Il concetto di buona fede e legittimo affidamento nel contenzioso doganale

partendo da un caso sul dazio relativo all’importazione, analizziamo in quali casi il contribuente importatore è considerato in buona fede in caso di contestazione sul dazio applicato

Voluntary DisclosureLa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2073 del 27/1/2017, ha chiarito un rilevante aspetto in tema di contenzioso doganale.

Nel caso di specie la Commissione Tributaria Regionale del Trentino – Alto Adige, aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva respinto, previa riunione, le impugnazioni proposte avverso avvisi di rettifica emessi, ex art.78 del Reg. CE n. 2913/1992, per il recupero di maggiori diritti doganali (dazi e IVA) gravanti su prodotti dichiarati sotto la voce doganale 0703 9000 80 (porri ed altri ortaggi agliacei, allium ampeloprasum) soggetta solo al dazio ad valorem del 9,6% e ritenuti dall’Agenzia delle dogane, sulla base di quanto accertato, da classificare invece alla voce doganale 0703 2000 00 (aglio della specie allium sativum), soggetta a maggiore imposizione in ragione dell’applicazione cumulativa del dazio ad valorem e del dazio specifico di €.120 per kg. 100 di prodotto.

In particolare la società oggetto di contestazione aveva effettuato attraverso la Dogana di Genova undici operazioni di importazione di prodotto classificato alla voce doganale 0703 9000 80, fornito interamente da una ditta cinese; dopo lo sdoganamento le merci

erano state poi inviate ad altra ditta, con sede in provincia di Verona, per il riconfezionamento e l’etichettatura e successivamente inviate a una ditta austriaca con sede in Vienna.

L’indagine, svolta su impulso dell’OLAF e di un gruppo investigativo comune delle autorità doganali italiane ed austriache, era fondata su accertamenti documentali riguardanti tutti i passaggi commerciali della merce importata, sul prelievo di campioni della specialità vegetale rinvenuti presso la sede della società austriaca e sull’esame biologico, mediante esame del DNA commissionato all’Università della Basilicata, che aveva confermato che i campioni appartenevano alla specie allium sativum.

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Il giudice di appello aveva dunque affermato che risultava provato che la merce importata era da classificarsi come “aglio” e che l’importatrice ne era consapevole, sia sulla scorta della documentazione verificata, dalla quale risultava che le importazioni precedentemente dirette in Austria, a seguito della riclassificazione da parte della dogana austriaca del vegetale sotto la voce 0703 2000, con applicazione di maggiore dazio, erano state quindi successivamente indirizzate in Italia, mantenendo la voce 0702 9000.

L’appartenenza del prodotto all’una piuttosto che all’altra categoria era del resto, secondo la CTR, immediatamente percepibile, essendo l’allium sativum caratterizzato da un bulbo diviso in spicchi, mentre le varietà “solo garlic” ed allium ampeloprasum, termini con i quali era descritta la merce nella dichiarazione doganale, erano entrambi monobulbo.

E infatti l’esame biologico del Dna dei campioni, commissionato dall’OLAF, era stato eseguito solo per pervenire ad una classificazione scientifica inconfutabile.

Il giudice di merito aveva inoltre escluso sia la violazione della normativa in materia di ispezioni e prelevamento dei campioni e di contraddittorio, e sia che il campione prelevato non fosse rappresentativo.

Tra le tante censure infine avanzate in sede di ricorso per cassazione, il contribuente denunciava la violazione edell’art.220, par. 2, lett. b) del CDC.

Tale censura, tuttavia, secondo la Corte era infondata.

Secondo la ricorrente la CTR, nel ritenere che l’errata indicazione della voce doganale non era stata determinata da un errore della autorità doganale, ma dalle indicazioni contenute nella dichiarazione doganale della parte, di guisa che andava esclusa l’applicazione della norma invocata, aveva errato per essersi riferita all’autorità doganale individuandola esclusivamente con quella deputata al recupero dei dazi, senza ricomprendere le altre autorità che, nell’ambito delle proprie competenze, avevano fornito elementi rilevanti per la riscossione dei dazi doganali, idonee a suscitare il legittimo affidamento del debitore.

In particolare la parte sosteneva la ricorrenza dell’errore attivo dell’Amministrazione doganale, ricordando che due volte questa aveva proceduto all’esame diretto di partite di merce senza procedere ad alcun rilievo circa la classificazione, e che la classificazione indicata dall’importatore era stata confermata anche dai certificati collaterali rilasciati dall’Ufficio di sanità marittima e aerea del Ministero della Salute, che dovevano essere considerate anch’esse quali autorità che avevano fornito elementi rilevanti per la riscossione del dazio e, quindi, idonee a suscitare il legittimo affidamento del debitore.

Secondo i giudici di legittimità, tuttavia, trovava applicazione nel caso in esame, il consolidato principio secondo il quale, in tema di imposizione fiscale delle importazioni, l’esenzione prevista dall’art. 220, c. 2, lett. b, del Regolamento CEE 12 ottobre 1992, n. 2913 (Codice doganale comunitario), che preclude la contabilizzazione “a posteriori” dell’obbligazione doganale in presenza di un errore dell’autorità doganale e della buona fede dell’operatore, intende tutelare il legittimo affidamento del debitore circa la fondatezza degli elementi che intervengono nella decisione di recuperare o meno i dazi.

E la norma dunque, per essere applicata, richiedeva un compiuto esame da parte del giudice sulla ricorrenza della buona fede, che va dimostrata dal soggetto che intende avvalersi dell’agevolazione, attraverso la prova di tutti i presupposti necessari perché resti impedito il recupero daziario; ed in particolare:

a) un errore imputabile alle autorità competenti;

b) un errore di natura tale da non poter essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza, ed in ogni caso determinato da un comportamento attivo delle autorità medesime, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’operatore;

c) l’osservanza da parte del debitore di tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente (Cass. SU n. 18190/2008, Cass. nn. 13680/2009, 7837/2010, 4022/2012, 7702/2013, 13770/2016, che richiamano consolidata giurisprudenza comunitaria).

La CTR, invece, nell’articolata motivazione aveva accertato, con statuizione non censurata, che, sin dal 2007, l’importatrice aveva avuto cognizione della questione, rilevante sul piano daziario, circa la classificazione del prodotto importato e, lungi dal controbattere dimostrando la correttezza della sua modalità dichiarativa, aveva adottato una strategia operativa volta ad aggirare controlli o ostacoli, spostando il luogo di ingresso in Europa della medesima merce dall’Austria all’Italia, laddove l’errore di classificazione si fondava proprio sulla dichiarazione resa dalla parte privata, giacché i certificati rilasciati dalle altre Autorità erano privi di rilevanza ai fini doganali, non avendo questi determinato la dichiarazione di importazione resa dalla parte, ma avendola piuttosto accettata.

Lo stato soggettivo di buona fede dell’importatore, richiesto dall’art. 220, n. 2, lett. b, del Regolamento CEE n. 2913 del 1992 ai fini dell’esenzione della contabilizzazione “a posteriori” dei dazi, può essere peraltro invocato solo se l’errore dell’autorità sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore di buona fede, il quale deve anche aver rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore in relazione alla sua dichiarazione in dogana, sicché, quando l’errore dell’Amministrazione sia consistito nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell’esportatore, tale buona fede non sussiste e il debitore è tenuto a sopportare il rischio derivante dalle irregolarità che si rivelino in occasione di un successivo controllo (tra le altre, Cass. n.13770/2016).

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22 febbraio 2017

Giovambattista Palumbo