Nel tempo, le sentenze dei giudici di merito e legittimità hanno portato ad un cambiamento radicale nella parificazione tra contributi ed imposte confermando la natura tributaria dei contributi previdenziali, avendo dimostrato che la obbligatorietà dei versamenti e la mancanza di una solidarietà di categoria oltre ad un uguale procedimento di riscossione hanno assimilato entrambi i tipi di versamento
Secondo la maggior parte della dottrina e della giurisprudenza le imposte erariali hanno prescrizione decennale; tuttavia, secondo altra parte della dottrina ed altra giurisprudenza minoritaria esse sono come le imposte locali ed hanno prescrizione quinquennale.
Le imposte non implicano un rapporto diretto tra servizio reso e prestazione erogata a differenza di quanto avviene per le tasse mentre i contributi sono prestazioni erogate dallo stato a fronte di versamenti obbligatori che devono le aziende ed i professionisti e ritornano al beneficiario dopo molti anni.
Da tempo, secondo alcuni le imposte essendo annuali hanno caratteristiche comuni e quindi non devono essere soggette a prescrizione decennale come previsto dall’art. 2953 c.c. ma quinquennale perché esse sono previste da norme e principi generali contenuti nella normativa tributaria e quindi non caratterizzate da elementi dovuti al periodo od al tipo di imposta nazionale o locale.
Altri, da tempo ritengono che contributi ed imposte debbano essere trattate allo stesso modo perché anche per essi non esiste una differenza fondamentale in quanto c’è un rapporto di prestazione e controprestazione differita nel tempo ma c’è un obbligo di contribuzione (questo filone in dottrina e nella giurisprudenza di legittimità è un orientamento diffuso da tempo) che si sta ampliando sempre più nell’ambito della giurisprudenza di merito.
Questo perché “….i contributi non costituiscono parte integrante del salario ma un tributo, in quanto tale da pagare comunque ed in ogni caso, indipendentemente dalle vicende finanziarie dell’azienda. Ciò trova la sua «ratio» nelle finalità, costituzionalmente garantite, cui risultano preordinati i versamenti contributivi e anzitutto la necessità che siano assicurati i benefici assistenziali e previdenziali a favore dei lavoratori. Ne consegue che la commisurazione del contributo alla retribuzione deve essere considerata un mero criterio di calcolo per la quantificazione del contributo stesso” (cfr Cassazione, 11962/2009 e 27641/2003).
Questa in breve la sentenza n. 20845 del 25 maggio 2011 con cui la Suprema Corte ha confermato la natura tributaria dei contributi previdenziali.
Né si può considerare come tributo speciale in quanto non esiste una solidarietà di gruppo con una propria capacità contributiva perché non prevista dai nostri principi costituzionali anche se il contributo è destinato alla contribuzione futura per uno specifico gruppo.
Lo stesso dicasi per il contributo al SSN che secondo la Corte di Cassazione “…non è un rapporto sinallagmatico tra la prestazione ed il beneficio ricevuto dal singolo, sussistendo tale imposizione anche se l’interessato, che pure ha il potenziale diritto ad ottenere l’assistenza sanitaria, non vi ricorre…” (Sentenza 09 novembre 2017, n. 26604).
Anche le attività di riscossione di entrambe le obbligazioni sono simili e questo avvicina sempre più le due categorie oltre alla coercizione prevista dalla normativa per ambedue.
E’ consueta infatti la contrapposizione delle “entrate contributive” a quelle “commutative”; si afferma che soltanto per le prime il prelievo deve essere giustificato dalla capacità contributiva, in quanto esse concretano una reale diminuzione del patrimonio del contribuente, mentre le seconde si risolvono in una pura e semplice trasformazione di denaro in altre utilità, e quindi sono caratterizzate da un qualche equilibrio tra le prestazioni, che di per sé ne offre adeguata giustificazione razionale.
Nel caso dei contributi quindi l’assimilazione alle tasse può infatti escludersi perché il rapporto fra il contribuente che versa il contributo previdenziale obbligatorio e lo Stato che deve eseguire la prestazione previdenziale sembra disvelare due prestazioni unilaterali non collegate da alcun rapporto sinallagmatico, e prive di qualsiasi correlazione commutativa.
La Corte Costituzionale tuttavia con la sentenza n. 67/2018 ha deciso che l’obbligazione contributiva dell’assicurato iscritto alla Cassa trova fondamento nella prescritta tutela previdenziale del lavoro in generale (art. 38, comma 2, Cost.) e si giustifica nella misura in cui è diretta a realizzare tale finalità, la quale segna anche il limite della missione assegnata alla Cassa.
