Con sentenza n. 8247 del 31 gennaio 2008 (dep. il 31 marzo 2008) la Corte di Cassazione, sulla scia di una serie di precedenti, ha confermato il proprio indirizzo giurisprudenziale: in tema di operazioni inesistenti la prova dell’effettività delle operazioni spetta al contribuente.
La sentenza ripropone all’attenzione della Corte la delicata questione dell’incidenza dell’onere della prova (1), e dei mezzi di prova cui può farsi ricorso, ove l’Amministrazione contesti l’esistenza di talune operazioni economiche debitamente documentate da fatture.
La sentenza – se attentamente letta – non può essere salutata che come una conferma a quell’indirizzo che addossa sul contribuente l’onere della prova.
Vediamo di fare chiarezza su tali aspetti, anche perché tale sentenza chiama alle proprie responsabilità il contribuente.
La sentenza n. 8247/2008
La Corte osserva, innanzitutto, che “le operazioni passive, come gli acquisti di merce, costituendo fonti di credito IVA a vantaggio del contribuente, comportano l’onere, a suo carico, di fornire la prova di esatta corrispondenza fra la spesa effettivamente sostenuta e la corrispondente detrazione d’imposta (in generale, quanto all’onere gravante sul contribuente di provare la sussistenza del diritto a deduzioni e detrazioni d’imposta, cfr. Cass. nn. 2300/2005, 5599/2003, 16198/2001, 13478/2001, 12330/2001)”.
La Corte prosegue il ragionamento facendo proprie una serie di sentenze, e in particolare, a nostro avviso, la pronuncia n. 21953/2007:
“in tema di IVA, è stato correttamente osservato che la fattura è documento idoneo a provare un costo dell’impresa; cosicché, nell’ipotesi di fatture che l’amministrazione ritenga relative ad operazioni in tutto o in parte inesistenti, non spetta al contribuente provarne l’effettività, ma all’amministrazione stessa dedurre argomenti idonei a palesare l’inesistenza o la diversa e minore entità dell’operazione oggetto della fattura (Cass. nn. 27341/2005, 18710/ 2005).
E tuttavia, qualora l’amministrazione fornisca sufficienti elementi – acquisiti attraverso gli accertamenti ed i controlli a sua disposizione, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51 e ss. – per sostenere l’affermazione che alcune fatture riflettono operazioni in tutto o in parte fittizie, l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza e consistenza di tali operazioni si sposta sul contribuente, in virtù delle regole generali vigenti in materia (Cass. nn. 1727/ 2007, 15228/2001).
In tal caso, il giudice di merito deve prendere in considerazione, innanzitutto, gli elementi addotti dall’ufficio, al fine di verificare se sono idonei astrattamente ad inficiare la credibilità delle fatture e degli altri documenti contabili; in secondo luogo, deve esaminare, al fine di decidere la controversia, le prove eventualmente addotte dal contribuente per contrastare la pretesa del fisco e giustificare la detrazione d’imposta operata”.
Sulla base di tali considerazioni,
“la sentenza impugnata risulta errata, quando disattende la pretesa erariale perché non fondata su elementi certi e concreti o su prove e fatti concreti; dovendosi ritenere sufficiente a spostare l’onere della prova l’allegazione di semplici elementi indiziari, ricavabili anche da controlli indiretti”.
Inoltre, la sentenza di secondo grado risulta
“insufficientemente motivata, allorché espone che la contribuente avrebbe confutato la pretesa fiscale con ampia ed articolata documentazione, senza specificare il tipo di prove documentali che consentirebbero di superare le rilevate differenze (di cui la sentenza accenna in parte narrativa) fra merce asseritamente acquistata presso i grossisti e merce da questi ultimi venduta”.
La sentenza n. 21953/2007
Come abbiamo accennato il ragionamento seguito dalla Corte – per certi versi – ricalca quello della sentenza n. 21953 del 21 settembre 2007 (dep. il 19 ottobre 2007).
In questa sentenza, per la Corte, il presunto contrasto interno – alcuni pronunciamenti che porrebbero il relativo onere a carico dell’Amministrazione, altre a carico del contribuente – “appare molto meno radicale: le sentenze che vengono abitualmente citate a sostegno della teoria secondo cui l’onere della prova graverebbe sull’Amministrazione, in realtà non contengono affatto simile asserzione. Ed invero poiché le operazioni passive denunciate dal contribuente sono fonte di credito a suo vantaggio (nell’ambito dell’Iva) di detrazione dall’imponibile (nell’ambito delle imposte sui redditi), appare logico concludere che spetta al contribuente fornire la prova dell’esistenza di fatti da cui scaturisce un suo diritto”.
