Continuiamo l’analisi sull’evoluzione normativa dell’onere della prova nel nuovo processo tributario. In particolare, puntiamo il mouse sugli effetti della riforma in caso di uso delle presunzioni.
Proseguiamo nell’analisi dell’evoluzione normativa dell’onere della prova nel nuovo processo tributario avviata nel precedente articolo del 27 maggio 2023.
Sommario:
- Considerazioni introduttive
- L’onere della prova nel processo tributario
- Ante riforma tributaria: art. 2697 codice civile
- Post riforma del processo tributario: il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/92
- Effetti della nuova normativa sulle presunzioni legali, semplici e giurisprudenziali
- Orientamenti giurisprudenziali in tema di onere della prova ante riforma
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Effetti della nuova normativa sulle presunzioni legali, semplici e giurisprudenziali
Volendo individuare la portata applicativa e gli effetti del nuovo art. 7, comma 5-bis, del D. Lgs. n. 546/1992, sembra emergere che la nuova normativa non abbia prodotto effetti rilevanti in tema di presunzioni legali (che siano esse assolute o relative) che, dunque, continuano a mantenere la loro piena applicabilità e per le quali, pertanto, è valida l’inversione dell’onere della prova.
La questione, di recente è stata affrontata (seppur marginalmente) dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 31878 del 27 ottobre 2022, con la quale i giudici di legittimità, hanno così chiarito:
“È appena il caso di sottolineare che il comma 5 bis dell’art. 7 d.lgs. n.546/1992, introdotto con l’articolo 6 della legge n. 130/2022, ha ribadito, in maniera circostanziata, l’onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali, come nel caso di specie, non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio”.
In altri termini, parrebbe che, a parere dei giudici di legittimità, in tema di onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio, l’art. 7, comma 5 bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, non stabilisce un onere probatorio più gravoso, rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale (cfr. in senso conforme – in tema di operazioni fraudolente – Cass. ord. n. 31880 del 27/10/2022)
Negli stessi termini, la quaestio iuris è stata affrontata dalla Corte di Cassazione, anche in tema di redditometro, con l’ordinanza n. 37985 del 28/12/2022, con la quale i giudici di legittimità, hanno così chiarito:
“Questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha chiarito, altresì, i confini della prova contraria che il contribuente può offrire, in ordine alla presenza di redditi non imponibili, per opporsi alla ricostruzione presuntiva del reddito operata dall’Amministrazione finanziaria, precisando che non è sufficiente dimostrare la mera disponibilità di ulteriori redditi o il semplice transito della disponibilità economica, in quanto, pur non essendo esplicitamente richiesta la prova che detti ulteriori redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, si ritiene che il contribuente ‹‹sia onerato della prova in merito a circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere››; è la norma stessa infatti a chiedere qualcosa di più della mera prova della disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte), in quanto, pur non prevedendo esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, chiede tuttavia espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere), in tal senso dovendosi leggere lo specifico riferimento alla prova (risultante da idonea documentazione) dell’entità di tali eventuali ulteriori redditi e della durata del relativo possesso, previsione che ha l’indubbia finalità di ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità di detti redditi per consentire la riferibilità della maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente proprio a tali ulteriori redditi.
Nè la prova documentale richiesta dalla norma in esame risulta particolarmente onerosa, potendo essere fornita, ad esempio, con l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo al contribuente, idonei a dimostrare la durata del possesso dei redditi in esame (Cass. 14/06/2022, n. 19082; Cass. 20/04/2022, n. 12600; Cass. 24/05/2018, n. 12889; Cass. 16/05/2017, n. 12207; Cass. 26/01/2016, n. 1332; Cass. 18/04/2014, n. 8995).
E’ appena il caso di sottolineare che non incide su tale impianto il comma 5-bis dell’art. 7 d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto con l’art. 6 della l. n. 130 del 2022, che ha ribadito, in maniera circostanziata, l’onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali, come invece avviene nel caso di specie, non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio (Cass. 27/10/2022, n. 31878, che ha anche evidenziato che la previsione non pone un onere probatorio diverso rispetto ai principi già vigenti).”