Diversa è l’obbligazione tributaria che si fonda sulla «capacità contributiva» (articolo 53, comma 1, Costituzione) e che non ha necessariamente una destinazione mirata, bensì si raccorda al generale dovere di concorrere alle «spese pubbliche» e può anche rispondere a finalità di perequazione reddituale nella misura in cui opera il prescritto canone di progressività del sistema tributario (art. 53, comma 2, Cost.).
Alcune sentenze di merito ritengono che la prestazione fornita dallo stato ed il versamento delle imposte sono annuali e non vi è quindi una divergenza tra imposte nazionali e locali per cui la prescrizione è identica.
Il rapporto infatti è periodico per entrami i tipi di imposta e come deciso dalla CTP di Reggio Calabria con sentenza n. 2634/2014, – pioniera in merito – “nelle due principali imposte erariali (imposte dirette ed IVA) il debito di imposta sorge, annualmente, a seguito della dichiarazione che ogni soggetto passivo deve effettuare appunto “annualmente”. Per le imposte dirette ai sensi dell’art. 1 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600: lo stesso articolo 7 del D.P.R. n. 917 del 1986 (anche nella novella posta dal D.Lgs. n. 344 del 2003) recita che l’imposta è dovuta per anni solari e, quindi, ogni anno. Ne discende che, sia pure in presenza dei relativi presupposti, l’imposta diretta deve essere pagata “periodicamente” a seguito di una generale previsione legislativa che stabilisce regole valide e efficaci per ogni anno futuro. (C.T.P. Milano 20.11.2004 n. 207). Lo stesso dicasi per la dichiarazione annuale relativa all’I.V.A. (imposta della presente fattispecie) in cui il presupposto del tributo nasce anche trimestralmente ma la dichiarazione è unica: quindi perfettamente rientrante nella disposizione codicistica di cui all’art. 2948 n. 4 c.c..”.
Questa sentenza ha rappresentato un caso unico a suo tempo seguita da altre (CTP Lodi n. 24/01/17 CTP di Milano, sent. n. 06-12-2017, n. 6797).
A censurare tale orientamento è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite che, con la sentenza n. 23397/2016, ha stabilito che in base all’art. 2953 c.c. si può verificare la conversione della prescrizione da breve a decennale soltanto per effetto di sentenza passata in giudicato, oppure di decreto ingiuntivo che abbia acquisito efficacia di giudicato formale e sostanziale, con la conseguenza che l’art. 2953 c.c. deve ritenersi applicabile solo ove il titolo sulla base del quale viene intrapresa la riscossione non sia più l’atto amministrativo, bensì un provvedimento del giudice divenuto definitivo. Per quanto concerne i tributi erariali non è dunque sufficiente invocare la sentenza delle Sezioni Unite, dovendo l’interprete del diritto compiere un ulteriore sforzo per evitare l’applicazione dell’art. 2946 c.c., ossia cercare ricondurre tali fattispecie, così come accade per i tributi locali (ex multis Cass. n. 4962/2018), nella disciplina dell’art. 2948 n. 4 c.c., il quale prevede la prescrizione in cinque anni di “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”. Ferma dunque l’inapplicabilità del termine di cui all’art. 2953 c.c. per la cartella non opposta, resta quindi da stabilire come determinare il termine di prescrizione delle singole cartelle.
La risposta è suggerita dalla stesse Sezioni Unite, le quali richiamano l’art. 2946 c.c., il quale dispone che “Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”.
Nella sentenza si legge che, nel caso di cartelle aventi ad oggetto contributi INPS e INAIL, tale diversa disposizione legislativa esiste ed è rappresentata dall’art. 3, commi 9 e 10, L. n. 335 del 1995, il quale dispone la prescrizione quinquennale per le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria.
Viene dunque espresso il principio secondo cui, in assenza di giudicato, la prescrizione della cartella segue la normativa propria del tributo in essa contenuto e, in assenza di tale previsione, debba applicarsi in via residuale il termine decennale di cui all’art. 2946 c.c..
Nel tempo, le sentenze dei giudici di merito e legittimità hanno portato ad un cambiamento radicale nella parificazione tra contributi ed imposte confermando l’orientamento della Cassazione che ha confermato anche ultimamente, come sopra riportato, la natura tributaria dei contributi previdenziali avendo dimostrato che la obbligatorietà dei versamenti e la mancanza di una solidarietà di categoria oltre ad un uguale procedimento di riscossione hanno assimilato entrambi i tipi di versamento.
Luca Labano
27 marzo 2019