I rimborsi spese erogati dalle associazioni di volontariato: giurisprudenza recente e problematiche di riferimento

quali sono le spese che possono essere rimborsate e quali non lo sono? Ecco un elenco ben preciso suggerito dalla Cassazione che ha fatto recentemente proprio un orientamento rigoroso in ordine alla qualificazione degli esborsi erogati dalle associazioni di volontariato. Vediamo analiticamente come considerare le varie spese…

Commercialista telematicoI termini della questione

La Corte di Cassazione è tornata di recente – attraverso due interessanti ordinanze – sul controverso tema della qualificazione delle somme erogate dalle associazioni di volontariato ai propri associati, relativamente alle quali c’è sempre il rischio insito nella c.d. “truffa delle etichette”.

E’ chiaro, infatti, come la definizione di tali emolumenti in termini di “rimborsi spese” comporti, a differenza del riconoscimento di veri e propri “compensi” in favore degli associati, un indubbio vantaggio fiscale, non rispondente alla logica del sistema, pur improntata al favor verso il fenomeno associativo.

Per tale ragione, pare particolarmente importante l’operazione definitoria della Suprema Corte, la quale stabilisce:

– in primo luogo, che i pagamenti effettuati dalle associazioni di volontariato ai propri associati a titolo di rimborso forfetario, ossia senza specifico collegamento con spese, singolarmente individuate vanno considerati quali compensi;

– in secondo luogo, che i limiti prefissati per tali importi non possono certamente essere costituiti da somme iscritte ex ante ed in astratto in bilancio bensì da parametri di massima per singolo associato in concreto.

Le ordinanze della Cassazione n. 23890 e 24090 del 2015

La recente ordinanza n. 23890 del 23 novembre 2015 trae origine dal ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso un’associazione volontaria di pubblica assistenza per la cassazione di una sentenza di CTR, la quale ha annullato l’avviso di accertamento con il quale l’Ufficio – previa riqualificazione delle somme erogate dell’associazione ai propri associati come compensi, invece che come rimborsi spese – recuperava a tassazione la relativa ritenuta alla fonte. Secondo i giudici regionali, tali somme dovevano considerarsi rimborsi di spese effettivamente sostenute dai volontari, e non compensi, sia per l’esiguità della somma annua corrisposta sia per le modalità di pagamento.

L’ordinanza n. 24090 del 25 novembre 2015 riguarda la medesima controversia, è di identico tenore e giunge alle medesime conclusioni, ma è proposta per un altro anno di imposta.

Il decisum

Vediamo i tratti salienti delle ordinanze gemelle in questione, in quanto idonei a chiarire la problematica che stiamo affrontando.

L’iter argomentativo della Cassazione prende le mosse dal dato normativo per giungere ad una ricostruzione della questione controversa che pare più confacente con la lettera e lo spirito delle norme dettate in tema di volontariato.

I giudici ritengono opportuno preliminarmente chiarire l’esatta portata della disposizione, contenuta nella legge n. 266 del 1991, art. 2, c. 2, secondo la quale “al volontario possono essere soltanto rimborsate dall’organizzazione di appartenenza le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata, entro limiti preventivamente stabiliti dalle organizzazioni stesse“.

Ad avviso della Cassazione, la prima parte di tale disposizione indica che non possono essere considerati rimborsi di spese, e vanno quindi qualificati come compensi, come tali soggetti a tassazione, gli esborsi erogati dalle associazioni di volontariato ai propri associati a titolo di rimborso forfetario, che non abbiano cioè un collegamento con spese, singolarmente individuate, effettivamente sostenute dai percettori.

Quindi, inferisce la Corte, sul piano probatorio, grava sul contribuente che contesta la pretesa erariale (associazione, per quanto riguarda la ritenuta alla fonte, ed associato, per quanto riguarda l’intero prelievo IRPEF) l’onere di documentare il sostenimento delle spese di cui le somme erogate dall’ associazione costituirebbero specifico rimborso“.

La seconda parte di tale disposizione, proseguono i giudici, significa che non possono essere qualificati quali rimborsi spese, ma come compensi, gli esborsi erogati dall’associazione di volontariato ai propri associati qualora gli stessi eccedano i limiti preventivamente stabiliti dalle organizzazioni stesse.