Ciò posto, si ritiene che la nuova normativa lasci invariata l’applicabilità delle presunzioni legali che, dunque, continuano a mantenere la loro applicabilità e per le quali, pertanto, è valida l’inversione dell’onere della prova.
Altresì, la nuova normativa lascia invariata l’applicabilità delle presunzioni semplici per le quali, una volta assolto da parte dell’Amministrazione l’onere probatorio mediante l’uso di indizi gravi, precisi e concordanti, spetterà, in seguito, al contribuente fornire la prova contraria.
Di contro, la novella in esame sembra modificare la portata applicativa delle presunzioni giurisprudenziali (largamente utilizzate in ambito tributario). Quest’ultime consistono in una sorta di manipolazione giurisprudenziale della distribuzione degli oneri probatori. In sostanza, utilizzando questo modello, il giudice inverte la regola generale in materia di distribuzione dell’onere della prova, cosicché il contribuente, pur non essendo in presenza di una presunzione legale relativa (2728 del Codice civile), deve fornire prova idonea a vincere la presunzione.
In sostanza, se è vero che le presunzioni giurisprudenziali si differenziano da quelle legali sotto il profilo della copertura normativa (nel senso che non si è in presenza di una presunzione stabilita dalla legge che attribuisce l’onere probatorio in capo al contribuente), esse però, godendo dell’avallo consolidato e univoco della giurisprudenza di legittimità che le utilizza ormai come massime di esperienza consolidate (differenziandosi così anche dalle presunzioni semplici, le quali devono essere applicate con riferimento al caso concreto).
Occorre, ad esempio, considerare che, specie nel diritto tributario, le presunzioni giurisprudenziali appaiono prive di giustificazione; si cita a tal proposito la prova che il socio di una Srl a ristretta base partecipativa non ha “intascato” l’utile in nero della società, che, di fatto, costituisce una probatio diabolica. Sono solo i fatti positivi, infatti, che possono formare oggetto di prova.
Ne consegue che la novella normativa in esame si ritiene essere stata necessaria per far fronte, proprio, all’incalzare delle presunzioni giurisprudenziali che, del tutto prive di giustificazione, non solo attribuiscono un onere di prova nei confronti di un soggetto (il contribuente) che non ne dove risultare onerato ma, inoltre, attribuiscono un onere di prova generalmente negativo in capo a quest’ultimo.
Orientamenti giurisprudenziali in tema di onere della prova ante riforma
Nonostante le modifiche introdotte ad opera della citata L. 130/2022, per completezza espositiva si analizzano di seguito le più rilevanti sentenze che hanno caratterizzato negli anni il panorama tributario.
Pertanto, seppur in tema di costi indeducibili, società a ristretta base azionaria e società di comodo non vi sia recente giurisprudenza di legittimità in tema di portata applicativa della nuova normativa ex comma 5-bis cit., si rende necessario ribadire che:
- in tema di deducibilità dei costi, la giurisprudenza ha più volte inteso chiarire che nel processo tributario la prova del diritto alla deduzione di costi è a carico del contribuente e ciò sia con riferimento al criterio che chi afferma un fatto costitutivo di un diritto lo deve provare e sia con riferimento al criterio di vicinanza della prova.
Sul punto, tra le tante, si segnala la Corte di Cassazione, ordinanza 25 novembre 2020, n. 26802 con cui è stato chiarito che: “con riferimento alla violazione delle norme di cui all’art. 2697 codice civile, all’articolo 116 c.p.c., e agli articoli 1199 e 2702 c.c., deve rilevarsi che: “nel processo tributario, ove il contribuente assolva l’onere, a suo carico, di provare il fatto costitutivo del diritto alla deduzione dei costi o alla detrazione dell’IVA mediante la produzione delle fatture, l’Amministrazione finanziaria ne può dimostrarne l’inattendibilità anche mediante presunzioni, sicché il giudice di merito deve prendere in considerazione il complessivo quadro probatorio al fine di verificare l’esistenza o meno delle operazioni fatturate, ivi compresi i fatti secondari indicati” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2935 del 13/02/2015); come rilevato nella motivazione della citata sentenza, “la giurisprudenza di questa Corte è costante nel senso che la prova del diritto alla deduzione di costi è a carico del contribuente e ciò sia con riferimento al criterio che chi afferma un fatto costitutivo di un diritto lo deve provare e sia con riferimento al criterio di vicinanza della prova (Cass. sez. trib. n. 13943 del 2011; Cass. sez. trib. n. 4554 del 2010).
