Considerazione sulle modifiche al regime presuntivo in materia di indagini finanziarie derivanti da prelevamenti non giustificati

proponiamo alcune considerazioni sullo svolgimento delle indagini finanziarie: la differenza fra le indagini contro i professionisti e quelle contro gli imprenditori e l’intervento della Corte Costituzionale, la retroattività della nuova interpretazione

bag moneyTra le principali novità contenute nel Decreto Legge 22 ottobre 2016, n. 193 (c.d. “decreto fiscale”), convertito, con modificazioni, dalla Legge 1 dicembre 2016, n. 225 e collegato alla manovra di finanza pubblica per il 2017, occorre porre particolare attenzione alle modifiche al regime presuntivo in materia di indagini finanziarie (art. 7-quater, c. 1).

Con riferimento al primo aspetto, si rappresenta che la Legge n. 225/2016, inserendo l’art. 7-quater nel D.L. n. 193/2016, ha previsto, al comma 1 (attraverso l’eliminazione della locuzioneo compensi” dal testo dell’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973) l’abrogazione della presunzione relativa di maggior reddito di lavoro autonomo in corrispondenza dei prelevamenti non giustificati dai professionisti, nonché l’introduzione di franchigie per i titolari di reddito d’impresa nei cui confronti siano state attivate le indagini finanziarie ai sensi dell’art. 32, c. 1, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973, in base alle quali le rettifiche di reddito ivi previste non trovano applicazione per prelevamenti fino a 1.000 euro giornalieri e, comunque, a 5.000 euro mensili.

Come noto, la previgente formulazione dell’art. 32, c. 1 n. 2, del D.P.R. n. 600/1973 era frutto delle innovazioni apportate dalla Legge n. 311 del 30 dicembre 2004, pubblicata nel supplemento ordinario n. 192 alla Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 2004, che (coi commi da 402 a 404 dell’articolo 1) aveva apportato rilevanti modifiche alla disciplina fiscale delle indagini finanziarie, prevedendo l’estensione dei poteri di rilevamento anche alle c.d. operazioni fuori conto1, l’allargamento dei soggetti ai quali l’Amministrazione Finanziaria può richiedere dati e notizie2, la definizione di nuove procedure e modalità di scambio delle informazioni tra gli Uffici e gli intermediari interpellati e una più chiara disciplina concernente l’utilizzabilità dei versamenti e prelevamenti bancari in sede di accertamento.

L’art. 32, c. 1, n. 2, infatti, nella versione precedente al D.L. n. 193/2016, disponeva che “I dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma del numero 7) e dell’articolo 33, secondo e terzo comma o acquisiti ai sensi dell’art.18, comma 3, lettera b) del decreto Legislativo 26 ottobre 1995, nr.504, sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni”. In tal modo, pertanto, il legislatore, utilizzando l’espressione “compensi”, chiariva la possibilità di utilizzare legittimamente la presunzione iuris tantum di cui trattasi anche ai professionisti, ponendosi in linea con gli orientamenti giurisprudenziali formatisi in tale direzione in un periodo in cui la richiamata disposizione normativa (antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, cc. 402 404 della Legge Finanziaria 2005, Legge n. 311 del 30 dicembre 2004) non conteneva alcun riferimento al termine “compensi”.

La Corte di Cassazione, infatti, con la sentenza n. 802 del 14 gennaio 2011, ponendosi sulla medesima linea interpretativa già espressa nell’ambito delle sentenze nn. 4601/02, 430/08 e 11750/08, si pronunciava in merito all’ambito soggettivo di applicazione della presunzione di ricavi iuris tantum connessa ai prelevamenti sui conti correnti bancari di cui all’art. 32, c. 1 n. 2 del D.P.R. n. 600/1973, nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, cc. 402 404 della Legge Finanziaria 2005 (Legge n. 311 del 30 dicembre 2004).

Infatti, la Suprema Corte, con specifico riferimento all’applicabilità delle dianzi richiamate disposizioni normative anche ai professionisti, ribadiva che “è del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la norma in questione, e la presunzione in essa contenuta, seppure letteralmente riferibile ai soli ricavi, sia da intendersi applicabile anche al reddito da lavoro autonomo, e non solo al reddito di impresa”.

