Transfer pricing: è il contribuente a dover dimostrare la congruità dei prezzi infragruppo

In caso di contestazione del transfer pricing l’onere della prova spetta al contribuente che deve provare la congruità del prezzo infragruppo scelto e utilizzato rispetto al mercato di riferimento; nel caso in questione l’analisi del transfer pricing viene fatta sugli interessi pagati per un prestito infragruppo

Con la sentenza n. 13387 del 30 giugno 2016 (ud. 15 gennaio 2016) la Corte di Cassazione ha imposto al contribuente l’onere di provare la congruità dei prezzi infragruppo.

Per la Corte, la finalità antielusiva sottesa alla norma prevista dal previgente D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 76, c. 5 (ora art. 110 c. 7), finalizzata ad impedire trasferimenti surrettizi di ricchezza in favore di una società infragruppo estera, con sottrazione di materia imponibile alla tassazione nazionale,

“comporta che la disposizione debba trovare applicazione non solo quando i prezzi o i corrispettivi pattuiti siano inferiori a quelli mediamente praticati nel comparto economico di riferimento, ma anche quando per la cessione del bene (nella specie una determinata quantità di denaro) sia stato pattuito un corrispettivo nullo”.

 

Osserva la Suprema Corte che anche in tale ipotesi,

“ed a maggior ragione in tale ipotesi, si realizza una manovra di indebito trasferimento di ricchezza imponibile verso uno Stato estero, alla quale l’ordinamento giuridico reagisce sostituendo il prezzo contrattuale (nullo) con il prezzo di mercato”.

E alle medesime conclusioni la Corte giunge nei casi di transfer price domestico:

“conferma la correttezza di tale conclusione il disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9 che, anche in caso di operazioni tra società infragruppo aventi tutte sedi nel territorio nazionale (transfer pricing domestico), qualora ricorra l’ipotesi di cessione di beni o prestazioni di servizio effettuate senza indicazione di un corrispettivo, consente di valorizzare i componenti reddituali secondo il criterio sussidiario del ‘valore normale’, in sostituzione del criterio ordinario riferito al corrispettivo (mancante)

(conforme Sez. 5, Sentenza n. 17955 del 24/07/2013, Rv. 628827)”.

In caso di operazioni infragruppo intercorse con società estere controllate o controllanti,

“l’onere probatorio gravante sulla Amministrazione finanziaria si esaurisce nel fornire la prova della esistenza della operazione infragruppo e della pattuizione di un corrispettivo inferiore al valore normale di mercato, logicamente comprensivo della più grave ipotesi della assenza di corrispettivo; il contribuente che intende contrastare la pretesa impositiva deve invece fornire la prova che il corrispettivo convenuto ovvero la mancanza di un corrispettivo per l’operazione infragruppo, corrisponde ai valori economici che il mercato attribuisce a tali operazioni.

Non è invece necessario che l’Amministrazione finanziaria fornisca ulteriormente la prova che l’operazione infragruppo sia priva di una valida giustificazione economica ed abbia comportato un concreto risparmio di imposta, trattandosi di presupposti costitutivi della fattispecie generale di operazione antielusiva disciplinata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, presupposti non richiesti nel caso in cui venga contestata la violazione della regola del ‘valore normale’ dei componenti reddituali prevista nella specifica fattispecie del transfer pricing internazionale di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 110, comma 7 (conforme Sez. 5, Sentenza n. 18392 del 18/09/2015, Rv. 636455)”.

 

 

Il transfer pricing – Breve nota

Come è noto, il cd. transfer pricing costituisce, dal lato economico, un’alterazione del principio della libera concorrenza.

E questo nel senso che transazioni tra società appartenenti ad uno stesso Gruppo, ma con sede in Paesi diversi, avvengono per prezzi che non hanno corrispondenza con quelli praticati in regime di libero mercato. Il fenomeno, quindi, da luogo ad uno spostamento di imponibile fiscale. E, pertanto, permette di sottrarre imponibile a Stati con maggiore fiscalità.

