in caso di accertamento induttivo che presenta una ricostruzione arbitraria non collegata alla realtà aziendale (nel caso in esame si tratta di percentuali di ricarico sballate), il contribuente può riuscire a far correggere/annullare l’avviso di accertamento
La CTP di Firenze, con la sentenza n. 1292/1/16 del 04.10.2016, ha affermato importanti considerazioni in tema di legittimità dell’accertamento induttivo, si tratta di contestazione su una ricostruzione induttiva arbitraria
Nel caso di specie gli avvisi di accertamento erano stati notificati agli organi del fallimento ella società nel frattempo intervenuto.
Gli avvisi nascevano da una verifica fiscale dalla quale era emersa l’omessa dichiarazione dei redditi, che consentiva pertanto all’Ufficio di procedere ad una ricostruzione induttiva del reddito di impresa.
L’Ufficio assumeva dunque il costo complessivo delle prestazioni di lavoro di dipendenti e collaboratori come elemento da cui ricavare i costi e ricavi della società.
E, ritenendo che tale unica voce di costo fosse attendibile ai fini della ricostruzione complessiva dell’attività societaria, provvedeva ad estrapolare l’incidenza del costo in esame sui ricavi, calcolandola come media aritmetica su un campione di 10 imprese aventi lo stesso codice attività ed ottenendo così una percentuale di ricarico del 62,85%. Con lo stesso campione di imprese veniva poi anche estrapolata la percentuale di incidenza del costo del venduto sul fatturato. Su tali basi venivano infine ricalcolati i valori accertati.
Il curatore aveva dunque presentato istanza di riesame, evidenziando fra l’altro che il codice attività su cui era stato costruito il campione di riferimento non era rappresentativo della effettiva attività svolta dalla società e che il risultato ottenuto dall’Amministrazione Finanziaria era molto lontano sia dalle risultanze delle scritture contabili, non esaminate, e sia dai dati emergenti dal precedenti esercizi. L’istanza veniva tuttavia respinta e il contraddittorio per adesione non andava a buon fine.
I ricorsi venivano presentati direttamente dal rappresentante legale della società e non dal curatore, contestando:
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la carenza della motivazione, non essendovi un nesso logico tra il fatto noto e il fatto ignoto, ricostruito sulla base di una mera media aritmetica applicata ad un limitato campione di imprese
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L’applicazione di un metodo induttivo che portava a risultati contrastanti
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L’avvenuta presentazione di prove contrarie in grado di superare le presunzioni dell’accertamento d’ufficio.
La Commissione Tributaria Provinciale, dopo aver evidenziato come, in assenza di dichiarazione, l’Ufficio avesse legittimamente proceduto a determinare i maggiori imponibili con accertamento induttivo.
La stessa Commissione però riteneva che l’aver preso il costo del lavoro come unico parametro per la determinazione dei costi e ricavi della società non fosse attendibile, anche considerato che l’Ufficio aveva anche altri dati a disposizione e che non si rilevava negli atti accertativi riferimenti specifici alla realtà aziendale.
L’Amministrazione disponeva del resto, sottolinea il giudice di merito, anche dei dati derivanti dalla comunicazione Iva, avendo la società presentata dalla società per gli anni in contestazione e da cui emergeva un volume d’affari ben al di sotto di quello ricostruito dall’Ufficio.
Inoltre, anche attingendo ai dati per gli anni precedenti, riferiti a dichiarazioni regolarmente presentate, sarebbe stato possibile individuare gli effettivi valori realizzati nell’anno in cui invece la dichiarazione era stata omessa.
Se dunque, conclude la Commissione, è diritto dell’Amministrazione Finanziaria, in caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, procedere ad accertamenti d’ufficio sulla base dei dati comunque raccolti e prescindendo dalle scritture contabili, è però anche vero che tale attività accertativa non possa limitarsi all’esercizio di meri calcolo matematici, ma debba essere rivolta alla ricostruzione attendibile degli imponibili.
Gli artt. 41 del DPR 600/73 e 55 del DPR 633/72, evidenzia ancora la CTP, conferiscono infatti all’Ufficio ampi poteri, ma non quello di scegliere arbitrariamente, tra più dati in possesso, soltanto uno ed in particolare quello che fornisce il risultato migliore (per l’Amministrazione, si intende).
Secondo la Commissione, quindi, il costo del lavoro non era un elemento da solo sufficiente ad elaborare una ricostruzione induttiva dei volumi imponibili, anche considerato che la società aveva alle proprie dipendenze lavoratori con contratti a tempo indeterminato, il che aveva portato alla difficile gestione in presenza di contrazione del volume delle commesse (e senza possibilità di contrarre la corrispondente forza lavoro).
Tale circostanza, secondo la CTP, evidenziava quindi che vi poteva essere diretta ed esatta corrispondenza tra il costo del lavoro e il fatturato (cfr anche Cass. 58/13 e 17408/10), avendo poi la società proceduto a diminuire la propria forza lavoro, fino ad eliminarla, con una tempistica tuttavia certamente più lunga rispetto a quella relativa alla contrazione dei ricavi.
Contrazione dimostrata anche dal successivo fallimento della società.
Su tali questioni, si è peraltro recentemente espressa anche la Corte di Cassazione, la quale, con la sentenza n. 11355 del 31.05.2016, ha affermato che nel caso in cui l’applicazione di percentuali ricarico non discenda da mere elaborazioni statistiche, ma dalle rilevazioni effettuate in sede di verifica, le stesse sono legittime, a condizione però che il campione di merci sia rappresentativo ed adeguato per qualità e quantità rispetto al fatturato complessivo.
La percentuale di ricarico, quindi, sottolinea la Suprema Corte, dovrà essere precisamente ricostruita.
Vero è che l’abnormità ed irragionevolezza della difformità tra la percentuale di ricarico applicata dal contribuente e la media di settore è dunque fonte legittima di presunzione ai fini dell’accertamento.
Ma, in ogni caso, la percentuale di ricarico non potrà essere utilizzata solo come metodo di quantificazione dei maggiori ricavi, ma, come detto, dovrà essere precisamente ricostruita, con un accurato paragone con percentuali di ricarico di settore effettivamente comparabili.
In conclusione, l’ufficio potrà determinare il reddito d’impresa con accertamento induttivo “puro”, prescindendo in tutto o in parte dalle scritture contabili ed avvalendosi di presunzioni semplici, anche non gravi, precise e concordanti:
• se il reddito d’impresa non è stato indicato nella dichiarazione;
• se dal verbale d’ispezione risulta che il contribuente non ha tenuto, o ha sottratto all’ispezione, una o più scritture che era obbligato a tenere, o se le scritture medesime non sono disponibili per causa di forza maggiore;
• se le irregolarità formali, le omissioni, falsità e inesattezze delle scritture risultanti dal verbale d’ispezione sono così gravi, ripetute e numerose da rendere inattendibili le scritture stesse nel loro complesso.
E in tali casi l’accertamento induttivo puro, in presenza dei presupposti che lo consentono, può essere fondato anche su presunzioni sprovviste dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, ovvero su quelle generalmente indicate come presunzioni “semplicissime” o “supersemplici”.
Ma, comunque, tornando alle conclusioni della CTP in commento, anche tali presunzioni dovranno mostrare un qualche concreto collegamento con la realtà aziendale del soggetto accertato, non potendo consistere in arbitrarie ricostruzioni.
8 luglio 2017
Giovambattista Palumbo