prendendo spunto da una sentenza di Cassazione, vediamo quali sono i presupposti che legittimano l’accertamento sintetico e le prove che può fornire a suo favore il contribuente; nel caso in esame una vincita al gioco…
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21142 del 19.10.2016, ha nuovamente affrontato il tema della legittimità dei presupposti per procedere ad accertamento sintetico.
Nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate aveva notificato al contribuente due avvisi di accertamento.
L’accertamento sintetico, ai sensi dei commi 4, 5 e 6 dell’articolo 38, d.p.r. n. 600 del 1973, era scaturito da un questionario inerente alle spese sostenute nell’arco temporale dai 2000 al 2006, dal cui esito era stata riscontrata la non congruità del reddito dichiarato rispetto al reddito effettivo desunto, in parte, dall’applicazione dei coefficienti presuntivi di reddito in relatione all’acquisto di un’autovettura e al versamento di rate di ammortamento di un mutuo per la casa principale, ai sensi del d.m. 10 settembre 1992, e, in altra parte, per circa l’80% del reddito accertato, da incrementi patrimoniali con acquisto di terreni edificabili da parte della contribuente, provenienti dal padre, con un esborso per un prezzo dichiarato di euro 434.250,00.
Avverso tali avvisi di accertamento la contribuente proponeva quindi separati ricorsi innanzi alla commissione tributaria provinciale, che, dopo averli riuniti, li accoglieva parzialmente.
Contro tale sentenza proponeva appello l’Agenzia, poi accolto dalla Commissione Tributaria, che dunque confermava gli avvisi di accertamento e condannava la parte contribuente alle spese.
Avverso tale ultima sentenza proponeva infine ricorso per cassazione la contribuente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 53 d.lgs. n. 546 del 1992 e 2909 c.c., sostenendo che l’appello dell’Agenzia si era risolto nella mera esposizione di una diversa opinione rispetto a quanto deciso dalla Commissione Tributaria Provinciale, senza però analitici motivi che censurassero l’iter logico-giuridico alla base della sentenza.
Da ciò, secondo la ricorrente, derivava quindi l’inammissibilità dell’appello, con la conseguenza che doveva ritenersi ormai perfezionato il giudicato sulla circostanza del carattere gratuito del trasferimento immobiliare da padre a figlia.
Tale motivo di ricorso, secondo la Corte, era tuttavia infondato.
Per come risultava dallo stesso ricorso per cassazione, con l’atto d’appello l’Agenzia aveva infatti espresso i propri dubbi in ordine alla possibilità che la contribuente potesse effettuare una scelta sulla natura giuridica da attribuire all’atto di vendita, considerandolo simulato a fronte di una dissimulata donazione.
Al riguardo, afferma la Corte, doveva quindi ritenersi che, con dette espressioni, l’Agenzia avesse sufficientemente censurato la decisione dei giudici di primo grado, che avevano avallato la tesi della ricorrente circa la natura dell’atto concluso difforme da quanto emergente dal rogito notarile, in assenza di ogni altra evidenza.
Con il secondo motivo di ricorso, la parte contribuente denunciava inoltre violazione e falsa applicazione degli artt. 26 d.p.r. n. 131 del 1986 e 53 Cost., sostenendo che, posto che l’articolo 26 citato stabilisce, ai fini dell’imposta di registro, una presunzione di liberalità dei trasferimenti immobiliari che intervengano tra i coniugi o tra parenti in linea retta, trattandosi di presunzione legale di donazione, il voler ritenere dovuta una maggiore imposizione qualificando l’atto come vendita si sarebbe tradotto in violazione dell’art. 53 Cost., non potendosi fornire la prova contraria alla presunzione legale predetta con la presunzione semplice ex art. 38 cc. 4 e 5 d.p.r. n. 600 del 1973.
Tale motivo di ricorso, secondo i giudici di legittimità, era fondato, intendendo la Corte dare continuità all’indirizzo già espresso in precedente occasione (sez. 5, n. 22218 del 2008), nel senso che la presunzione relativa di liberalità, prevista dall’art. 26 d.P.R. n.131 del 1986, ai fini dell’imposta di registro sugli atti di trasferimento tra coniugi o parenti in linea retta, è applicabile anche per gli altri tributi, in tutte le controversie la cui soluzione dipende dalla qualificazione dell’atto come a titolo oneroso o a titolo gratuito.
Il contribuente può dunque usare tale presunzione per contestare l’accertamento dell’ufficio finanziario, effettuato ex art. 38 d.P.R. n. 600 del 1973, con cui si individua un reddito conseguente l’acquisto di un immobile il cui dante causa sia un parente in linea retta o il coniuge.