Sull’esatta interpretazione da dare a tale locuzione, la Cassazione ritiene che non possa e non debba farsi riferimento al fatto che “tali limiti andrebbero individuati nell’importo iscritto nel bilancio preventivo dell’associazione come contributi agli associati; in vero, considerazioni legate alla ratio legis – orientata a garantire la genuinità della natura volontaristica dell’attività degli associati e non a disciplinare le modalità di tenuta della contabilità delle associazioni – inducono infatti a ritenere che detti limiti siano riferibili a previsioni relative a massimali di rimborso per singolo associato (complessivi o frazionati in tipologie di spese,come, ad esempio, trasporti o indumenti o telefonia) e non all’entità della posta iscritta nel bilancio preventivo dell’associazione per i rimborsi spese agli associati. Tale conclusione risulta avvalorata, per un verso, dal rilievo che nell’incipit della disposizione si legge: al volontario, al singolare, e non ai volontari; per altro verso, dalla considerazione che lo scostamento tra bilancio preventivo e bilancio consuntivo può fisiologicamente derivare da eventi gestionali non previsti all’inizio dell’esercizio che diano luogo a spese legittimamente disposte dagli organi amministrativi dell’associazione, previamente autorizzate o successivamente ratificate dall’assemblea; si pensi, banalmente, all’ipotesi che in corso di esercizio aumenti il numero dei volontari e, quindi, l’attività dell’associazione e le conseguenti spese ed i conseguenti rimborsi ai singoli volontari che le spese abbiano sostento“.

In sostanza il rapporto lavorativo non deve mascherare un rapporto di lavoro (così Cass. Sez. Lav. nn. 12964/08, 10974/10, 9468/13): ecco che, quindi, “i rimborsi a ciascun singolo volontario, per un verso” devono essere “connessi a spese effettivamente sostenute – il che risulta intrinsecamente incompatibile con la determinazione dell’entità del rimborso con criteri forfettari – e, per altro verso, rientrino in limiti preventivamente stabiliti”.

Quindi al singolo volontario non possono erogarsi rimborsi illimitati, “ma”, continua la Corte, “solo rimborsi contenuti in limiti individuali quantitativi e/o qualitativi (per tipologia di spesa) preventivamente individuati da parte degli organi deliberativi dell’associazione; cosicché nessun rilievo può attribuirsi, ai fini della verifica del suo rispetto, alle previsione di uscite per rimborsi agli associati appostate nei bilanci preventivi delle associazioni”.

La normativa e la prassi di riferimento

La legge-quadro sul volontariato (L. 11-8-1991 n. 266) all’articolo 2 definisce l’attività di volontariato come “quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà”.

Il comma 2 della disposizione in analisi recita, come visto, che “l’attività del volontario non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario. Al volontario possono essere soltanto rimborsate dall’organizzazione di appartenenza le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata, entro limiti preventivamente stabiliti dalle organizzazioni stesse”.

Successivamente, la disposizione sancisce l’incompatibilità della qualità di volontario con qualsiasi forma di rapporto di lavoro o rapporto di natura patrimoniale con l’organizzazione di volontariato.

Tuttavia, il “confine” tra retribuzione e rimborso spese è spesso difficile da cogliere.

Sul punto, la prassi dell’Agenzia delle Entrate si esprime in termini rigorosi: già nel 2010, infatti, un interpello richiesto alla Direzione Regionale dell’Emilia Romagna da un’associazione per la promozione del volontariato si esprimeva nei termini ribaditi oggi dalla Suprema Corte.

Il quesito riguardava, in sostanza, la possibilità di assoggettare o meno a ritenuta d’acconto i rimborsi chilometrici riconosciuti ai volontari.

Come precisato dallo stesso rappresentante legale dell’ente, a tale interrogativo erano state fornite dai consulenti risposte diverse: un professionista suggeriva di assoggettare a ritenuta d’acconto i soli rimborsi per chilometri percorsi all’interno del comune di riferimento equiparando, in tal modo, tali rimborsi alla normativa sui dipendenti; un altro consigliava di non assoggettare a ritenuta i rimborsi chilometrici per evitare di equipararli ai compensi di prestazione occasionale ex art. 71 del TUIR, in contrasto con la legge quadro sul volontariato.

