Le spese per l'abbigliamento sono deducibili?

Ciclicamente riemerge la domanda se le spese sostenute per l’abbigliamento siano o meno deducibili: non si parla dell’abbigliamento da lavoro, ma dell’abbigliamento formale, richiesto a molte categorie professionali ed imprenditoriali (esempio agenti e rappresentanti) che può rappresentare un costo monetario rilevante. Le opinioni in materia sono le più diverse, facciamo finalmente una panoramica di normativa e giurisprudenza sulla materia

deducibilità delle spese per l'abbigliamentoIl reddito da lavoro autonomo è costituito dalla differenza fra l’ammontare dei compensi percepiti nel periodo d’imposta e quello delle spese sostenute nell’esercizio della professione.

E non esiste, a differenza che nel reddito di impresa, una definizione univoca del principio di inerenza, anche se non c’è dubbio che la spesa per essere deducibile, deve essere correlata all’attività professionale nel suo complesso.

Le spese afferenti l’attività professionale sono quindi quelle sostenute per lo svolgimento di attività o per l’acquisizione di beni da cui derivano compensi che concorrono alla formazione del reddito professionale, dovendo sussistere una connessione funzionale, anche indiretta, dei costi sostenuti rispetto alla produzione dei compensi che concorrono a formare il reddito.

Possono rientrare in una tale definizione anche le spese per abbigliamento?

 

Le spese per abbigliamento sono costi a livello fiscale?

Nell’esercizio di alcune attività professionali l’abbigliamento fa spesso il monaco e comunque non c’è dubbio che sia doveroso presentarsi con un abbigliamento consono, sia nei confronti dei clienti che nei confronti della Pubblica amministrazione con cui ci si rapporta (per non parlare dell’abbigliamento di udienza, davanti agli organi giurisdizionali, luogo formale per eccellenza).

Ciò comporta, però, il sostenimento di alcuni costi per l’acquisto degli abiti ed accessori.

E’ allora possibile, nel rispetto del principio di inerenza, dedurre tali costi?

Per il reddito d’impresa, come noto, l’art. 109, comma 5, Tuir prevede che

le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.

[Per dovere di approfondimento si segnala però che parte di autorevole dottrina e di giurisprudenza (cfr. sentenze di Cassazione nn. 18904, 13882 e 14579, tutte del 2018) ritengono che il concetto di inerenza non esiste nel Tuir, ma è insito nel principio di capacità contributiva. N.d.R.]

Per quanto riguarda, invece, il lavoro autonomo, il legislatore stabilisce soltanto che il reddito è costituito dalla differenza fra l’ammontare dei compensi percepiti nel periodo d’imposta e quello delle spese sostenute nell’esercizio della professione (art. 54 Tuir), senza dare quindi una definizione univoca del principio di inerenza, anche se non c’è dubbio che la spesa per essere deducibile, deve essere correlata all’attività professionale nel suo complesso.

E infatti, a tal proposito, l’Agenzia delle Entrate ha affermato che le spese afferenti l’attività professionale sono

quelle sostenute per lo svolgimento di attività o per l’acquisizione di beni da cui derivano compensi che concorrono alla formazione del reddito professionale.

È necessario pertanto che sussista una connessione funzionale, anche indiretta, dei costi sostenuti rispetto alla produzione dei compensi che concorrono a formare il reddito di lavoro autonomo” (risoluzione 8 marzo 2002, n. 79/E).

Applicando la logica, prima del diritto, non ci dovrebbero quindi essere dubbi che la spesa della toga costituisca un costo inerente per l’avvocato e sia dunque deducibile.

Ma nel caso di abbigliamento “generico, seppure formale, potrebbe essere in effetti azzardato seguire lo stesso principio (quanto meno in termini di deducibilità integrale).

Certo vi sono alcuni precedenti di merito (vedi Sentenza n. 6443 del 22/07/2016 della Commissione Tributaria Provinciale di Milano) che hanno affermato, ad esempio, la deducibilità al 50% dei costi per acquisti relativi a vestiario e mobili utilizzati da personaggi del mondo dello spettacolo, considerato che l’art. 54, comma 3, Tuir, stabilisce che

le spese relative all’acquisto di beni mobili diversi da quelli indicati […] adibiti promiscuamente all’esercizio dell’arte o professione e all’uso personale o familiare del contribuente, sono ammortizzabili o deducibili se il costo unitario non è superiore ad euro 516,00 nella misura del 50%”.

 

Non è quindi tanto la natura del bene che ne determina la deducibilità, ma il legame tra esso e l’attività, laddove il legislatore riconosce che alcune spese personali possano essere in effetti collegate allo svolgimento di un’attività professionale, in relazione allo scopo perseguito al momento in cui la spesa è stata sostenuta e con riferimento a tutte le attività tipiche della professione stessa e non semplicemente, ex post, in relazione ai risultati ottenuti in termini di produzione del reddito.

Si pensi all’agente al quale la società mandante impone un determinato vestiario. O, ancora, ai professionisti che lavorano in studi nei quali il contratto di collaborazione o il regolamento interno richiedono un determinato abbigliamento quando incontrano i clienti.

