I dividendi nella Convenzione Italia-Cina
Nel panorama delle convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia a metà degli anni ‘80, gli accordi intervenuti tra l’Italia e la Repubblica Popolare Cinese (Cina nel prosieguo) in materia di dividendi ricalcano sostanzialmente il contenuto del Modello OCSE allora vigente (del 1977).
Questa circostanza è particolarmente singolare se si considera il periodo storico nel quale si inserisce la stipula della Convenzione Italia–Cina, di certo contraddistinto da una maggiore disomogeneità negli assetti economici e giuridici degli Stati contraenti.
Nella Convenzione in esame è però riscontrabile una peculiarità con riferimento alla nozione di “dividendi” che include (in base al protocollo) gli utili distribuiti dalle joint venture. Un’altra peculiarità, indirettamente connessa al trattamento convenzionale dei dividendi, è contenuta nel paragrafo 3 dell’art. 23 della convenzione che, al fine di eliminare la doppia imposizione, riconosce in via unilaterale alle società cinesi con partecipazioni qualificate in società italiane il cosiddetto “indirect credit” per le imposte pagate in Italia dalle imprese italiane che distribuiscono i dividendi (“… quando il reddito proveniente dall’Italia è un dividendo pagato da una società residente dell’Italia ad una società residente della Repubblica popolare cinese che possiede non meno del 10 per cento delle azioni della società che paga i dividendi …”).
Nei paragrafi che seguono, passando in rassegna le disposizioni convenzionali in materia di dividendi (art. 10), si richiamano – per ciascun paragrafo dell’articolo in esame – gli aspetti qualificanti del Modello OCSE, quale matrice primaria degli accordi, e si confrontano le scelte effettuate nella Convenzione in esame con quelle adottate dall’Italia nei trattati con altri Paesi. Non vengono, invece, prese in esame le soluzioni contenute nella Convenzione in rapporto alla prassi convenzionale seguita dalla Cina con altri Stati. Nell’ultimo paragrafo si pone a confronto la legislazione italiana con quella convenzionale e si delineano, anche in vista di una possibile revisione degli accordi, le evoluzioni intervenute nel nostro ordinamento nel trattamento fiscale dei proventi derivanti dalle azioni e dagli strumenti finanziari partecipativi.
La potestà impositiva in materia di dividendi
I primi due paragrafi dell’art. 10 della convenzione si occupano della distribuzione della potestà impositiva tra i due Stati contraenti (1. “I dividendi pagati da una società residente di uno Stato contraente ad un residente dell’altro Stato contraente sono imponibili in detto altro Stato” 2. “Tuttavia, tali dividendi possono essere tassati anche nello Stato contraente di cui la società che paga i dividendi è residente…”)
Si tratta della cosiddetta allocation rule che, nel caso dei dividendi, come per gli interessi, consente una forma di tassazione concorrente, ancorché limitata, dello Stato della fonte. La doppia imposizione internazionale viene quindi eliminata (o ridotta) attraverso la limitazione del potere impositivo del Paese della fonte, fermo restando il principio della tassazione definitiva del Paese di residenza.
É noto che i limiti alla potestà impositiva dello Stato della fonte si concretizzano in questa materia nell’applicazione di una o più aliquote ridotte rispetto a quelle previste dalla disciplina nazionale. Questa soluzione viene incontro alle esigenze dei Paesi importatori di capitale che altrimenti (nel caso di tassazione nel solo Paese di residenza) vedrebbero totalmente sottratta materia imponibile a favore dei Paesi esportatori di capitali.
In tal modo la disciplina convenzionale è volta ad eliminare o attenuare gli effetti della doppia imposizione internazionale giuridica derivante dalla coesistenza di ordinamenti diversi che incidono sui medesimi redditi, a carico dello stesso soggetto, nello stesso periodo d’imposta, per effetto dell’interagire delle regole di tassazione dello Stato alla fonte e dello Stato di residenza.
La ripartizione della potestà impositiva, così come descritta, non è condizionata da eventuali cambiamenti nei regimi domestici registratisi dopo l’entrata in vigore delle disposizioni convenzionali. In particolare, l’effettiva tassazione nel Paese d’origine non deve ritenersi una condicio sine qua non per l’applicazione del regime convenzionale.
È utile sul punto richiamare l’orientamento assunto in Italia dalla Corte di Cassazione secondo cui le convenzioni bilaterali in materia di doppia imposizione hanno la funzione di dettare norme internazionali di conflitto le quali eliminino la sovrapposizione dei sistemi fiscali nazionali perché, diversamente, i contribuenti dovrebbero subire, in relazione al proprio reddito percepito all’estero, un maggior carico fiscale, con conseguente ostacolo all’attività economica e di investimento internazionale.
Tale scopo viene perseguito mediante l’attribuzione del potere d’imposizione fiscale ad uno Stato contraente e, corrispondentemente, con la rinuncia all’esercizio di tale potere da parte dell’altro Stato. In alcuni casi, come nella specie, viene prevista una limitata potestà impositiva concorrente dello Stato della fonte. Deve, pertanto, considerarsi coerente con tali finalità la sola esistenza del potere impositivo principale dell'altro Stato contraente indipendentemente dall'effettivo pagamento dell’imposta in tale Paese.
Attenzione alla partediption exemption
Così, come meglio specificato in seguito, la participation exemption (il regime di detassazione dei dividendi adottato in Italia nel 2004 con la riforma IRES) non incide sull’applicabilità delle ritenute convenzionali e più in generale sulla vigenza del diritto convenzionale.
Quest’ultimo è prevalente rispetto a quello nazionale, anche se resta comunque applicabile (ai sensi dell’art. 169 del TUIR) la disciplina italiana nel caso il cui il trattamento da essa derivante risulti più favorevole. Sui soggetti residenti in Italia che si avvalgono della convenzione possono invece riflettersi le modifiche apport