È peraltro possibile che il contribuente sia in grado di assolvere l’onere dimostrativo di che trattasi mediante la produzione di fatture, ma per contro é altrettanto possibile che l’Amministrazione possa fornire prova dell’inattendibilità delle stesse anche mediante praesumptio hominis.
E, in questa direzione, il giudice di merito deve prendere in considerazione il complessivo quadro probatorio al fine di verificare l’esistenza o meno di operazioni fatturate e dedotte (Cass. sez. trib. n. 9958 del 2008; Cass. sez. trib. n. 21953 del 2007)”.
In senso conforme, occorre segnalare anche la Corte di Cassazione, ordinanza 15 novembre 2022, n. 33568, con cui è stato chiarito che il principio di inerenza dei costi deducibili (esprimendo una correlazione in concreto tra costi ed attività d’impresa) si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde da considerazioni di natura quantitativa; l’antieconomicità di un costo – intesa come sproporzione tra la spesa e l’utilità che ne deriva, avuto riguardo agli ulteriori dati contabili dell’impresa – può, tuttavia, fungere da elemento sintomatico del difetto di inerenza, e in questo caso, ove il contribuente indichi i fatti che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa, l’Amministrazione è tenuta a dimostrare, anche con il ricorso ad indizi, gli ulteriori elementi addotti in senso contrario, evidenziando, in particolare, l’inattendibilità della condotta del contribuente.
In particolare, è stato chiarito che:
“La possibile rilevanza del dato quantitativo nella valutazione di inerenza di un costo – intesa come congruità di quest’ultimo rispetto ad ulteriori dati contabili dell’impresa, donde possa desumersi la sua correlazione all’attività dell’impresa stessa – si intreccia con il profilo dell’onere della prova dell’inerenza.
Tale ultimo, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, incombe sul contribuente; si rendono tuttavia necessarie, proprio con riguardo al profilo che qui interessa, alcune precisazioni.
5.2. In particolare, l’onere probatorio che grava sul contribuente attiene all’esistenza di circostanze fattuali che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa; ma laddove l’Amministrazione adduca ulteriori elementi tali da far ritenere – per sé soli o in combinazione con quelli portati dal contribuente – che il costo non sia, in realtà, correlato all’attività d’impresa, essa ultima è tenuta a fornire la prova della propria contestazione (cfr., fra le altre, Cass. n. 18904/2018, diffusamente in motivazione).
È in tale prospettiva che assume rilievo la possibile valutazione circa la congruità od antieconomicità della spesa, intesa come proporzionalità fra importi corrisposti ed utilità conseguite.
5.3. In tale ultimo caso, l’Amministrazione non può, ovviamente, spingersi a sindacare le scelte imprenditoriali; l’antieconomicità della spesa richiede, invece, la dimostrazione dell’inattendibilità della condotta, che va considerata in chiave diacronica, tenuto conto dei diversi indici che presiedono la stima della redditività dell’impresa (v. Cass. n. 21869/2016; Cass. n. 13468/2015), a fronte della quale spetta poi al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate (Cass. n. 25257/2017).
