Accertamento sintetico su redditi da prostituzione -meretricio

ogni tanto la stampa segnala attività di accertamento fiscale sulle attività da meretricio; in questo articolo analizziamo come le modalità di accertamento sintetico (cioè sulla base di elementi indicanti la capacità contributiva come l’acquisto di immobili) possono essere utili per colpire fiscalmente i redditi ‘illeciti’, quali sono quelli da prostituzione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6080 del 30.03.2016, “rifugiandosi” in una pronuncia di mera inammissibilità, ha perso un’occasione per chiarire una volta per tutte una questione ancora molto controversa: i termini di tassazione del redditi da meretricio.

Nel caso di specie la contribuente ricorreva per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che, in riforma della sentenza di primo grado, aveva accolto l’appello dell’Ufficio, dichiarando la legittimità dell’avviso con cui l’Ufficio aveva accertato in via sintetica il reddito sulla base dell’acquisto di alcuni immobili, rilevandone indice di capacità contributiva non dichiarata.

In particolare la CTR aveva dunque ritenuto che la contribuente, pur avendo dimostrato la natura dell’attività svolta (prostituzione), non aveva però documentato l’ammontare delle somme percepite, né la loro compatibilità con il reddito accertato sinteticamente,

così non provando quanto detta attività avesse effettivamente influito sul reddito prodotto: prova in mancanza della quale l’accertamento sintetico era stato ritenuto valido e non annullabile.

Quello che però appare fin da subito poco comprensibile è il fatto che, prima di rilevare se l’ammontare delle somme percepite per l’attività di prostituzione fosse o meno compatibile con il reddito sinteticamente accertato, andava probabilmente chiarito se tali somme dovevano o meno essere oggetto di tassazione, laddove l’eventuale illiceità dell’attività produttiva non esclude comunque la tassabilità del reddito da essa derivante, essendo il reddito un dato economico e non giuridico.

In ogni caso la ricorrente impugnava la detta sentenza davanti alla Suprema Corte, deducendo la violazione dei principi normativi che informano la potestà accertativa dell’Agenzia delle entrate, mancando nell’avviso di accertamento il riferimento alla categoria di reddito alla quale ricondurre la capacità reddituale accertata, in base all’art. 6 del TUIR.

Peraltro, sottolineava la ricorrente, derivando il reddito prodotto da prostituzione, attività non illecita, i proventi ottenuti non erano, a suo avviso, imponibili.

Deduceva infine l’impossibilità di provare la provenienza e la consistenza dei redditi prodotti, posta l’esenzione dalla tenuta di scritture contabili in relazione al “lavoro” svolto.

La contribuente proponeva quindi sei quesiti di diritto, i quali, seppur poi, come detto, tutti dichiarati inammissibili dalla Corte, individuano sicuramente argomenti di interesse.

Col primo quesito la ricorrente chiedeva che la Corte dicesse: “se i proventi dell’attività di prostituzione possano essere ascritti ad una categoria di reddito prevista nelle norme vigenti, con particolare riferimento all’art. 6 TUIR“.

Col secondo quesito chiedeva che la Corte dicesse: “se detti proventi, siccome non prodotti da attività illecita né in sede civile, né penale, né amministrativa, ma esclusa come tale da valutazioni che non siano relative alla morale individuale, siano esclusi anche dalla previsione di cui all’art. 14, comma 4 della L. 537 del 1993”.

Con terzo quesito chiedeva che la Corte dicesse: “se la pretesa di assoggettare a tassazione in via sintetica, senza darne definizione giuridica o tributaria, i presunti redditi con i quali si ipotizza sia stato accumulato un patrimonio, non sia in palese violazione dell’art. 53 Cost, laddove esulino dalla capacità contributiva le somme che, come provato, non derivano da redditi in senso tecnico”.

Con il quarto quesito chiedeva che la Corte dicesse se gli assunti di cui all’atto di appello prodotto dall’Agenzia delle entrate (con i quale l’Agenzia aveva richiesto la precisazione dell’ammontare dei redditi prodotti e la prova della loro provenienza), non avessero le caratteristiche di domanda nuova o di tardiva esposizione delle motivazioni.

Con quinto quesito la ricorrente chiedeva che la Corte dicesse se l’attività di meretricio, non contestata, fosse prova sufficiente della provenienza dei proventi utilizzati per l’acquisto dei beni che l’Ufficio aveva posto a fondamento della propria pretesa tributaria.

Col sesto quesito, infine, chiedeva che la Corte dicesse “se l’attività di meretricio-se non de iure condendo- non sia contraria al buon costume, essendo di fatto tollerata se esercitata in casa privata, senza violazione del pubblico decoro e senza che nel suo esercizio vi sia l’intervento di terzo soggetto, che tragga ingiusto profitto dal suo sfruttamento”.

Il ricorso, come detto, veniva dichiarato dalla Corte inammissibile per mancato svolgimento dei motivi d’impugnazione e per carenza di autosufficienza.

Secondo la Corte era infatti inammissibile la critica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro mescolati e combinati, non direttamente e chiaramente collegabili alle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito.

Al di là dunque della specifica decisione, non c’è dubbio che i quesiti posti, anche se, a dire della Corte, malformulati, ponevano comunque all’attenzione dei giudici questioni su cui da tempo c’è un vivace dibattito.

La tassazione dei proventi derivanti da meretricio è infatti tema di costante attualità, tenuto anche conto che, soltanto in Italia, il volume d’affari della prostituzione sembra attestarsi tra i 5 ed i 10 miliardi di euro annui.

