Individuazione e responsabilità dell'amministratore di fatto

L’amministratore di fatto è quel soggetto che svolge le mansioni di amministratore di una società pur non essendolo ufficialmente: come si individua, e quali problematiche genera la figura dell’amministratore di fatto?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16184 del 3.8.2016, ha stabilito interessanti considerazioni in tema di presupposti di individuazione dell’amministratore di fatto di una società e conseguenti responsabilità.

 

Il Caso

responsabilità amministratoriNel caso di specie l’Agenzia delle entrate ricorreva davanti alla Suprema Corte per la cassazione della sentenza della CTR della Campania, che, confermando la decisione di primo grado, aveva rigettato l’appello dell’Amministrazione Finanziaria in relazione all’impugnazione di un avviso di accertamento notificato al contribuente quale amministratore di fatto di una società cooperativa.

In particolare la Commissione Tributaria Regionale, pur ammettendo che le dichiarazioni rilasciate da terzi in sede di verifica possono avere valore probatorio senza che ciò contrasti col divieto di prova testimoniale nel processo tributario, aveva ritenuto inidonea a provare la qualità di amministratore di fatto del contribuente l’unica dichiarazione resa dal legale rappresentante della società ai verbalizzanti, e dagli stessi considerata “mera ipotesi di veridicità”, disancorata da precisi riscontri.

Con l’unico motivo del ricorso l’Agenzia delle entrate deduceva quindi insufficiente e illogica motivazione su un punto decisivo della controversia, costituito dalla mancata considerazione delle risultanze documentali e delle deduzioni dell’Ufficio dalle quali emergeva che la qualità di amministratore di fatto del contribuente derivava in realtà non solo dalla dichiarazione del legale rappresentante, ma anche dall’effettiva gestione diretta della società da parte del medesimo contribuente, desumibile da ulteriori e non esaminate dichiarazioni.

La ricorrente, in particolare, riportava poi in ricorso l’atto di appello, ove erano state rilevate le ingerenze dell’intimato nella gestione della società e il passo del p.v.c. contenente una ulteriore dichiarazione del rappresentante legale.

 

Il motivo di impugnazione, secondo i giudici di legittimità, era fondato.

Per costante orientamento della Corte, infatti, ai fini della corretta individuazione dell’amministratore di fatto di una società, è sufficiente l’accertamento del suo inserimento nella gestione dell’impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative della società (cfr. Cass. 2586 del 2014, nonché Cass. n. 28819/08; n. 6719/08; n. 9795/99).

I responsabili della violazione delle norme poste a presidio della corretta gestione della società non vanno infatti individuati sulla base della loro qualificazione formale, quanto piuttosto per il contenuto delle funzioni dai medesimi concretamente esercitate.

Pertanto, conclude la Corte, pur in mancanza di una investitura da parte della società, è possibile individuare in un determinato soggetto la figura dell’amministratore di fatto tutte le volte in cui vi sia la prova che le funzioni gestorie, svolte appunto in via di fatto, si concretino in atti che, per la loro natura e non occasionalità, siano sintomatici dell’assunzione di quelle funzioni (cfr. Cass. n. 4045/2016).

Nel caso in esame, poi, la Commissione Tributaria Regionale faceva rilevare che, come peraltro riconosciuto anche nella sentenza impugnata, le dichiarazioni rilasciate da terzi in sede di verifica possono avere valore probatorio.

E però, nel motivare sul punto che “l’unico elemento a carico del contribuente è costituito dalla dichiarazione resa dal Sig. x (amministratore) alla Guardia di finanza in sede extraprocessuale”, aveva omesso di considerare l’esistenza di una ulteriore dichiarazione, dettagliata e specifica, in ordine alle attività svolte dall’amministratore di fatto, senza in alcun modo motivare in proposito.

Nel caso in cui l’Amministrazione sulla base di un quadro presuntivo ben delineato contesti dunque la qualifica di amministratore di fatto e, in conseguenza di ciò, notifichi l’avviso di accertamento per le violazioni tributarie commesse dalla società, è onere del contribuente dare prova del fatto che questi agisse come dipendente.

Nei casi in esame, peraltro, non viene di solito contestato un rapporto fiduciario ma una interposizione soggettiva fittizia, ovvero una simulazione, laddove l’art. 37.3 non ha funzione antielusiva, ma antievasiva, poiché diretta a perseguire un tipico fatto di evasione (tipico in quanto previsto dalla legge come tale), quale quello che può discendere dalla interposizione fittizia di un soggetto.

