Il valore probatorio delle dichiarazioni testimoniali rese durante una verifica fiscale

la Cassazione che ha chiarito qual è il valore probatorio delle dichiarazioni testimoniali rese nel corso di una verifica fiscale; analizziamo qual è il procedimento del giudice per valutare le dichiarazioni testimoniali raccolte dai verificatori e la possibilità che possano fare prova contro il contribuente accertato.

Commercialista Telematico | Software fiscali, ebook di approfondimento, formulari e videoconferenze accreditateLa Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 21491 del 15.9.2017, ha chiarito qual è il valore probatorio delle dichiarazioni testimoniali rese nel corso di una verifica fiscale.

Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per cassazione contro la sentenza resa dalla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, che, accogliendo parzialmente l’appello proposto dalla stessa, aveva ritenuto legittimo l’accertamento emesso per IVA, IRPEF e sanzioni nei confronti di un contribuente quanto all’anno d’imposta 2006, annullandolo invece per gli anni 2004 e 2005.

L’amministrazione finanziaria lamentava in particolare la violazione dell’art.39, c. 2, lett. d, DPR n.600/73, nonchè degli artt.2730 e 2729 c.c..

Le censure, secondo i giudici di legittimità, meritavano un esame congiunto ed erano fondate, laddove contestavano l’affermazione del giudice di appello in ordine all’esclusione di ogni valenza probatoria con riferimento alle dichiarazioni confessorie rese dal contribuente.

Come infatti già chiarito dalla Corte, in tema di contenzioso tributario, le dichiarazioni rese in sede di verifica da un soggetto (nella specie, il direttore tecnico) che abbia operato per conto dell’impresa cui sia attribuita l’emissione di fatture per operazioni inesistenti possono, anche da sole, fondare l’accertamento di un maggior imponibile ai fini dell’IVA, non trattandosi di elemento indiziario, ma di vera e propria confessione stragiudiziale (cfr. Cass. nn. 28316/20050, 12271/2007 e 22616/2014).

Inoltre, evidenzia ancora la Corte, una volta stabilita con esattezza, per un determinato esercizio di bilancio, anche tramite le citate dichiarazioni, la percentuale di incidenza di una particolare materia prima sul totale degli acquisti, tale percentuale può essere utilizzata anche per la determinazione del volume d’affari relativo a diversi anni d’imposta, se la natura dell’attività imprenditoriale nel corso degli anni non sia cambiata.

Se infatti è vero che i dati relativi ad un determinato e specifico periodo di imposta escludono la legittimità della “supposizione della costanza del reddito” in anni diversi da quello in cui è stata accertata la produzione, è però anche vero che gli stessi non precludono all’Amministrazione finanziaria di avvalersi, nell’accertamento del reddito (o del maggior reddito), di dati o notizie comunque raccolti, con la conseguenza che la percentuale di ricarico può essere legittimamente determinata con riferimento alla dichiarazione del contribuente relativa al periodo di imposta precedente, a fronte di un volume di vendite accertato sulla base di dati afferenti all’esercizio in corso (cfr. Cass. nn. 5049/2011, 12774/1998, 6253/2003, 1647/2010 e 20628/2015).

La sentenza della CTR aveva invece radicalmente escluso qualunque valore probatorio alle dichiarazioni confessorie rese dal contribuente in sede di verifica, addossando all’Ufficio l’onere di fornire ulteriori elementi a sostegno della pretesa.

Le dichiarazioni rese alla Guardia di Finanza (o all’Agenzia delle Entrate) nel corso delle verifiche possono costituire, quindi, validi indizi probatori e concorrono a formare il convincimento del giudice (Cass. nn. 21813/2012, 22519/2013, 12245/2010, 22210/2008, 25362/2007 e 16825/2006).