L’Amministrazione, invece, osserva che il DPR 600/1973, agli articoli 23 e ss., indica in quali casi si verifica la necessità di operare la ritenuta alla fonte da parte dei sostituti d’imposta, tra i quali sono soggettivamente annoverati anche egli non commerciali e le Onlus.

Ad avviso dell’Ufficio “il legislatore nella richiamata normativa ha imposto tale adempimento ogniqualvolta le somme erogate rappresentino un reddito imponibile… Dalla lettura degli articoli citati si evince che i rimborsi – intesi come mera restituzione delle spese sostenute per conto di terzi, a favore di soggetti con cui i committenti non intrattengono rapporti di lavoro – non sono stati inclusi tra le erogazioni soggette a ritenuta, dal momento che non rappresentano un reddito, ossia un flusso di ricchezza nuova, che possa rinvenirsi tra le categorie individuate dall’articolo 6 del TUIR”.

L’unica disposizione di legge presente sull’argomento è contenuta nell’articolo 2 della L. 266/1191, recante la legge quadro sul volontariato prevede espressamente la possibilità per l’associazione di volontariato di erogare ai propri volontari somme a titolo di rimborso spese, sempre che presentino i requisiti così enucleati dalla prassi:

  • Essere effettivamente sostenute dal volontariato;

  • Essere relative all’attività prestate per conto dell’associazione di volontariato;

  • Il rimborso avvenga entro i limiti predeterminati dall’associazione di appartenenza.

Dai detti elementi ma anche da una interpretazione sistematica della legge quadro sul volontariato emerge che il rimborso spese deve essere di un ammontare congruo rispetto all’effettiva spesa sostenuta (inidoneo quindi a costituire un compenso mascherato), poichè il volontariato non persegue un fine di lucro.

Al fine di rispettare detta norma, continua la prassi citata, il cui rispetto comporta la non imponibilità ai fini fiscali dei rimborsi spese, è necessario che l’organo sociale dell’associazione, competente in base allo statuto, adotti una delibera con la quale vengano disciplinate in via generale le modalità dei rimborsi spese.

Infine, è opportuno che il rimborso spese risulti da una richiesta scritta dal volontariato da cui risulti esplicitamente il legame con la specifica attività svolta in norme e per conto dell’associazione di volontariato. Ciò è necessario soprattutto a fini probatori, al fine di dimostrare l’effettiva natura della somma erogata a titolo di rimborso.

Conclusioni

Le rigide regole richieste in materia sono volte a contrastare possibili comportamenti abusivi, al fine di escludere un eventuale fine di lucro da parte del volontario; perciò, in ogni caso, il rimborso spese deve, anzitutto, essere di ammontare contenuto per non costituire un compenso camuffato.

Inoltre, è necessario che l’ente adotti una delibera attraverso l’organo sociale competente in base allo statuto (assemblea/consiglio direttivo) con la quale disciplini le modalità dei rimborsi spese.

Ma, in definitiva, quali sono le spese che possono essere rimborsate e quali non lo sono?

Dai principi desunti dalla prassi e dalla giurisprudenza in materia, si può inferire che appaiono rimborsabili:

  • le spese di viaggio ma devono essere inerenti lo svolgimento dell’attività tipica dell’associazione, oltre che dettagliatamente dimostrate;

  • le spese sostenute in trasferta comprendenti sia il vitto che l’alloggio che il trasporto, tutte compiutamente documentate;

  • le spese di trasporto, sempre compiutamente documentate;

  • gli anticipi di spesa del volontario, in nome e per conto dell’associazione, al fine di procurare beni e servizi a favore dell’associazione.

Di contro, non appaiono rimborsabili, come detto, i rimborsi forfetari, ma anche tutte le spese non fornite di puntuale e idonea documentazione.

Infine, quanto alle spese sostenute per recarsi alla sede dell’organizzazione, è stato sostenuto – con opinione condivisibile – che esse non sarebbero rimborsabili, poichè non riferibili all’attività prestata ma propedeutiche allo svolgimento dell’attività di volontariato.

21 gennaio 2016

Martino Verrengia