La quaestio iuris analizzata dall’organo giurisdizionale de quo era strettamente connessa al dato letterale dell’art. 32, c. 1 n. 2 del D.P.R. n. 600/1973 che, nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dalla Legge Finanziaria 2005, non faceva alcun riferimento ai compensi, in quanto disponeva testualmente: “I dati ed elementi risultanti dai conti sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti annotati negli stessi conti e non risultanti dalle scritture contabili3.

Tale presunzione legale4 relativa, pertanto, è finalizzata al recupero a tassazione di un maggior reddito che si ritiene conseguito in virtù del fatto che a prelevamenti bancari non giustificati possono ragionevolmente corrispondere acquisti non contabilizzati di beni o servizi utilizzati per la successiva cessione di beni o prestazione di servizi i cui ricavi non sono transitati in contabilità.

In altre parole, anche per i professionisti, agli ammontari prelevati potrebbero corrispondere spese non dichiarate cui possono fare seguito ricavi occultati all’Amministrazione Finanziaria e percepiti nell’ambito dell’attività esercitata5. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 18016 del 9 ottobre 2005, ha chiarito che tutti i movimenti risultanti dai conti, sia le operazioni di prelievo che di versamento, devono essere imputati a ricavo, salva la prova contraria fornita dal contribuente che è tenuto a provare, altresì, la sussistenza di costi non contabilizzati riconducibili alle operazioni di prelievo, in quanto non è lecito presumere che se un soggetto ha occultato componenti positivi di reddito debba avere anche dichiarato parzialmente i costi sostenuti nell’esercizio dell’attività visto che, al contrario, “la norma muove dal presupposto che il contribuente tenda ad occultare i ricavi, ma non i costi“.

La formulazione della norma disciplinante la presunzione legale di cui trattasi precedente alle modifiche apportate dalla Legge Finanziaria 2005 aveva suscitato dubbi interpretativi in merito alla legittimità della ricomprensione nel suo ambito soggettivo di applicazione dei percettori di redditi derivanti dall’esercizio di lavoro autonomo. Pertanto, sussisteva una incertezza inerente la possibilità di utilizzare una presunzione di tal guisa a danno del contribuente titolare di un’attività di natura professionale sulla base dei prelievi bancari non giustificati e non risultanti dalle scritture contabili. Quanto sopra, in ragione del fatto che l’espressione “ricavi” utilizzata dal legislatore inerisce ai soggetti titolari di reddito d’impresa, diversamente dai lavoratori autonomi che, dall’esercizio di arti o professioni, conseguono “compensi”. Sul punto sembra utile richiamare quanto affermato dalla CTP Forlì, Sezione II, che con sentenza dell’1 marzo 1996 n. 96, ha sottolineato che “L’art. 32 comma 1 n. 2, d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, dispone che se il contribuente sottoposto a verifica non indica il soggetto beneficiario dei prelevamenti annotati nei conti correnti bancari e non risultanti dalle scritture contabili, questi si considerano ‘ricavi’, e tale disposizione non è applicabile nei confronti degli esercenti arti e professioni, i quali – quantunque obbligati alla tenuta di scritture contabili – non producono ‘ricavi’ (riferibili ai redditi d’impresa), bensì ‘compensi’ (riferibili ai redditi di lavoro autonomo), cosicché l’interpretazione letterale nonché sistematica della locuzione ‘ricavi’ porta ad escludere l’estensibilità della norma in questione (avente carattere eccezionale) ai professionisti”.

La Corte di Cassazione, al contrario, con la sentenza n. 802 del 2011, richiamando, tra le altre la sentenza n. 11750 del 18 febbraio 2008, depositata il 12 maggio 2008, ribadiva il principio dell’utilizzabilità delle rilevazioni bancarie anche nei confronti dei professionisti, ponendosi sulla medesima linea interpretativa già espressa dallo stesso organo in diverse occasione, come, ad esempio, con le sentenza n. 2438 del 5 febbraio 20076, n. 19330 dell’8 settembre 2006 e n. 11094 del 6 ottobre 1999.