Una tale dimostrazione, peraltro, ben può essere fornita anche con ricorso ad elementi indiziari, purché provvisti dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
5.4. Si può, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: “Il principio di inerenza dei costi deducibili, esprimendo una correlazione in concreto tra costi e attività d’impresa, si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde da valutazioni di natura qualitativa. Tuttavia, l’antieconomicità di un costo – intesa, in particolare, come sproporzione fra la spesa e l’utilità che ne deriva, avuto riguardo agli ulteriori dati contabili dell’impresa – può fungere da elemento sintomatico del difetto di inerenza. In tale ultimo caso, ove il contribuente indichi i fatti che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa, l’Amministrazione è tenuta a dimostrare, se del caso anche con ricorso ad indizi, gli ulteriori elementi addotti in senso contrario, in particolare evidenziando l’inattendibilità della condotta del contribuente”;
- in tema di società di capitali a ristretta base azionaria, si presume che i maggiori utili “in nero” conseguiti dalla società a ristretta base azionaria si debbano intendere “percepiti” dai soci.
Infatti, la Cassazione ha elaborato un orientamento che associa la rideterminazione del reddito societario accertato dall’Agenzia, con l’attribuzione dello stesso pro quota ai soci, rimanendo salva la facoltà per il contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati, invece, accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, non essendo tuttavia a tal fine sufficiente la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili.
A tal proposito, si cita la recente ordinanza della Corte di Cassazione, 28 ottobre 2022, n. 31882, con cui è stato chiarito che:
“In materia questa Corte ha a più riprese affermato che la circostanza che si tratti di società a ristretta base partecipata da solo due soci costituisce “presupposto sufficiente al fine di fondare la presunzione di legge” e che “in materia di imposte sui redditi, nell’ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale, è ammessa la presunzione di attribuzione ai soci degli utili extracontabili, che non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società, bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, con la conseguenza che, una volta ritenuta operante detta presunzione, spetta poi al contribuente fornire la prova contraria” (Cfr. Cass., V, n. 13550/2020).
Altresì, in disparte l’accertamento in capo alla società, il socio può sempre dimostrare che il maggior utile societario e’ stato accantonato o, comunque, non a lui distribuito.
Ed infatti, questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha affermato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà per il contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati invece accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, non essendo tuttavia a tal fine sufficiente la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili“ (cfr. Cass. V n. 5076/2011; n. 17928/2012; n. 27778/2017; n. 30069/2018; 27049/2019, nonché’ Cass. VI – 5 n. 24820/2021).
Da ultimo, la Cassazione si è pronunciata anche con l’ordinanza, 1° marzo 2023, n. 6202, chiarendo che:
“in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova contraria del fatto che i maggiori redditi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti (cfr. Cass., 4 settembre 2020, n. 18383; Cass., 11 settembre 2020, n. 18854; Cass., 3 giugno 2021, n. 15393);
la ristrettezza della compagine societaria implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, che fa ritenere plausibile in tutti la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza della esistenza di utili extra bilancio, alla cui distribuzione è ragionevole ritenere che tutti i soci abbiano partecipato in misura conforme al loro apporto sociale, fatta salva l’anzidetta possibilità riconosciuta al contribuente di fornire la prova contraria (cfr. Cass., 29 dicembre 2017, n. 28542; Cass., 19 gennaio 2021, n. 752); -) l’accertamento a carico della società in ordine ai ricavi non contabilizzati è il presupposto necessario per l’accertamento a carico dei soci in ordine ai dividendi giacche’, in mancanza, non sussiste la prova dello stesso fatto costitutivo della pretesa tributaria (cfr. Cass., 19 dicembre 2019, n. 33976; Cass., 22 marzo 2021, n. 7949; Cass., 24 maggio 2021, n. 14096), con l’effetto che deve essere dichiarato illegittimo l’avviso di accertamento che ipotizzi la percezione di maggiori utili societari in capo al socio, quando non sia stata preventivamente accertata la posizione della società di capitali, evidenziando in capo alla stessa un maggior reddito non dichiarato (cfr. Cass., 19 gennaio 2021, n. 752)”;
- in tema di società di comodo, si segnala la recentissima Corte di Cassazione, ordinanza 16 maggio 2023, n. 13336, con cui i giudici di legittimità hanno chiarito che la società in liquidazione per anni si presume di comodo se il contribuente non prova l’esistenza di situazioni oggettive di carattere straordinario, indipendenti dalla sua volontà, da valutarsi in relazione alle effettive condizioni del mercato, che non hanno permesso di conseguire i ricavi minimi o il reddito determinato secondo i parametri normativi.