Con una pronuncia del 1986 la Corte di Cassazione aveva del resto ritenuto intassabili i proventi da meretricio, assumendo che le somme derivanti dall’esercizio della prostituzione costituissero una forma sui generis di risarcimento del danno subito dalla prostituta “a causa della lesione dell’integrità della dignità di chi abbia subito l’affronto della vendita di sé”.

Stesse conclusioni sono state poi raggiunte anche dalle Commissioni di merito nel 2005 (CTP di Milano, Sez. XLVII, 22 dicembre 2005, n 272) e nel 2006 (CTR della Lombardia, Sentenza del 31 marzo 2006, n. 35/31/05).

A queste pronunce sembra dunque rifarsi la difesa della contribuente, quando chiede alla Corte se tali tipi di proventi fossero effettivamente da considerarsi tassabili ed eventualmente in quale categoria di reddito.

Una presa di posizione in senso favorevole alla tassazione era stata invece fornita dalla CTP di Firenze nel 2007 (CTP Firenze, 8 maggio 2007, n. 146), laddove i giudici di merito avevano sottolineato che i proventi da meretricio andassero certamente attratti a tassazione e ricondotti alla categoria dei “redditi diversi”, ritenendo che la normativa rispondesse proprio all’esigenza, avvertita dal legislatore, di ricondurre a tassazione tutte quelle espressioni economiche, connesse all’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere, idonee a concorrere alle spese pubbliche, in attuazione del disposto di cui all’art. 53 della Costituzione.

In senso analogo si esprimeva, nel 2009, la Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia (CTP Reggio Emilia, 11 giugno 2009, n. 131).

Per ricevere l’avallo di tale percorso interpretativo da parte dei giudici di legittimità occorreva attendere l’anno successivo, allorquando la Suprema Corte (Cass. 20528 del 2010) statuiva che “non vi è dubbio alcuno che anche i proventi della prostituzione debbano essere sottoposti a tassazione, dal momento che, pur essendo un’attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita”.

Ulteriore conferma a siffatta tesi è stata poi fornita dai giudici di legittimità con l’Ordinanza n. 18030 del 2013, in cui i giudici hanno ribadito che “il reddito derivante dall’esercizio della prostituzione, in base al generale principio della tassabilità dei redditi per il fatto stesso della loro sussistenza, è soggetto ad imposizione diretta”. Peraltro, il tema dell’imponibilità, anche ai fini Iva, dei corrispettivi rinvenienti da attività di meretricio è stato oggetto di pronuncia della Corte di Giustizia europea, la quale, nel 2001 (Causa C/268-99 del 20.11.2001), ha statuito che “la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita, la quale rientra nella nozione di attività economiche” e, in quanto tale, è da annoverare tra le attività svolte in qualità di “lavoro autonomo, qualora sia dimostrato che (tali attività) sono svolte dal prestatore di servizio: senza alcun vincolo di subordinazione per quanto riguarda la scelta di tale attività, le condizioni di lavoro e retributive; sotto la propria responsabilità; a fronte di una retribuzione che gli sia pagata integralmente e direttamente”.

Se non paiono dunque sussistere perplessità in ordine all’imponibilità dei proventi in parola, non è ancora chiara, tuttavia, la natura degli stessi.

Una sentenza della Corte del 2011 (Cass. 10578 del 13.05.2011) ha del resto a tal proposito chiarito che allorquando l’attività di meretricio sia autonomamente svolta dal prestatore, con carattere di abitualità: seppur contraria al buon costume, in quanto avvertita dalla generalità delle persone come trasgressiva di condivise norme etiche che rifiutano il commercio per danaro del proprio corpo, l’attività predetta non costituisce reato, e consiste, appunto, in una prestazione di servizio verso corrispettivo, inquadrabile nell’ampia previsione contenuta nel secondo periodo del citato D.P.R. n. 633/1972, art. 3 comma 1”.

Ai fini dell’imposizione diretta, la risposta al quesito posto dalla contribuente se tali tipi di proventi rientrino o meno nelle ipotesi di tassazione come proventi illeciti deve dunque essere positiva, dovendo appunto essere considerati proventi di genesi civilisticamente illecita, per contrarietà al buon costume.

In tal senso deporrebbe il fatto che il contratto stipulato tra cliente e prostituta andrebbe considerato “nullo” per illiceità della causa, ex artt. 1418 e 1343 c.c., sì da far ritenere impossibile, ad esempio, che un cliente, che abbia versato una somma di denaro ad una prostituta dopo aver pattuito con questa il prezzo senza poi fruire della prestazione, possa rivolgersi ad un giudice, in sede civile, richiedendo l’esecuzione del contratto. L’art. 2035 c.c. dispone del resto che “Chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisce offese al buon costume non può ripetere quanto ha pagato”.

La sanzione conseguente a siffatta illiceità è, quindi, riconducibile alla categoria civilistica della nullità contrattuale.

Comunque, sia che i proventi da meretricio siano di natura lecita o sia che siano di natura civilisticamente illecita, non vi è dubbio che essi vadano dichiarati fiscalmente.

CONCLUSIONE

La fattispecie di cui all’art. 14 della Legge 537/93 (tassazione dei proventi illeciti) non rileva infatti solo per i proventi da reato, attenendo anche ai proventi illeciti in generale (compresi dunque anche illeciti amministrativi o civilistici).

I proventi da meretricio vanno quindi attratti a tassazione e ricondotti alla categoria dei “redditi diversi”.

In conclusione, in via ordinaria e a prescindere dalla sussistenza di specifici reati, l’Amministrazione Finanziaria può sempre accertare e tassare i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, non essendo prevista in tal caso alcuna immunità fiscale.

9 aprile 2016

Giovambattista Palumbo