L’organo giudicante, pertanto, respingeva l’interpretazione restrittiva della norma in esame, affermando che l’utilizzo dell’espressione ricavi non può ragionevolmente portare alla conclusione che la presunzione de qua, avente fonte legale nell’art. 32, c. 1, n. 2, del D.P.R. nr.600/1973, possa essere riferita esclusivamente al reddito d’impresa e non a quello di lavoratore autonomo. Di conseguenza, sia per l’attività di natura imprenditoriale, che per quella di natura professionale, i prelevamenti bancari non registrati nella contabilità ed in merito ai quali il contribuente non è in grado di indicare il beneficiario, erano idonei a rappresentare il probabile utilizzo per acquisti “in nero” ai quali collegare introiti occultati all’Amministrazione Finanziaria. In ogni caso, a detta della Corte di Cassazione, per la risoluzione del thema decidendum prospettato nel caso concreto dal contribuente, era sufficiente fare riferimento semplicemente a quanto disposto dal primo periodo dell’art. 32, c. 1, n. 2, in virtù del quale i dati ed elementi risultanti dai conti sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine. Quanto sopra, in ragione del fatto che l’espressione “dati ed elementi risultanti dai conti”, avente portata generale ed applicabile ad ogni contribuente, è pacificamente riferibile anche ai professionisti e comprende, altresì, i prelevamenti.

La posizione espressa dalla Corte di Cassazione riprendeva quanto già sottolineato, altresì, nella sentenza n. 11094 del 6 ottobre 1999, nella quale, respingendo la tesi prospettata dal ricorrente tendente ad affermare che la presunzione relativa ai redditi d’impresa non sia applicabile ai quelli di lavoro autonomo, producendo l’attività professionale solo “compensi“, si legge che “Deve comunque escludersi, che, nel caso, si debba tenere conto della parola ‘ricavi’ usata al n. 2 dell’art. 32 del D.P.R. 600-73, per affermare che la norma disciplinerebbe solo i redditi d’impresa e non quelli di lavoro autonomo in sede di verifica dei conti correnti acquisiti ai sensi del n. 7 dello stesso art. 327.

In ogni caso, tali problematiche interpretative erano state superate dal Legislatore con le modifiche apportate dalla Legge Finanziaria 2005 e, quindi, con l’introduzione – nel testo in analisi – della locuzione compensi.

Successivamente, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 228 del 24 settembre 2014, stigmatizzando il descritto processo logico-deduttivo che assumeva l’esistenza di un nesso di derivazione logica tra prelevamenti non giustificati e “compensi” sottratti a tassazione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, c. 1, n. 2, secondo periodo, seconda proposizione, del D.P.R. n. 600/1973, limitatamente alle parole o compensi”, introdotte dall’art. 1, c. 402, lett. a, n. 1, della Legge 30 dicembre 2004, n. 3118. In altri termini, la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità della menzionata previsione in materia di presunzioni bancarie nella parte in cui stabiliva, anche per i professionisti, uno stringente automatismo probatorio basato sull’esistenza di un nesso causale tra prelevamenti non giustificati e compensi in evasione d’imposta. Più in particolare, la Corte Costituzionale, giudicando “la presunzione lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito”, ha ritenuto fondato il riferimento alle censure di cui agli artt. 3 e 53 della Costituzione contenuto nell’ordinanza di rimessione9, rilevando che le categorie logico-presuntive valide per i costi e i ricavi d’impresa non possono essere trasferite in modo acritico alla diversa specie dei redditi di lavoro autonomo.

In armonia alla declaratoria di incostituzionalità, il Legislatore (con l’art. 7-quater del D.L. n. 193/2016) ha previsto, al comma 1 (attraverso l’eliminazione della locuzioneo compensi” dal testo dell’art. 32, c. 1, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973) l’abrogazione della presunzione relativa di maggior reddito di lavoro autonomo in corrispondenza dei prelevamenti non giustificati dai professionisti. La presunzione afferente alle operazioni bancarie di segno negativo, pertanto, reciso il nesso legale tra prelevamenti ingiustificati e compensi, conserva ora validità soltanto nei confronti dei titolari di reddito d’impresa; inoltre, resta fermo che (nei confronti della generalità dei contribuenti) continua a operare la presunzione legale relativa che assume una relazione qualificata tra redditi non dichiarati e versamenti non giustificati.

Come anche precisato in apposita circolare della Guardia di Finanza, in “considerazione della natura procedurale della disciplina delle indagini finanziarie e delle pertinenti presunzioni, si ritiene che le novità introdotte dal D.L. n. 193/2016 abbiano carattere retroattivo e risultino applicabili, pertanto, a tutti i periodi d’imposta ancora accertabili.

L’effetto anche per il passato dell’abrogazione della presunzione di compensi ‘in nero’ a fronte di prelevamenti ingiustificati da esercenti arti e professioni va tanto più affermato in considerazione dell’efficacia retroattiva delle declaratorie di incostituzionalità della Corte Costituzionale.”