La fattispecie di cui all’art. 37 c. 3 DPR 600/73 è difficilmente rapportabile agli schemi civilistici fondati sulla distinzione tra realtà ed apparenza; difatti, deve ritenersi chiara la natura prettamente procedurale della norma con la conseguenza che costituisce una facoltà da parte dell’Amministrazione di imputare il reddito (o meglio, il flusso reddituale) al reale possessore, anche sulla base di presunzioni dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (presunzioni per l’appunto ammissibili solo nel processo tributario).

A fronte dunque di un quadro indiziario che ragionevolmente porta a ritenere il contribuente il reale amministratore (c.d. amministratore di fatto) il contribuente deve dare prova delle circostanze idonee a “smontare” la tesi dell’Ufficio.

 

La figura dell’amministratore di fatto

Il ricorso all’amministratore di fatto, nei confronti di soggetti che evidentemente svolgono nei fatti la gestione di società che presentano non di rado giri di affari anche cospicui consente peraltro di evitare le elusioni della normativa, tramite l’istituzione di soggetti schermo.

Ovviamente dovrà essere cura dell’amministrazione dare prova di un quadro indiziario chiaro, preciso e univoco circa lo svolgimento di un’attività gestionale da parte del soggetto che pure formalmente non appare amministratore, restando poi a carico di questi l’onere di dare la prova contraria.

Difatti ai sensi dell’articolo 37 dpr. 600/1973 “In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne e’ l’effettivo possessore per interposta persona”.

Sul punto giova ricordare la giurisprudenza secondo cui

“In sede di accertamenti in rettifica ai fini Irpef, gli uffici competenti sono autorizzati, ai sensi degli artt. 37 e seguenti del D.P.R. 600/1973, ad avvalersi della ‘prova per presunzione’, la quale presuppone la possibilità logica di inferire, in modo non assiomatico, da un fatto noto e non controverso, il fatto da accertare, con conseguente onere della prova contraria a carico del contribuente, il quale, ove intenda contestare l’efficacia presuntiva dei fatti addotti dall’ufficio a sostegno della propria pretesa, oppure sostenere l’esistenza di circostanze modificative o estintive dei medesimi, deve a sua volta dimostrare gli elementi sui quali le sue eccezioni si fondano” (Sent. n. 10345 del 7 maggio 2007 e in senso conforme Cass. civ. Sez. V Ord., 26-11-2009, n. 24933).

D’altronde deve ancora rilevarsi come l’art. 37 citato sia proprio destinato a rimuovere una situazione di contrasto tra titolarità effettiva e titolarità apparente, che è propria di un comportamento simulatorio, come tale quindi riconducibile ad un’ipotesi di interposizione fittizia e non anche ad un rapporto di interposizione reale o gestoria.

Come ricordato dalla Sent. n. 28 dell’11 marzo 2008 della Commissione tributaria provinciale di Roma, Sez. XXIV, la ratio dell’art. 37 c. 3° D.P.R. n. 600/73 è quella di

“ricondurre la tassazione al reale possessore del reddito anche se sul piano strettamente formale questi è diverso dal soggetto che risulta solo formalmente titolare del reddito. Stante tale evidente ratio non necessita di procedere secondo rigorosi parametri ed in maniera omogenea all’individuazione delle fattispecie e dei soggetti interessati dalla norma potendosi anche pervenire, avendo presente il suddetto scopo, a cogliere sfumature differenti se non divergenti opinioni in relazione sia al significato da attribuire all’”interposta persona” sia all’ipotesi civilistiche di interposizione fittizia e di interposizione reale ravvisabili nella norma.

Qualora l’esame del concreto operare evidenzi la costituzione di società con il solo scopo di essere formalmente centri di imputazione dei risultati dell’ attività mentre in realtà tale attività, in base al concreto svolgersi della stessa, è riferibile in modo esclusivo all’amministratore di fatto occulto, a costui vanno imputati i risultati economici dell’attività ai fini tributari essendo irrilevante il formale schermo delle società.”.

La prova per presunzioni è del resto in questi casi consentita dal legislatore all’Amministrazione proprio in considerazione della pericolosità di tali condotte.

 

13 marzo 2017

Giovambattista Palumbo