La vedova si salva dal reato di omesso versamento IVA

partendo da una recente sentenza di Cassazione, esploriamo le casistiche di responsabilità penali che possono emergere in caso di omesso versamento IVA; nel caso in esame il contribuente non risulta responsabile del reato

La Corte di Cassazione ha salvato la vedova dell’imprenditore dalla condanna per il reato di cui all’art.10-ter del D.Lgs. n. 74 del 2000.

Per i supremi giudici, l’obiettiva impossibilità di far fronte all’obbligazione tributaria che le ha reso impossibile fare fronte al pagamento dell’imposta entro la scadenza prevista dalla legge e la sua totale estraneità alle vicende che hanno generato il dissesto, assolvono dal reato iscritto la vedova, che ha assunto la carica di socio di maggioranza e amministratore unico di una Srl dopo la morte del marito

Sono queste le conclusioni che emergono dalla lettura della sentenza n. 15235/17 della Suprema Corte di Cassazione.

L’assenza di dolo e l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria (cfr. Cass. SS.UU. n. 37425/2013), anche attraverso idonee misure da valutarsi in concreto, determinano la cosiddetta forza maggiore: impossibilità di reperire le risorse necessarie a consentirgli l’adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutto il possibile.

Per la Corte, “costituisce costante indirizzo di legittimità quello per cui l’imputato può invocare la assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (Sez. 3, n. 20266 dell’8/4/2014, Zanchi, Rv. 259190); occorre, cioè, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, n. 5467 del 5/12/2013, Mercutello, Rv. 258055)”.

La sentenza impugnata ha rilevato che l’imputata era divenuta consigliere di amministrazione nell’aprile 2010, unitamente al marito (presidente ed amministratore delegato) e al braccio destro; nel luglio dello stesso anno, in esito al decesso del coniuge, la stessa era quindi divenuta presidente del consiglio d’amministrazione ed amministratore delegato, e, infine, amministratore unico nel settembre 2011. Di seguito (e ricostruendo la situazione economico-finanziaria della società) la Corte di merito ha richiamato alcuni passaggi della deposizione del commissario giudiziale, il quale aveva evidenziato che, nei precedenti anni 2008-2009, tutti gli utili della società erano stati impiegati per finanziare società controllate (successivamente fallite), “così creando una situazione di dissesto che aveva poi condotto alla proposta di concordato preventivo, presentata il 26/3/2013”. In forza di questi elementi, la Corte di appello ha quindi concluso nel senso che: “1) il dissesto della I. ‘è stato dolosamente creato a partire dagli anni 2008 e 2009’; 2) le somme incassate a titolo di i.v.a. per la vendita di tre immobili nel 2010 ‘sono state utilizzate, a tutto concedere, per cercare inutilmente di far fronte alla situazione debitoria come sopra creata’; 3) la L. ‘era tutt’altro che una sprovveduta estranea ai fatti sociali’ e che, come socia e componente del c.d.a. fin dall’aprile 2010, era ‘onerata di controllare l’operato dello S., amministratore delegato’. Dal che, la declaratoria di responsabilità”.

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