9 giugno 2017

Nicola Monfreda e Serena Aveta

1 La principale novità rinvenibile nella riformulazione del numero 7 dell’articolo 32 è relativa all’elemento oggettivo dell’indagine bancaria, ovvero il tipo di operazioni che possono essere intercettate in sede di controllo fiscale. Il nuovo n. 7 stabilisce, infatti, che le richieste dell’Amministrazione Finanziaria possono avere ad oggetto dati e notizie riferibili, non solo a “rapporti di conto” intrattenuti dal contribuente controllato, ma a “qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata, ivi compresi i servizi prestati, con i loro clienti, nonché alle garanzie prestate da terzi”. La vigente normativa, co come riformulata, prevede, pertanto, la possibili, per l’Amministrazione finanziaria, di attivare la procedura per l’acquisizione dei dati relativi a tutti i rapporti intrattenuti e alle operazioni effettuate dal contribuente con operatori finanziari a seguito del rilascio, da parte di un organo interno alla stessa Amministrazione, di un’autorizzazione, configurabile, secondo la p accreditata dottrina, quale provvedimento amministrativo di natura ampliativa”. Risultano, conseguentemente, conoscibili non soltanto tutti i servizi di investimento offerti dagli enti creditizi e finanziari (ad esempio, le gestioni patrimoniali), ma pure tutte quelle prestazioni rese alla clientela, di carattere accessorio, che possono assumere rilievo ai fini dell’individuazione delle disponibili finanziarie dei contribuenti sottoposti a controllo. A proposito dell’estensione dei poteri di indagine ai “servizi prestati” al cliente, appare utile riportare la definizione normativa di servizi accessori stabilita dal vigente testo unico delle disposizioni in materia finanziaria (articolo 1, comma 6 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58). Ai sensi di tale disposizione, infatti, per “servizi accessori” si intendono:

a) la custodia e amministrazione di strumenti finanziari e relativi servizi connessi;

b) la locazione di cassette di sicurezza;

c) la concessione di finanziamenti agli investitori per consentire loro di effettuare un’operazione relativa a strumenti finanziari, nella quale interviene il soggetto che concede il finanziamento;

d) la consulenza alle imprese in materia di struttura finanziaria, di strategia industriale e di questioni connesse, nonché la consulenza e i servizi concernenti le concentrazioni e l’acquisto di imprese;

e) i servizi connessi all’emissione o al collocamento di strumenti finanziari, ivi compresa l’organizzazione e la costituzione di consorzi di garanzia e collocamento;

f) la consulenza in materia di investimenti in strumenti finanziari;

g) l’intermediazione in scambi, quando collegata alla prestazione di servizi d’investimento;

g-bis) le attività ed i servizi connessi alla prestazione di servizi di investimento o accessori aventi ad oggetto strumenti derivati.

2 La nuova disposizione prevede, infatti, che le richieste della Guardia di Finanza o degli uffici dell’Agenzia delle Entrate potranno essere rivolte non solo a banche e poste (limitatamente, per queste ultime, alle attività finanziarie e creditizie), ma anche a: intermediari finanziari, imprese di investimento, organismi di investimento collettivo del risparmio, società di gestione del risparmio, società fiduciarie.

In altre parole il legislatore ha tenuto conto della molteplici di strumenti o rapporti contrattuali che possono essere posti in essere con ulteriori operatori specializzati, mediante i quali possono essere convogliate e drenate ingenti liquidità. Assume, al riguardo, particolare rilevanza la possibili di acquisire dati e notizie dalle socie fiduciarie, sia di gestione che di amministrazione. In altre parole, la normativa, uniformandosi al parere del Consiglio di Stato dell’1 luglio 2003, n. 2345, ha equiparato il «segreto bancario» a quello «fiduciario» ed inserito le società fiduciarie tra i soggetti destinatari dei precetti in analisi. Pertanto, è possibile l’acquisizione di dati e notizie presso tutti gli operatori che istituzionalmente pongono in essere operazioni di gestione, impiego e movimentazione delle disponibili finanziarie della clientela, in base alla normativa vigente in tema di esercizio dell’attivi bancaria e di intermediazione finanziaria di cui al D.Lgs.n.385/95 e successive modificazioni e al D.Lgs.n.58/98.