L’inammissibilità della prova testimoniale non comporta infatti l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi (o, ancor più, del medesimo contribuente), distinguendosi queste dalla tipica prova testimoniale per il loro valore probatorio, che è quello proprio degli elementi indiziari, senza che si determini nemmeno una violazione del principio di parità di armi, potendo il contribuente contestare la veridicità delle dichiarazioni in questione e introdurre a sua volta, nel giudizio di merito, altre dichiarazioni di terzi rese a discarico in sede extraprocessuale (cfr Corte cost. n. 18/2000; Cass. nn. 20032/2011, 10785/2010, 9402/2007 e 4423/2003).

Sebbene poi, testualmente, l’art. 2729 c.c., così come il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, ed il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, si esprimano al plurale, gli elementi assunti a fonte di presunzione non devono essere necessariamente plurimi, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su un elemento unico, purché preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è peraltro sindacabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (cfr Cass. nn. 6947/2015, 656/2014 e 9402/2007).

D’altro canto, poiché la prova di circostanze favorevoli alla parte non può essere desunta dalla versione dei fatti da essa offerta, in contrapposizione a quella emergente dalle dichiarazioni di terzi, in caso di contrasto spetta al giudice del merito effettuare tutte le verifiche del caso, sul piano logico e fattuale (cfr Cass. nn. 8068 e 8069 del 2010).

Se poi l’ammissione delle circostanze sfavorevoli si basa sulle dichiarazioni della stessa parte è chiaro come le stesse, come ora ribadito dalla Corte, assumano il valore di confessione stragiudiziale.

Già con la sentenza 9552 del 19 aprile 2013 la Corte di Cassazione aveva, del resto, ribadito che il divieto della prova testimoniale nel processo tributario, di cui all’articolo 7 comma 4 del d.lgs. 546/92, preclude l’assunzione di dichiarazioni orali di terzi all’interno del processo, ma non implica l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rilasciate fuori dalla sede processuale, contenute in documenti o altri supporti.

Il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio davanti alle commissioni tributarie, sancito dal d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 art. 7, c. 4, si riferisce dunque solo alla prova testimoniale da assumere nel processo (che è necessariamente orale, di solito a iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento di testi e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio) e non implica, pertanto, l’inutilizzabilità ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale.

Del resto, come noto, l’Amministrazione può porre a fondamento della propria attività conoscitiva ogni dato comunque in suo possesso.

Ciò che rileva dunque è solo l’attendibilità delle fonti di prova acquisite.

Attendibilità che, in caso di dichiarazione a sé sfavorevole, assurgerà, come detto, al valore di vera e propria confessione stragiudiziale.

E’ evidente del resto che quando le stesse dichiarazioni (aventi in via ordinaria valore di indizi), tra di loro convergenti, confermano in modo chiaro altri elementi già emersi nel corso della verifica (o quando, addirittura, come nel caso di specie, sono confermate perfino dal contribuente), allora esse assurgono al valore di vera e propria prova.

E anche le dichiarazioni rese dall’indagato in sede penale costituiscono dichiarazioni confessorie liberamente valutabili dal Giudice tributario ed idonee a costituire prova della fondatezza dell’accertamento.

Anche tale principio è stato già affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 9320 depositata l’11 giugno 2003, laddove veniva in particolare affermato che “la individuazione degli elementi di prova ritenuti rilevanti ed atti a sorreggere il convincimento costituisce prerogativa esclusiva del Giudice” e che le dichiarazioni rese al pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari, attesa la loro natura confessoria, ben possono sostenere la legittimità degli avvisi di accertamento.

In tema di prova per presunzioni il giudice è dunque tenuto a seguire un procedimento che si articola in due momenti valutativi.

In primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari, per scartare quelli privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, anche presi singolarmente, presentino una potenziale efficacia probatoria.

Successivamente, il giudice deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi, per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva.

L’esistenza di elementi presuntivi a sostegno dell’accertamento comporta comunque l’inversione dell’onere della prova solo laddove tali elementi siano effettivamente idonei a fondare una presunzione, non potendo ammettersi che l’Amministrazione possa fondare un accertamento su qualunque elemento, anche privo di qualsivoglia valore indiziario.

20 settembre 2017

Giovambattista Palumbo