Liti su cartella: la condanna alle spese e la sufficienza della notifica del ricorso a Equitalia

di Antonino Russo

Pubblicato il 15 marzo 2017

condanna alle spese di lite nel caso di vittoria del contribuente in una controversia ove erano convenuti sia l’ente impositore sia Equitalia

Equitalia Serranda abbassataCon la sentenza n. 3105 del 6 febbraio 2017 la Suprema Corte ha esaminato il caso della sopportazione delle spese di lite nel caso di vittoria del contribuente in una controversia ove erano convenuti sia l’ente impositore sia Equitalia.

Era quest’ultima a proporre ricorso al giudice di ultima istanza dopo che la stessa era stata condannata alle spese, dal Tribunale di Roma (sent. depositata il 21/05/2015) nel giudizio contro un contribuente per la riscossione di una cartella esattoriale.

A seguito delle doglianze esposte dall’agente della riscossione (che sostanzialmente lamentava la violazione degli artt. artt. 91 e 97 c.p.c., D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 12, 24 e 25) la Corte affermava che “nella controversia con cui il debitore contesti l'esecuzione esattoriale, in suo danno minacciata o posta in essere, non integra ragione di esclusione della condanna alle spese di lite, nè - di per sè sola considerata - di compensazione delle stesse, nei confronti dell'agente della riscossione la circostanza che l'illegittimità dell'azione esecutiva sia da ascrivere all'ente creditore interessato; restano peraltro ferme, da un lato, la facoltà dell'agente della riscossione di chiedere a quest'ultimo di manlevarlo anche dall'eventuale condanna alle spese in favore del debitore vittorioso e, dall'altro, la possibilità, per il giudice, di compensare le spese del debitore vittorioso nei confronti con l'agente della riscossione e condannare al pagamento delle spese del debitore vittorioso soltanto l'ente creditore interessato o impositore quando questo è presente in giudizio, ove sussistano i presupposti di cui all'art. 92 cod. proc. civ., diversi ed ulteriori rispetto alla sola circostanza che l'opposizione sia stata accolta per ragioni riferibili all'ente creditore interessato o impositore”.

Va ricordato preliminarmente che l’orientamento univoco della Cassazione indica che, con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell'opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell'ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell'ipotesi di concorso con altri giusti motivi.

Oltre questa premessa, va detto che le due principali tesi, espresse in materia di condanna alle spese di lite, si incentrano sul cosiddetto principio di causalità e sulla regola della mera soccombenza. Secondo la prima il fondamento della condanna alle spese risiede nell’antigiuridicità del comportamento preprocessuale della parte, di cui la soccombenza, oggettivamente intesa, degrada a (più importante) indice rilevatore, per cui conta la condotta della parte che avrebbe potuto evitare la lite e che invece l’ha resa necessaria; quindi, secondo la c.d. teoria della causalità, soccombente è la parte che, lasciando insoddisfatta una altrui fondata pretesa o azionando una pretesa accertata infondata o, più in generale, con la sua condotta anteriore al giudizio, ha “dato causa”, ha provocato l’insorgere della controversia o di determinate spese, nel senso che ciascuna parte, anche quella vincitrice, è chiamata a rispondere delle spese che essa ha causato con istanze o atti che, alla fine del processo, si siano rivelati non strettamente necessari al perseguimento dello scopo di tutelare e ottenere il riconoscimento dei propri diritti.

La regola della mera soccombenza muove invece il suo assunto sul fatto oggettivo, a sua volta riassumibile nella regola victus victori, ai sensi della quale il vinto deve sopportare la totalità delle spese giudiziali; tale regola è quindi scevra da qualsiasi connotazione sanzionatoria e dalla valutazione di elementi soggettivi o di profili di responsabilità ed, in questa prospettiva, soccombente (cioè “colui contro il quale la dichiarazione di diritto avviene”) è la parte le cui domande non siano state accolte, pur se per motivi diversi dal merito, o che veda accolte domande od eccezioni sollevate dalla controparte e, più precisamente, la parte:

a) alla quale è stato negato il riconoscimento, in tutto o in parte, della situazione giuridica dedotta;

b) nei confronti della quale è stata dichiarata l’esistenza di una situazione giuridica altrui.

