette e di colui che successivamente utilizza le fatture per operazioni inesistenti, evincendosi dalla previsione normativa la sostanziale corrispondenza delle ipotesi di emissione e successiva utilizzazione di fatture false, mentre nel caso di indebita imputazione di costi non inerenti le fatture certamente non sono fittizie, in quanto provengono dal soggetto che per obbligo di legge doveva emetterle in favore di colui che le riceve quale effettivo committente della prestazione.
Occorre pertanto, di volta in volta, valutare se l’operazione sia stata effettivamente posta in essere – e ciò anche a prescindere dal soggetto che ha emesso la fattura – e, per quel che concerne l’utilizzatore, verificare l’inerenza del costo sostenuto.
Nel caso della compravendita di automobili, è lecito ritenere che il costo sia sempre inerente.
“Cattive frequentazioni” come indizio di frode fiscale
La Corte di Giustizia Europea.
In questa sede, anche al fine di contestare le “cattive frequentazioni” quali elementi indiziari dai quali la CTR Venezia fa discendere elementi di prova, è doveroso ricordare che la Corte di Giustizia Europea3 ha avuto modo di pronunciarsi su casi analoghi, affermando il principio che un’impresa che ha partecipato inconsapevolmente a un “illecito carosello” non deve subirne le conseguenze per cui le sue operazioni devono essere valutate indipendentemente dal disegno complessivo dei terzi.
La giurisprudenza italiana che si è formata afferma il principio che dalle operazioni illecite realizzate dalla società a capo della catena non discende automaticamente il disconoscimento della rilevanza fiscale delle operazioni poste in essere a valle in capo a società terze4.
La Corte di Giustizia Europea (sentenza C/409-04 del 27 settembre 2007) ha stabilito che le nozioni di cessione intracomunitaria e di acquisto intracomunitario hanno un carattere obiettivo e si applicano indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi e la loro qualificazione sia effettuata in base ad elementi oggettivi, quale l’esistenza di un movimento fisico dei beni di cui trattasi fra Stati membri.
Conseguentemente, la disciplina dell’esenzione diventa operativa nel momento in cui il diritto di proprietà è trasmesso al cessionario, il bene sia stato spedito o trasportato e quindi abbia fisicamente lasciato lo Stato membro di origine.
In ossequio al principio generale di proporzionalità dell’ordinamento comunitario, è legittima da parte degli Stati membri l’adozione di misure volte al miglior perseguimento dell’interesse (nella specie, i diritti dell’Erario) con il limite di non eccedere quanto è necessario per il raggiungimento del fine.
Pertanto, anche nel rispetto del principio di neutralità fiscale dell’imposta sul valore aggiunto, il fornitore del bene oggetto di cessione intracomunitaria – il quale abbia agito in buona fede e sia estraneo alla frode pur avendo esibito prove e documenti rivelatisi ex post falsi – non può essere tenuto ad assolvere l’Iva qualora dimostri di aver mantenuto un comportamento atto ragionevolmente ad escludere una sua partecipazione alla frode.
Massimo Conigliaro
4 Agosto 2009
NOTE
1 Per un approfondimento sul punto, sia consentito il rinvio a M. Conigliaro, Fatture per operazioni inesistenti: l’onere della prova nel processo tributario,
2 Così COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DI MILANO, sez. 10, sent. 42c/10/01 del 14.05.2001.
3 Cfr. CORTE GIUSTIZIA UE, Sez. III – Pres. Rosas, Rel. Von Bahr, Sent. del 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03, che afferma “Il diritto di un soggetto passivo che effettua simili operazioni di dedurre l’Iva pagata a monte non è pregiudicato dal fatto che, nella catena di cessioni in cui si inscrivono tali operazioni, senza che il medesimo soggetto passivo lo sappia o lo possa sapere, un’altra operazione, precedente o successiva a quella realizzata da quest’ultimo, sia inficiata da frode all’Iva”.