Sul punto la Corte richiama la sentenze n. 18710 del 23 settembre 2005, la n. 27341 del 12 dicembre 2005 e la n. 1325 del 22 gennaio 2007, che pongono correttamente l’onere della prova a carico del contribuente; e solo prendono atto della circostanza secondo cui questa prova può essere vinta, almeno in prima battuta, attraverso l’esibizione di regolari fatture.
Argomentano in proposito le sentenze n. 27341/2005 e n. 18710/2005, con considerazioni che il Collegio condivide:
“la fattura …. è documento idoneo a documentare un costo dell’impresa; pertanto, nella ipotesi di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni inesistenti, non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’Amministrazione, che adduce la falsità del documento e, quindi l’esistenza di un maggiore imponibile, provare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è stata mai posta in essere (Cass. 5 febbraio 1997, n. 1092)”.
Simile tesi, afferma la Corte nella sentenza n. 21953/2007, è ribadita nel recentissimo pronunciamento n. 17799 del 21 agosto 2007,
“secondo cui costituisce, addirittura, giurisprudenza consolidata che giustifica il rigetto del ricorso dell’Amministrazione in camera di consiglio ex art. 375 del codice di procedura civile il principio secondo cui l’onere per il contribuente di provare la veridicità delle fatture scatta soltanto quando gli organi di controllo fiscale adducono elementi che fanno almeno sospettare della non veridicità delle fatture; ed è assurda la tesi secondo cui tutte le fatture si presumerebbero false fino a prova contraria offerta dal contribuente”.
Prosegue la Corte:
“viene abitualmente citata come in contrasto con l’indirizzo finora esposto la sentenza n. 7144 del 23 marzo 2007 secondo cui in tema di Iva, ove l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture perché relative a prestazioni inesistenti, spetta al contribuente l’onere di provare la legittimità e la correttezza dell’operazione mediante l’esibizione dei relativi documenti contabili. Pertanto, quando costui non è in grado di dimostrare la fonte che giustifica la detrazione, questa deve ritenersi indebita, sicché legittimamente l’ufficio provvede a recuperare a tassazione l’imposta irritualmente detratta (a questa sentenza può accostarsi la pronuncia n. 16896 del 31 luglio 2007)”.
La lettura del testo della sentenza n. 7144 pone però in primo luogo in evidenza come l'”esibizione dei documenti contabili” venga considerata mezzo indiziario utilizzabile dal contribuente a proprio vantaggio; ed ancor più come l’Amministrazione avesse – nel caso di specie – fornito elementi per dubitare della correttezza delle asserzioni della parte privata. In simile quadro, la Corte, ha ritenuto insufficienti gli elementi prospettati da contribuente (e costituiti da assegni di pagamento nel caso di specie, ritornati, dopo varie girate, nella disponibilità del contribuente stesso).
Concludono i giudici di Cassazione:
“la giurisprudenza di questa Corte è unanime nell’affermazione secondo cui la correttezza formale della contabilità non può diventare un alibi per commettere ogni possibile violazione delle leggi fiscali.
E dunque qualora l’Amministrazione fornisca validi elementi di prova per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni inesistenti, incombe sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni (sentenze n. 19109 del 29 settembre 2005 (2); n. 4046 del 21 febbraio 2007 in quest’ultima sono state ritenute adeguate a suffragio delle tesi erariali le circostanze secondo cui non risultava la prova del pagamento della somma indicata in fattura; non risultava stipulato un contratto di appalto scritto, nonostante il valore ingente delle opere pari a circa 13 miliardi di lire; non era stata fornita la prova dell’esecuzione di alcun lavoro) (3)”.
In maniera chiara la Corte richiama la giurisprudenza di questi ultimi anni che è costante nel ritenere che
“l’Amministrazione per disattendere la contabilità del contribuente deve pur sempre accampare un qualche elemento anche indiziario che infici questa contabilità.
Non è certo sufficiente che asserisca apoditticamente di non accettare i dati che emergono dalla documentazione altrui.
È necessario che indichi gli elementi su cui fonda la sua asserzione. Ed il giudice di merito investito della controversia deve prendere in considerazione di questi elementi; non può limitarsi a dichiarare che essi esistono e sono tali da dimostrare la falsità delle fatture”.