Tali profili sono evidentemente destinati ad incidere, in tutta evidenza, nei rapporti, anche processuali, che intercorrono tra l’ente impositore e l’Agente della Riscossione.

Va, a tal proposito, ricordato che non è tacciabile di illegittimità il ricorso con il quale il contribuente evochi in giudizio soltanto una delle due parti, contestando però aspetti di competenza della parte non citata in giudizio. In altra parole, avverso un atto notificato da parte dell’Agente della Riscossione, il contribuente può redigere un atto introduttivo contestando sia gli aspetti sostanziali della pretesa sia quelli di forma, non escludendosi altresì le eccezioni di prescrizione delle iscrizioni a ruolo e/o dell’azione di riscossione o ancora quelle attinenti i vizi di notifica dell’atto impugnato e/o di quelli prodromici.

In pratica, il contribuente può anche decidere di convenire in giudizio solo una parte, anche per comportamenti dell’altra, non essendo prevista una ipotesi di litisconsorzio necessario tra le stesse e, soprattutto, in ragione del fatto che i rapporti giuridici, patrimoniali e non, tra l’ente creditore e l’agente della riscossione sono regolati dal D.Lgs. n. 112/1999.

In particolare, per quel che attiene la legittimazione dell'agente della riscossione depone proprio il disposto dell'art. 39 del D.Lgs. n. 112/1999, laddove tale disposizione prevede che il soggetto ultimo citato (nelle liti promosse contro di esso che non riguardano esclusivamente la regolarità o validità degli atti esecutivi) deve chiamare in causa l'ente creditore interessato ed, in difetto di tale incombente, risponde delle conseguenze della lite.

E’ quindi agevole comprendere come (atteso che le liti promosse contro l'agente sono avviate unicamente in conseguenza di atti emessi da tale ente) l'art. 39 si traduce in una conferma del fatto che l'agente della riscossione è (comunque) parte in causa anche quando i motivi di impugnazione non riguardano esclusivamente la regolarità o validità degli atti esecutivi.

A fortiori, deve valere l’osservazione che (a mente dell’art. 10 del D.Lgs. n. 546/1992) la controversia è, comunque, correttamente incardinata una volta che sia convenuto in giudizio l’ente che ha assunto la paternità dell’atto impugnato .

Alla luce di tutto ciò, è oramai prevalente, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, la tesi secondo cui la legittimazione passiva dell’agente della riscossione non può essere mai negata.

Tale conclusione è frutto, sostanzialmente, di una decisione delle Sezioni Unite Civili (n.16412/2007) che (richiamando appunto l’art. 39 del D.Lgs. n. 112/1999) avevano affermato tale linea interpretativa e non vi è dubbio che quest’ultima finisce con l’essere espressione della massima tutela del contribuente: infatti ove il contribuente convenga solo il concessionario, quest’ultimo sarà tenuto a chiamare in causa l’Amministrazione, mentre quando il contribuente convenga solo l’Amministrazione, il concessionario subirà l’esito della decisione come adiectus solutionis causa.

A tal proposito, ancora di recente (Cass. Civ. n. 24204 del 29 novembre 2016) è stato rammentato che “In ogni caso l'aver il contribuente individuato nell'uno o nell'altro il legittimato passivo nei cui confronti dirigere la propria impugnazione non determina l'inammissibilità della domanda, ma può comportare la chiamata in causa dell'ente creditore nell'ipotesi di azione svolta avverso il concessionario, onere che, tuttavia, grava su quest'ultimo, senza che il giudice adito debba ordinare l'integrazione del contraddittorio”.

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15 marzo 2017

Antonino Russo