Specificamente, i giudici di legittimità hanno chiarito che:
“2.4. In tale contesto, il contribuente può vincere la presunzione dimostrando all’Amministrazione – attraverso l’interpello finalizzato alla disapplicazione delle disposizioni antielusive, ovvero in giudizio, nel caso di contrasto – le oggettive situazioni che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito (Cass. 23/05/2022, n. 16472, cit.).
L’onere della prova contraria deve essere inteso “non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato” (Cass. 20/06/2018 n. 16204; Cass. 12/02/2019, n. 4019; Cass. 5/04/12/2019, n. 31626; Cass. 1/02/2019, n. 3063; Cass. 28/05/2020, n. 10158). E’ stato peraltro escluso che, attraverso il meccanismo della presunzione relativa e dell’onere della prova contraria gravante sul contribuente, si pervenga ad un mero sindacato di merito del giudice sulle scelte imprenditoriali, rilevando che “In tema di società di comodo, non sussistono le oggettive situazioni di carattere straordinario, che rendono impossibile il superamento del test di operatività, ex L. n. 724 del 1994, articolo 30, comma 4-bis, nella versione all’epoca vigente, nell’ipotesi di totale assenza di pianificazione aziendale da parte degli organi gestori della società o di completa “inettitudine produttiva”, gravando sull’imprenditore, anche collettivo, – ai sensi dell’articolo 2086, comma 2 c.c., come modificato dall’articolo 375 c.c.i., in coerenza con la Cost., articolo 41 – l’obbligo di predisporre i mezzi di produzione nella prospettiva del raggiungimento del lucro obiettivo e della continuità aziendale. Sicché in tal caso, il sindacato del giudice non coinvolge le scelte di merito dell’imprenditore, attenendo alla verifica del corretto adempimento degli obblighi degli amministratori e dei sindaci, con riduzione dell’operatività della “business judgement rule”, sempre valutabile, sotto il profilo tributario, per condotte platealmente antieconomiche.” (Cass. 23/11/2021, n. 36365).
Inoltre, con riferimento alla presunzione legale relativa di non operatività, l’onere probatorio può essere assolto non solo dimostrando che, nel caso concreto, l’esito quantitativo del test di operatività è erroneo o non ha la valenza sintomatica che gli ha attribuito il legislatore, giacche’ il livello inferiore dei ricavi è dipeso invece da situazioni oggettive che ne hanno impedito una maggior realizzazione; ma anche dando direttamente la prova proprio di quella circostanza che, nella sostanza, dal livello dei ricavi si dovrebbe presumere inesistente, ovvero dimostrando la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva, caratterizzata dalla prospettiva del lucro obiettivo e della continuità aziendale, e dunque l’operatività reale della società (cfr. Cass. 24/02/2021, n. 4946, cit., in motivazione; Cass. 28/09/2021, n. 26219, in motivazione).
2.5. In forza di queste considerazioni si è già affermato che la prova contraria da parte del contribuente deve risolversi nell’offerta di elementi di fatto consistenti in “situazioni oggettive di carattere straordinario”, “indipendenti dalla volontà del contribuente”, che rendano “impossibile conseguire il reddito presunto avuto riguardo alle effettive condizioni del mercato” (Cass. 3/03/2023, n. 6459; Cass. 23/11/2021, n. 36365; Cass. 12/02/2019, n. 4019; Cass. 20/06/2018 n. 16204) e che, pertanto, facciano desumere “l’erroneità dell’esito quantitativo del test di operatività, ovvero la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva, caratterizzata dalla prospettiva del lucro obiettivo e della continuità aziendale e, dunque, l’operatività reale della società (Cass. 23/05/2022, n. 16472).”
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A cura di Maurizio Villani e Federica Attanasi
Sabato 3 giugno 2023