E nel caso di specie, se è vero che nel giudizio tributario non fa stato
“ il provvedimento giudiziario penale che sembra concludesse in termini liberatori per il contribuente…(anche se per avventura si trattasse di sentenza e non invece, come sembra di capire, di decreto di archiviazione)…. costituisce però un elemento probatorio che il giudice di merito non poteva esimersi dal considerare nel quadro indiziario complessivo”.
Operazioni inesistenti e onere della prova – Il nostro pensiero
La documentazione aziendale e/o la fattura costituisce il primo punto di partenza nella ricostruzione dei fatti economici, nella convinzione del principio di buona fede che deve (dovrebbe) presiedere la formazione della contabilità.
La veridicità della fattura viene però meno tutte le volte in cui i verificatori – sulla base di tutta una serie di elementi a supporto – constatino la falsità.
La fattura ricevuta da una impresa da parte di una azienda fornitrice – a prima vista – è da ritenere legittima (5).
Ma se i verificatori, constatano che il pagamento è avvenuto per cassa, che l’azienda fornitrice non aveva personale per poter effettuare la prestazione, che il soggetto emittente non ha presentato la propria dichiarazione, che vi è stato il ritorno del denaro, etc, è naturale che venga ritenuta inesistente, salvo prova contraria a carico del contribuente (6).
La sentenza qui sotto osservazione – riteniamo in maniera chiara e netta – conferma che il contrasto giurisprudenziale di cui tutti discutiamo, è più teorico che pratico.
La Corte richiama la sentenza n. 18710/2005 – secondo cui
“premesso che l’accertamento in contestazione scaturisce non già da una rettifica delle entrate dell’impresa, bensì dal disconoscimento di alcuni dei costi portati in detrazione dall’imprenditore, al fine di ridurre il reddito imponibile, deve senz’altro convenirsi che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, se spetta all’Amministrazione finanziaria – nel quadro dei generali principi che governano l’onere della prova – dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria azionata, fornendo quindi la prova degli elementi e circostanze a suo avviso rivelatori dell’esistenza di un imponibile maggiore rispetto a quello dichiarato (cosiddette componenti attive), è altrettanto vero però che è il contribuente, il quale intenda contestare la capacità dimostrativa di quei fatti oppure sostenere l’esistenza di circostanze modificative o estintive dei medesimi, che deve a sua volta dimostrare gli elementi sui quali le sue eccezioni si fondano.
Con la conseguenza che, in tema di reddito d’impresa, spetta all’ufficio finanziario provare le componenti attive del maggiore imponibile determinato, ma spetta al contribuente, il quale intenda contestare tale determinazione sostenendo l’esistenza di costi maggiori di quelli considerati, documentare che essi effettivamente sono stati affrontati e sono inerenti all’esercizio cui l’accertamento si riferisce (Cass. 30 luglio 2002, n.11240; Cass. 24 luglio 2002, n.10802; Cass. 27 dicembre 2001, n. 16198; Cass. 11 ottobre 1997, n.9894 )”.
In pratica, la presunta in astratto legittimità della fattura si supera ogni qual volta l’Amministrazione offra elementi anche indiziari – come quelli sopra indicati – che pongano in dubbio la documentazione prodotta dal contribuente.
Di fatto, è necessario che l’ufficio ponga in evidenza elementi che contraddicano la veridicità della fattura prodotta dal contribuente, il quale a sua volta, potrà controdedurre portando al giudice elementi che smentiscano la tesi dell’Amministrazione finanziaria. Ciò che accade nella generalità dei casi.
Così che la controversia potrà essere liberamente decisa dal giudice, che dovrà formarsi il suo convincimento sulla base degli elementi addotti da entrambe le parti.
Gianfranco Antico
23 Aprile 2008
NOTE
(1) Cfr. ANTICO, Gravità, precisione e concordanza: si sposta sul contribuente l’onere della prova, in www.il commercialistatelematico.it, 2007; ANTICO, Operazioni inesistenti: la prova dell’esistenza spetta al contribuente, in www.ilcommercialistatelematico.it, 2006.
(2) Per la Corte, acquisito in maniera incontrovertibile il “fatto storico” dell’emissione delle fatture per operazioni inesistenti (in senso assoluto, perché i relativi trasporti non erano stati mai effettuati) era, quanto meno, contraddittorio esimere la parte dal fornire la prova circa l’effettiva esistenza delle operazioni. “ In caso di contestazioni relative a fatture per operazioni inesistenti, spetta, in effetti, al contribuente l’onere di dimostrare la legittimità e correttezza delle operazioni mediante esibizione dei relativi documenti contabili”.