Nel caso di specie, il non avere inserito, nel ragionamento probatorio, la Commissione Tributaria Regionale la considerazione di tale norma e della relativa presunzione equivaleva quindi a violazione della norma stessa, con conseguente necessità di accogliere il ricorso sul punto.
La Corte di Cassazione precisa inoltre che, in funzione della natura relativa della presunzione, spetta al giudice del merito soppesare il fatto che la vendita non fosse stata trattata, dal punto di vista dell’imposizione indiretta, come una donazione, essendo state corrisposte imposte ipotecarie, catastali e di registro in misura fissa le prime due e agevolata all’1% la terza, nonché quanto altro risultante dagli atti, anche considerato che la disciplina della presunzione di liberalità è stata incisa dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 41 del 1999, che ha dichiarato illegittima la norma dell’art. 26 cit. “nella parte in cui esclude la prova contraria diretta a superare la presunzione di liberalità dei trasferimenti immobiliari“.
I giudici di legittimità affermano in conclusione il seguente principio di diritto: “ferma restando la necessità in diritto di applicare la presunzione di liberalità ex art. 26 d.P.R. n.131 del 1986 in tutte le controversie tributarie, indipendentemente dalla natura del tributo di cui trattasi, la soluzione delle quali dipende dalla qualificazione dell’atto come a titolo oneroso o a titolo gratuito, costituisce accertamento di fatto – alla luce della natura relativa della presunzione – valutare se la presunzione sia vinta tenuto conto di tutte le circostanze probatorie del caso, potendo in particolare il giudice del merito trarre argomenti in contrario da circostanze quali il trattamento tributario richiesto dalla parte o concesso dall’ufficio ai fini di altri tributi“.
Con un terzo motivo di ricorso, la parte contribuente denunciava infine violazione e falsa applicazione degli artt. 38 c. 6 d.p.r. n. 600 del 1973, 115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c., sostenendo che la disciplina dettata dall’articolo 38, co. 6, d.p.r. n. 600 del 1973, secondo cui, a fronte di un accertamento sintetico, la parte può provare, con idonea documentazione, che il maggior reddito determinato sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, non possa esaurire tutte le ipotesi difensive che legittimamente possono offrirsi al contribuente, dovendo il giudice decidere, facendo applicazione dei principi generali degli articoli 115 e 116 c.p.c., anche in relazione alla regola dell’onere della prova cui all’articolo 2697 c.c..
E ciò a maggior ragione nel caso di specie, nel quale la contribuente, infermiera professionale, non fruiva che di un reddito da lavoro dipendente, inidoneo a giustificare l’ingente esborso per l’acquisto immobiliare, essendo plausibile la donazione paterna.
Anche tale motivo, secondo la Corte, era fondato.
La statuizione della Commissione Tributaria Regionale, che aveva affermato che sarebbe stato onere della contribuente provare che il maggior reddito determinato sinteticamente fosse costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, configurava infatti, effettivamente, la censurata violazione delle regole che presidiano il regime dell’onere della prova.
L’accertamento del reddito con metodo sintetico non impedisce infatti al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, oltre che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta, anche che, più in generale, il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (cfr. sez. 5, n. 20588 del 2005).
La Corte di Cassazione continua dunque a chiarire il quadro di applicazione dell’accertamento sintetico.
Come fatto anche con la recente Ordinanza n. 20488 del 11.10.2016, con la quale la Corte si è pronunciata su una questione interessante: la vincita al gioco come elemento di prova per superare la pretesa da accertamento sintetico.
Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha infatti affermato che l’atto impositivo è illegittimo quando il contribuente dimostra che la capacità reddituale stimata col “redditometro” si giustifica con una vincita al gioco.
Vero è che la stessa Cassazione, con l’Ordinanza n. 19257 del 28.09.2016, ha anche affermato che, in tema di accertamento sintetico, la normativa chiede al contribuente qualcosa di più della mera prova della disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte), e, pur non prevedendo esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, chiede tuttavia prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere).
In tal senso va letto lo specifico riferimento alla prova dell’entità di tali ulteriori redditi e della “durata” del relativo possesso.
Nel caso di specie però la ricorrente aveva fornito la documentazione probatoria concernente la dimostrazione della disponibilità di redditi esenti o redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (vincite SISAL), che peraltro facevano andare sotto la soglia dello scostamento del 20% richiesto dalla norma.
E dunque l’accertamento non poteva essere confermato.
7 agosto 2017
Giovambattista Palumbo