In tutti questi casi la correlazione tra attività professionale e d’impresa e costo del vestiario sembra plausibile, o comunque giustificabile (anche se sempre contestabile).

L’inerenza in ambito professionale è comunque quel processo finalizzato ad individuare quei beni e servizi che, sulla base della comune esperienza e della singola realtà professionale, il soggetto acquista nell’esercizio dell’attività e non (o non solo) per fini privati.

Certo, proprio per il tipo di beni in esame e per il tipo di attività, non è agevole distinguere se l’acquisto rientra tra le esigenze private/personali, oppure tra quelle professionali del contribuente, con la conseguenza che, in queste ipotesi, l’inerenza dovrà comunque essere valutata caso per caso, laddove le spese sostenute dal professionista possono essere dedotte se sono state realmente effettuate e registrate (principio dell’esistenza), se sono relative alla professione stessa (principio di inerenza) e se sono state sostenute nel periodo di riferimento (principio di cassa).

E, come detto, le spese devono essere correlate all’attività nel suo complesso, a prescindere dall’economicità della singola operazione e senza un rigoroso nesso con i singoli compensi percepiti (Cfr. Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 30/2006), con una connessione funzionale, anche indiretta, dei costi ed oneri sostenuti rispetto alla produzione dei compensi che concorrono a formare il reddito di lavoro autonomo (Cfr. Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 79/2002).

In ambito IVA, poi, il requisito dell’inerenza deve essere identificato nel rapporto di strumentalità del bene/servizio acquistato con l’attività professionale in concreto esercitata al momento della detrazione, con la conseguenza che l’IVA è indetraibile se il bene/servizio acquistato, seppur utilizzato per compiere operazioni imponibili, non è riconducibile all’attività svolta (Cfr. Cass., Sent. n. 11353/2016).

 

 

Spese per abbigliamento e detraibilità IVA

Pur essendo la disciplina differente e regolata da diverse disposizioni normative, in via interpretativa possiamo allora cercare di ricavare qualche concetto utile dalla giurisprudenza in tema di inerenza ai fini del reddito di impresa, in particolare ai fini della detraibilità Iva.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18904 del 17/07/2018, ha per esempio ricordato che l’art. 19, primo comma, Dpr. n. 633 del 1972 prevede che il soggetto passivo ha diritto di detrarre «l’imposta assolta o dovuta … o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione», laddove il giudizio di inerenza ha natura qualitativa.

Il contribuente, afferma la Corte, è tenuto a provare (e documentare) l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, laddove, nella sua esplicazione effettiva, tale onere si atteggia diversamente a seconda dello specifico oggetto della componente negativa.
In molti casi, infatti, le caratteristiche documentate del costo o dell’operazione sono tali da far ritenere semplicemente evidente la correlazione tra la spesa e l’attività d’impresa.

In tal senso si spiega la giurisprudenza che distingue tra beni

«normalmente necessari e strumentali» e beni «non necessari e strumentali», concludendo «nel ritenere a carico del contribuente l’onere della prova dell’inerenza solo in questa seconda evenienza» (v. Cass. n. 6548 del 27/04/2012).

Per contro, quando l’operazione posta in essere risulti atipica od originale rispetto alle usuali modalità di mercato, tale onere si atteggia in termini parimenti complessi.
E l’Amministrazione finanziaria, ove ritenga gli elementi dedotti dal contribuente mancanti, insufficienti od inadeguati, ovvero riscontri ulteriori circostanze di fatto tali da inficiare la validità e/o la rilevanza di quelli allegati a fondamento dell’imputazione del costo alla determinazione del reddito, può contestare la valutazione di inerenza.

E, in questa prospettiva appare suscettibile di assumere rilievo anche un giudizio sulla congruità (e antieconomicità) della spesa, laddove l’oggetto del giudizio di congruità indica un giudizio sulla proporzionalità tra il quantum corrisposto ed il vantaggio conseguito.

La contestazione dell’Ufficio non può tradursi però in una mera “non condivisibilità della scelta“, ma deve consistere nella positiva affermazione che l’operazione, sulla base di elementi oggettivi, non si inseriva nell’attività produttiva, sì da determinare un giudizio di inerenza negativo.

La definizione di inerenza sopra individuata, conclude la Corte, è del resto coerente anche con la disciplina dell’Iva e, anzi, appare del tutto rispondente ai parametri desumibili dall’art. 9 della Direttiva 2006/112/CE, secondo il quale

«si considera «soggetto passivo» chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività» e «si considera, in particolare, attività economica lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità» (Corte di Giustizia, 20 gennaio 2005, C-412/03).

 

In ogni caso, si sta parlando di interpretazioni, soggette dunque a contestazione da parte dell’Amministrazione e su cui, come visto, mancano ancora specifici precedenti giurisprudenziali di legittimità.

Però, come detto, anche la logica è parte integrante del diritto.

Giovambattista Palumbo

8 febbraio 2019