Affrontiamo nuovamente la questione relativa alla cessione di licenza taxi.
La discussione verte sull’impugnazione di un avviso di accertamento e irrogazione di sanzioni per omessa dichiarazione e conseguente omesso versamento IRPEF del 2005 in relazione alla cessione della licenza di taxi che l’Amministrazione finanziaria ha valutato per un importo presuntivo di 150mila euro, mentre il contribuente ha sostenuto essere avvenuta a titolo gratuito.
Con l’ordinanza n. 33788 del 19 dicembre 2019, la Corte di Cassazione ha affrontato la questione relativa alla cessione di licenza taxi.
Cessione di licenza taxi: i fatti di causa
Il contribuente impugnava l’avviso di accertamento e irrogazione di sanzioni per omessa dichiarazione e conseguente omesso versamento IRPEF del 2005 in relazione alla cessione della licenza di taxi che l’Amministrazione finanziaria ha valutato per un importo presuntivo di 150mila euro, mentre il contribuente sosteneva essere avvenuta a titolo gratuito.
La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva parzialmente il ricorso del contribuente riducendo il valore dell’accertamento a 100mila euro.
La Commissione Tributaria Regionale rigettava l’appello.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 11074 del 2016, cassava con rinvio ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale di Napoli, affinché rinnovasse l’apprezzamento del merito della vicenda alla luce della disciplina ad essa correttamente applicabile.
Di conseguenza, il contribuente riassumeva il giudizio davanti alla Commissione Tributaria Regionale, la quale rigettava l’atto di appello.
Il contribuente proponeva ricorso davanti alla Corte di Cassazione, affidato a due motivi di impugnazione, mentre l’Agenzia delle entrate si costituiva con controricorso.
Le ragioni della decisione
Rileva la Corte che i motivi di impugnazione per la loro stretta connessione possono essere trattati congiuntamente, trattandosi nella sostanza di valutare se la CTR in sede di rinvio si sia attenuta o meno al dictum della sentenza n. 11074 del 2016.
Per gli Ermellini:
“a prescindere da una indagine circa una eventuale inammissibilità per avere il ricorrente surrettiziamente cercato di prospettare una situazione di fatto diversa da quella individuata dalla sentenza impugnata – la sentenza n. 11074 del 2016 aveva evidenziato che il giudicante aveva fatto derivare dalla semplice notorietà della onerosità della cessione di azienda anche una correlata presunzione in ordine all’ammontare del corrispettivo ed ha di fatto sollevato l’Agenzia ricorrente dall’onere che le incombe di fornire la specifica dimostrazione dei presupposti dell’azione amministrativa (dovendo essi consistere almeno in presunzioni gravi, precise e concordanti), non solo nell’ottica della legittimità della propria determinazione in ordine all’adozione del provvedimento impositivo ma anche in ordine alla legittimità della liquidazione dell’ammontare della pretesa che in esso è contenuta – “,
in tema di accertamento induttivo dei redditi d’impresa, consentito dall’art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973,
“l’atto di rettifica, qualora l’ufficio abbia sufficientemente motivato, specificando gli indici di inattendibilità dei dati relativi ad alcune poste di bilancio e dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili, perché proprio una tale condotta è di regola a