(3) Il pronunciamento in esame va tenuto presente per tutte quelle controversie dove la parte si limita a contestare il rilievo, senza provare ciò che afferma: non basta dire che il costo si riferisce all’esercizio dell’impresa ma occorre provare il rapporto tra il costo e l’inerenza dello stesso. Non appare verosimile che per un costo del genere le parti non abbiano sottoscritto un contratto, per fissare – nero su bianco – le condizioni contrattuali. L’assenza di un apposito accordo, pur non pregiudicando in via di principio la deducibilità del costo, legittima, a nostro avviso, il recupero a tassazione da parte dei verbalizzanti, ove il contribuente non sia in grado di fornire i supporti documentali richiesti. Il contratto non costituisce requisito essenziale ai fini della deducibilità fiscale. Tuttavia, in tali ipotesi ( importi rilevanti, come il caso prospettato), la sua assenza, permette ai verificatori di trarre tutta una serie di presunzioni. Per la Cassazione, “ la seconda parte della motivazione espone una considerazione, basata su una condivisibile e riconosciuta massima di esperienza, secondo la quale un appalto di importo considerevole va stipulato con atto scritto o comunque in maniera da lasciare una traccia documentale. Nella specie, ciò non risulta che sia avvenuto e, quindi, appare legittima la conclusione che il contratto non sia stato mai stipulato. Tanto più che la parte ricorrente non offre alla valutazione del giudice argomenti per ritenere che nella specie la stipula di un contratto scritto non fosse necessario per particolari ragioni, idonee a superare l’id quod plerumque accidit. Non è vero, come invece assume la parte ricorrente, che il ragionamento del giudice di merito sarebbe basato su una presunzione illegittima, in quanto non basata su un fatto certo. Il fatto certo è che manca la prova della stipula del contratto di appalto, ergo il contribuente non ha diritto alla detrazione di imposta. Basta questa proposizione a far concludere che la sentenza impugnata è congruamente, anche se sinteticamente, motivata. Parte ricorrente lamenta che i giudici di merito non avrebbero tenuto conto della corrispondenza prodotta, dalla quale risultava che il contratto di appalto sarebbe stato sequestrato dalla Guardia di finanza presso la società che ha emesso la fattura. A parte la considerazione che la censura sul punto non è autosufficiente (perché non è spiegato quando, come e a quali fini è stata evidenziata la circostanza) la pretesa omissione non incide su un punto decisivo della controversia. Infatti, per un verso, la società ricorrente avrebbe dovuto avere altra copia dell’atto e, per altro verso, mancando l’allegazione di una diversa giustificazione, proprio il fatto che il contratto sarebbe stato sequestrato dalla guardia di finanza presso la società emittente conforta la tesi dell’accordo fraudolento. Infine, quanto alla parte della sentenza che rinvia a quella di primo grado, la censura di omessa motivazione appare priva di autosufficienza perché la società non specifica quali sarebbero gli elementi che avrebbero potuto provare che il pagamento sia realmente avvenuto, contrariamente all’assunto dei giudici di merito”
(4) Cfr. ANTICO, Onere della Prova in materia di fatturazione di operazioni inesistenti: verso la ricomposizione il contrasto insorto nella giurisprudenza del Giudice di legittimità, in “ Finanza&Fisco”, n.41/2007, pag.3446.
(5) Pur se magari, già a naso, puzza di falsità
(6) Sul punto cfr. Cass., Sez.III, pen., 7 febbraio 2007 – 22 marzo 2007, n. 12017, che fissa quasi un prontuario degli elementi indiziari che hanno portato a ritenere fittizie alcune fatture: 1) mancato pagamento delle imprese subappaltatrici che avevano effettuato prestazioni per la ditta appaltatrice del ricorrente; 2) avvenuto pagamento delle fatture solo negli anni successivi; 3) impossibilità di esecuzione dei lavori fatturati, atteso che l’impresa verificata era priva degli strumenti necessari; 4) mancanza delle bolle di accompagnamento per alcuni dei trasporti effettuati; 5) assenza di autorizzazione dell’ente appaltante all’effettuazione del subappalto; 6) cessazione dell’attività di alcune imprese subappaltatrici prima dell’emissione delle fatture; 7) inesistenza di operazioni contabili relative alle fatture ritenute inesistenti presso le subappaltatrici.