La Cassazione si esprime in merito a fatture false quanto a eccessiva genericità delle prestazioni ivi indicate dal contribuente.
A suo avviso la genericità della fattura integrerebbe la prova del reato ascrivibile.
Fattura generica, prova di reato: la sentenza n. 9958 del 13/03/2020
Fattura eccessivamente generica nella descrizione è, secondo la Cassazione prova di reato. Con sentenza di primo e di secondo grado un contribuente veniva condannato, nella qualità di legale rappresentante di una società cooperativa a responsabilità limitata, alla pena di anni due di reclusione “per i reati di cui al D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 8 (capi S e T); art. 61 c.p., n. 2, D. Lgs. n. 74, art. 5 (capo U) in relazione all’anno d’imposta 2010”.
Avverso il pronunciamento della Corte di Appello, il contribuente proponeva ricorso per cassazione, affidando la censura della sentenza a tre motivi di ricorso, tra cui la mancanza di prova in merito all’inesistenza delle operazioni descritte nelle fatture emesse.
La Corte Suprema dichiarava inammissibile il ricorso proposto, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In particolare, i giudici di legittimità – dopo aver respinto la contestazione in merito all’asserita maturazione della prescrizione per i reati contestati[1] – mettevano in evidenza che:
“il Tribunale lariano aveva osservato che tutte le fatture in contestazione dovevano considerarsi false, tanto in virtù delle spontanee dichiarazioni confessorie dell’imputato quanto soprattutto – per l’evidenziata genericità delle prestazioni ivi indicate, prive di riferimenti puntuali e concreti altresì alle prestazioni da eseguirsi e quant’altro”.
Circostanze queste non tenute in debito conto dal contribuente nelle sue impugnazioni ma attenzionate da primo giudice che “ha dato conto delle verifiche compiute e delle acquisizioni documentali, al fine di verificare la fittizietà della documentazione contabile così formata”.
Brevi riflessioni
La sentenza oggi in esame ci consente di “fare il punto” su una questione di grande interesse per tutti gli operatori, avente ad oggetto il grado di specificità che deve rivestire
la descrizione in fattura dei beni ceduti e delle prestazioni effettuate.
La questione è davvero importante poiché dalla sua risoluzione dipende la concreta possibilità del cessionario o del committente di dedurre il costo sostenuto e di detrarre l’IVA assolta[2], per non parlare – appunto – dei correlati effetti penali.
Se il legislatore italiano ha disposto che “la fattura contiene le seguenti indicazioni: (…) g) natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione”
(art. 21, co. 2 del D.P.R. n. 633/1972, rubricato “fatturazione delle operazioni”)[3], la prescrizione unionale ha previsto come obbligatoria ai fini IVA (tra l’altro) solamente l’indicazione della quantità e della natura dei beni ceduti o della entità e della natura dei servizi resi, senza alcun riferimento alla “qualità” (art. 226, punto 6, della Direttiva comunitaria sull’IVA – 2006/112/CE del Consiglio UE) [4].
Da qui i dubbi degli operatori se la previsione “interna” sia andata “oltre”, richiedendo un grado di descrizione delle operazioni effettuate maggiore o addirittura eccessivo, anche perché molto spesso, nel corso delle verifiche o di altra attività istruttoria, gli Uffici provvedono a contestare ai destinatari della fattura l’eccessiva genericità della descrizione[5], procedendo altresì ad una ricostruzione induttiva del reddito[6].
Dal canto suo la Suprema Corte – tenuto conto delle rilevanti finalità di trasparenza e di conoscibilità che tramite tali indicazioni il legislatore ha inteso perseguire – ha più volte specificato che la fattura è un docu