3 Si ritiene utile ricordare che le indagini finanziarie, prima dell’entrata in vigore dell’art.1 8 della Legge n. 413 del 30 dicembre 1991, erano legittimate al ricorrere di tassative ipotesi e nel rispetto di restrittivi iter procedurali, disciplinati nell’art .35 del D.P.R. n. 600/1973, ora abrogato. La disposizione di cui sopra, infatti, prevedeva che: “Su conforme parere dell’ispettorato compartimentale delle imposte dirette, l’ufficio delle imposte, previa autorizzazione del presidente della commissione tributaria di primo grado territorialmente competente, può richiedere ad aziende ed istituti di credito e all’amministrazione postale di trasmettere, entro un termine non inferiore a sessanta giorni, la copia dei conti intrattenuti con il contribuente, con la specificazione di tutti i rapporti inerenti o connessi a tali conti comprese le garanzie prestate da terzi, nelle seguenti ipotesi:

a) quando il contribuente non ha presentato la dichiarazione e l’ufficio è in possesso di elementi certi dai quali risulta che nel periodo d’imposta ha conseguito ricavi o altre entrate per ammontare superiore a cento milioni di lire ovvero, se persona fisica, ha acquistato beni di cui al secondo comma dell’art. 2 per ammontare superiore a venticinque milioni di lire;

b) quando da elementi certi in possesso dell’ufficio risulta che il contribuente ha conseguito nel periodo d’imposta ricavi o altre entrate, rilevanti per la determinazione dell’imponibile, per ammontare superiore al quadruplo di quelli dichiarati, a meno che la differenza sia inferiore a cento milioni di lire;

c) quando il contribuente non ha tenuto per tre periodi d’imposta consecutivi le scritture contabili prescritte dagli articoli 14, 18, 19 e 20.

La richiesta può riguardare anche i conti successivi al periodo o ai periodi d’imposta cui si riferiscono i fatti indicati nel precedente comma e può essere estesa ai conti intestati al coniuge non legalmente ed effettivamente separato ed ai figli minori conviventi. Si applicano le disposizioni di cui al secondo comma dell’art. 34.”

4 Ai sensi dell’art. 2728 c.c. le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite.

5 Sulla legittimità delle disposizioni di cui all’art. 32, c. 1 n. 2 del D.P.R. n. 600/1973 si è pronunciata la Corte Costituzionale che, con sentenza dell’8 giugno 2005 n. 225, ha dichiarato “non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, numero 2), del D.P.R. 29 settembre 1973, n.600, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione Tributaria Regionale di Torino”.

6 Nella sentenza n. 2438/2007, la Corte di Cassazione afferma la legittimità del procedimento di imputazione a compensi derivanti dall’esercizio dell’attività di lavoro autonomo di tutti i versamenti comparenti sul conto corrente per i quali non risulta fornita prova di estraneità all’attività lavorativa.

7 Cfr sul punto anche la recente sentenza n. 2432 del 31 gennaio 2017, con la quale la Corte di Cassazione, da ultimo, ha stabilito che “la presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari a norma del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2, non è riferibile ai soli titolari di reddito d’impresa o di reddito di lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti come è reso palese dal richiamo, operato dal citato art. 32, anche all’art. 38 del medesimo D.P.R., riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche (attinente ad ogni tipologia di reddito di cui esse siano titolari)”.

8 La modifica normativa, recata dalle “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2005)”, aggiungendo la locuzione “o compensi” alla previgente formulazione, aveva assimilato i percettori di lavoro autonomo agli imprenditori per quanto concerne l’applicazione della presunzione legale di evasione ai fini delle imposte sui redditi a fronte di prelevamenti non giustificati.

9 Con ordinanza n. 27 del 10 giugno 2013 la CTR del Lazio aveva rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità della norma in rassegna, derivandone la non manifesta infondatezza dalla facilità di concludere nel senso della “eccessiva sproporzione tra lo strumento di indagine affidato all’Amministrazione finanziaria, a fini accertativi, rispetto alle esigenze fiscali di individuazione e tassazione di redditi non dichiarati”, oltre che dall’insuscettibilità di apporvi rimedio attraverso “un’interpretazione adeguatrice, stante la intrinseca irrazionalità della norma, laddove la stessa, con l’aggiunta normativa di cui alla L. n. 311 del 2004, ha inteso esplicitamente fondare una presunzione di legge di maggiori compensi professionali sui meri prelevamenti”.