Cosicchè, proprio allo scopo di preservare la esatta pretesa impositiva di ciascuno Stato, sono state adottate normative nazionali predisposte a eliminare il fenomeno stesso del transfer pricing. Normative che recepiscono il principio del prezzo normale delle transazioni commerciali, contenuto nel Modello OCSE art. 9, c. 1, Convenzione del 1995 – principio recepito anche in Italia.

Sul punto ricordiamo la sentenza n. 11949 del 13 luglio 2012 (ud. 4 aprile 2012), con cui la Corte di Cassazione aveva classificato come elusiva un’operazione di transfer pricing all’interno di un gruppo multinazionale.

 

Per la Corte, se è vero che la violazione di una clausola antielusiva comporta (come ritenuto dal giudice di seconde cure) che l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti di fatto dell’elusione gravi, in via di principio, sull’amministrazione finanziaria che intenda operare le conseguenti rettifiche (cfr. Cass. 22023/06), è pur vero che,

“ai fini della deducibilità di un costo addebitato da una controllante ad una controllata, è pur sempre necessario che risulti, se non che il costo sia correlato a specifici ricavi conseguiti da quest’ultima, quanto meno che l’addebito di tale costo si sia tradotto in un’effettiva utilità per la controllata.

L’onere di fornire la dimostrazione dell’esistenza e dell’inerenza di tali componenti negative del reddito, e qualora si tratti (come nella specie) di costi derivanti da servizi o beni prestati o ceduti da una società controllante estera ad una controllata italiana, anche di ogni elemento che consenta all’amministrazione di verificare il normale valore dei relativi corrispettivi, non può pertanto che cedere – in forza del ed principio di vicinanza alla prova – a carico del contribuente (cfr. Cass. 1709/07)”.

 

La Corte, quindi, rileva l’erroneità dell’impugnata sentenza, laddove ha ritenuto che l’Agenzia non avesse adempiuto l’onere di provare il dedotto comportamento elusivo del contribuente, in violazione delle norme sul transfer pricing. La CTR ha, invero, del tutto pretermesso l’esame dei numerosi e consistenti rilievi,

“che l’amministrazione aveva formulato in ordine all’epoca ‘sospetta’ (a fine esercizio) in cui era stata operata la contabilizzazione della predetta fattura passiva, nonchè alla natura stessa dell’operazione, consistente in una rettifica in aumento del prezzo già praticato dalla fornitrice estera su vendite quantitativamente rilevanti di prodotti software, ed in un notevole scostamento dai prezzi di acquisto degli stessi beni da parte della contribuente italiana”.

Principi ulteriormente confermati nella pronuncia n. 22010 del 25 settembre 2013 (ud. 4 luglio 2013), dove la Corte di Cassazione ha affermato che l’onere della prova gravante sull’Ufficio (nella materia in esame) resta limitato alla dimostrazione dell’esistenza di transazioni tra imprese collegate e dello scostamento evidente tra il corrispettivo pattuito e quello di mercato (valore normale), non essendo tale onere esteso alla prova della funzione elusiva dell’operazione.

“Per contro, a fronte degli elementi probatori offerti dall’Amministrazione, incombe sul contribuente l’onere di dimostrare – in forza del principio di vicinanza della prova, desumibile dall’art. 2697 c.c. – non soltanto l’esistenza e l’inerenza dei costi dedotti, ma anche ogni altro elemento che consenta all’Ufficio di ritenere che la transazione sia intervenuta per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua del disposto di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3, (cfr. Cass. 11949/12, 10742/13)”.

Nel caso di specie, a fronte dell’allegazione, da parte dell’Ufficio, di dati desumibili (in conformità alla disposizione succitata) dai listini ufficiali della BundesBank, non risulta siano stati offerti dalla contribuente elementi di prova di segno contrario, atti a far ritenere che il corrispettivo (interessi passivi) del mutuo erogato dalla società tedesca fosse in linea con quello medio praticato sul mercato della mutuante.

 

19 settembre 2016

Gianfranco Antico