Le operazioni di transfer pricing domestico tra società dello stesso gruppo operanti in Italia possono dar luogo a fenomeni di elusione fiscale se non avvengono al valore normale di mercato previsto dall’articolo 9 del Tuir, che costituisce una vera e propria clausola antielusiva non solo nei rapporti internazionali di controllo, ma anche in analoghi rapporti di diritto interno…
Dato normativo
Le operazioni di transfer pricing domestico[1] tra società operanti in Italia possono dar luogo a fenomeni di elusione fiscale se non avvengono al valore normale di mercato previsto dall’articolo 9 del Tuir n. 917/1986[2], che costituisce una vera e propria clausola antielusiva non solo nei rapporti internazionali di controllo, ma anche in analoghi rapporti di diritto interno[3].
In base a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr Cassazione 17955/2013), nell’ipotesi di transfer pricing “domestico” o “interno” deve essere applicato “il principio, avente valore generale, stabilito dall’art. 9 del D.P.R. 917/1986, che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi”[4].
La regola del valore normale prevista dall’articolo 9 costituisce una vera e propria clausola antielusiva. Non può escludersi a priori che operazioni di transfer pricing “domestico”, tra società residenti in Italia e facenti parte di uno stesso gruppo, possano dar luogo a un fenomeno di elusione fiscale ogni qualvolta la fissazione di un prezzo fuori mercato sia dettato dalla convenienza in ambito nazionale di trasferire materia imponibile[5], considerato che, nella valutazione del comportamento del contribuente coinvolto, si deve far riferimento comunque al principio dell’articolo 9 del Tuir.
La disciplina sul transfer pricing non ha funzione antielusiva in senso proprio (cfr Cassazione 21410/2017, 30149/2017 e 20805/2017).
Prassi
Lo strumento può essere utilizzato da società controllanti o collegate, con sede nei territori del Centro Nord, che cedono merci o beni immateriali alle controllate o consociate aventi sede nel Mezzogiorno a un prezzo inferiore al valore normale così come definito dall’ art. 9 del D.P.R. n. 917/1986.
Tale manovra consente di realizzare una contrazione dell’utile per l’impresa settentrionale con reddito assoggettato alle aliquote ordinarie e di ‘gonfiare’ l’utile dell’impresa meridionale che gode delle agevolazioni fiscali previste dall’ art. 26 del D.P.R. n. 601/1973” (circolare n. 53 del 26 febbraio 1999 del Ministero delle Finanze).
Riparto onere probatorio
L’onere della prova in materia di transfer pricing è così ripartito: l’ufficio deve provare l’esistenza di transazioni poste in essere tra imprese controllate che siano state effettuate a prezzi apparentemente superiori (o inferiori) rispetto al valore normale[6]; il contribuente, in virtù del principio di vicinanza alla prova e della regola generale in tema di deduzioni, deve provare che, al contrario, tali transazioni sono avvenute a valori normali ex articolo 9, comma 3, Tuir.
Incombe sul contribuente, giusta le regole ordinarie di vicinanza della prova ex art. 2697 c.c. l’onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua di quanto specificamente previsto dall’ art. 9, comma 3 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Cass. civ. Sez. V, 19-04-2018, n. 9673).
La ripresa a tassazione fondata sul transfer pricing presuppone che l’amministrazione finanziaria effettui una comparazione tra il corrispettivo pattuito infra-gruppo e il corrispettivo applicato da imprese terzi e indipendenti; essa non può stimare il valore normale di un bene o di un servizio ma solo desumerlo effettuando una comparazione con il prezzo o corrispettivo mediamente applicato per i beni e i servizi della stessa specie o similari.
Secondo Cass. n. 16397/2015, “l’onere della prova gravante sull’Ufficio – nella materia in esame del transfer pricing – resta limitato alla dimostrazione dell’esistenza di transazioni tra imprese collegate e dello scostamento evidente tra il corrispettivo pattuito e quello di mercato (valore normale), non essendo tale onere esteso alla prova della funzione elusiva dell’operazione”, e che, per contro, “a fronte degli elementi probatori offerti dall’Amministrazione, incombe sul contribuente [7]l’onere di dimostrare – in forza del principio di vicinanza della prova, desumibile dall’art. 2691 c.c. – non soltanto l’esistenza e l’inerenza dei costi dedotti, ma anche ogni altro elemento che consenta all’Ufficio di ritenere che la transazione sia intervenuta per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua del disposto di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3″ (Cass. 22010/2013; Cass. 10742/2013)”.
La disposizione relativa alla determinazione del valore normale deve essere applicata anche nelle transazioni infragruppo tra società entrambe residenti in Italia, ogni qualvolta il contribuente, con la fissazione di un prezzo fuori mercato, abbia un intento elusivo, e cioè miri a far emergere utili presso la società del gruppo che sconta la tassazione più bassa, non solo per agevolazioni territoriali, ma anche a motivo della veste societaria qualora foriera di un più mite trattamento tributario (Cassazione sentenza n. 12844 del 22 giugno 2015). Nel caso di sospetto transfer pricing, sul contribuente grava l’onere di dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato normali (Corte di Cassazione ordinanza del 22 novembre 2017, n. 27787).
La normativa non integra una disciplina antielusiva in senso propria, bensì è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del transfer pricing. La prova gravante sull’Agenzia non riguarda la maggiore fiscalità nazionale o il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni, tra imprese collegate ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale. Invece, sul contribuente incombe l’onere di dimostrare che tali transazioni sono intervenute per valori di mercato normali, alla stregua di quanto specificamente previsto dall’art. 9, comma 3 del T.U.I.R.
Iva
L’amministrazione finanziaria non può certo ricorrere al transfer pricing per calcolare la base imponibile Iva. A prevalere, in questo caso, è il principio di neutralità dell’imposta. L’amministrazione finanziaria non può ricorrere al transfer pricing per calcolare la base imponibile Iva in quanto in tale settore impositivo prevale il principio di neutralità dell’imposta che si esprime attraverso il riconoscimento ad ogni fornitore o prestatore di servizio, che ha corrisposto l’IVA per l’acquisto di beni o servizi addebitatagli a titolo di rivalsa, del diritto di detrarre l’IVA relativa ai costi sostenuti secondo il noto meccanismo della detrazione.
In base a tale meccanismo l’erario non subisce alcuna perdita in caso di regolare indicazione dell’IVA nei vari passaggi (intermedi) che caratterizzano la cessione del bene o servizio, qualunque sia il prezzo del bene o del servizio stesso. In condizioni normali non è consentito all’Amministrazione rideterminare il valore delle prestazioni e dei servizi acquistati dall’imprenditore escludendo il diritto a detrazione se il valore sia ritenuto antieconomico e dunque diverso da quello da reputare normale o comunque tale da produrre un risultato economico” (Sentenza n. 2240 del 30 gennaio 2018) della Cassazione Civile, Sez. V; Cass. 04/06/2014, n. 12502).
Il calcolo dell’Iva sul corrispettivo può essere disatteso allorquando l’Amministrazi