I presupposti per l'accertamento sintetico

partendo da un reale caso di giurisprudenza, analizziamo quali i sono i presupposti ed parametri su cui il Fisco può legittimamente emetetre un avviso di accertamento basato sull’utilizzo del metodo sintetico

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21995 del 28.10.2015, ha chiarito alcuni aspetti relativi ai presupposti per procedere ad accertamento sintetico.

Nel caso di specie il contribuente aveva proposto ricorso per cassazione nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Veneto, con la quale, in relazione ad una controversia concernente alcuni avvisi di accertamento relativi ad IRPEF dovuta per gli anni d’imposta 1999 e 2000, emessi, ex art.38 cc. 4 e 5 DPR 600/1973, sulla base di spese per incrementi patrimoniali (acquisti di immobili, di aziende, di quote di società e di finanziamenti a società), il giudice di secondo grado aveva riformato la decisione quanto all’avviso di accertamento relativo al solo anno 2000, con rideterminazione del reddito accertabile nella misura di £ 40.700.000, ulteriore rispetto a quello dichiarato, ma inferiore rispetto a quello accertato dall’Ufficio.

In particolare, i giudici d’appello avevano sostenuto che, pur non essendo chiaro il metodo, impiegato dall’Ufficio, di calcolo delle quote di reddito accertato per gli anni in questione, mentre, per l’anno 1999, poteva ritenersi “presuntivamente dimostrata la disponibilità per l’effettuazione della spesa”, per l’anno 2000, non si riscontrava prova della disponibilità necessaria per l’esborso di L. 203.500.000, importo che, pertanto, nella misura di un quinto, pari a L. 40.700.000, poteva ritenersi reddito accertabile, ulteriore rispetto a quello dichiarato, maggiorato delle correlate sanzioni e degli interessi.

Il ricorrente lamentava allora davanti ai giudici di legittimità il fatto che, avendo gli stessi giudici della CTR accertato la piena capacità contributiva per gli investimenti effettuati negli anni dal 2001 al 2004 e nell’anno 1999, difettava, ai fini della legittimità dell’accertamento sintetico, il requisito rappresentato dalla incongruenza “per due o più periodi di imposta” del reddito dichiarato rispetto a quello derivante dall’applicazione dei coefficienti di legge (c.d. redditometro).

La censura, secondo la Suprema Corte, era fondata.

La metodologia di accertamento in esame trova infatti definizione e disciplina normativa nel comma 4 dell’articolo 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che testualmente, nella disciplina vigente ratione temporis, recitava: “L’ufficio, indipendentemente dalle disposizioni recate dai commi precedenti e dall’art. 39, può, in base ad elementi e circostanze di fatto certi, determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze quando il reddito complessivo netto accertabile si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato. A tal fine, con decreto del Ministro delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale, sono stabilite le modalità in base alle quali l’ufficio può determinare induttivamente il reddito o il maggior reddito in relazione ad elementi di capacità contributiva individuati con lo stesso decreto, quando il reddito dichiarato non risulta congruo rispetto ai predetti elementi per due o più periodi di imposta”.

Dalla lettura della norma, evidenziano i giudici della Corte, emerge dunque l’esistenza di “tre presupposti fondamentali, dei quali è necessaria la contemporanea sussistenza, perché gli Uffici possano procedere utilizzando il c.d. redditometro”:

l) la sussistenza, in capo al contribuente, di “elementi e circostanze di fatto certi”, consistenti nella disponibilità dei beni o servizi descritti dal D.M. 10 settembre 1992;

2) uno scostamento del reddito accertabile mediante il redditometro di “almeno un quarto da quello dichiarato”;

3) la non congruità del reddito dichiarato rispetto a quanto ricostruito dagli Uffici “per due o più periodi di imposta”.

Ne derivava pertanto che requisito indispensabile, al fine di legittimare il ricorso all’utilizzo del redditometro, era, tra le altre, lo scostamento riguardante “due o più periodi di imposta”, dato che “il reiterarsi dello scostamento per più annualità, è richiesto dalla norma, in ossequio del principio logico secondo cui, se alla disponibilità di un certo bene consegue di necessità il suo mantenimento economico, tale situazione, salvo casi eccezionali, non si risolve in eventi occasionali, ma, al contrario, implica una serie di spese che presuppongono redditi a tal fine capienti, da valutare in un ambito temporale pluriennale”.

In conclusione, avendo la CTR ritenuto giustificati gli esborsi per tutti gli anni dal 2001 al 2004, tanto da annullare “la parte degli accertamenti concernenti le quote di reddito, conseguenti al calcolo sulla base delle spese negli anni 2001 compreso e seguenti, imputate al 1999 ed al 2000”, ed avendo altresì ritenuto “presuntivamente dimostrata la disponibilità per l’effettuazione della spesa relativa al 1999”, così da annullare in toto l’atto impositivo concernente il 1999, la stessa Commissione avrebbe allora dovuto affermare l’inammissibilità della procedura sintetica di accertamento adottata dall’Ufficio, atteso che, nella specie, risultava la non congruità di un solo periodo d’imposta, l’anno 2000.

La sentenza appena esaminata è l’occasione per rivedere la disciplina oggi vigente, concernente il cosiddetto redditometro, che è lo strumento attraverso il quale l’Agenzia delle Entrate può stimare il reddito presunto di un contribuente, sulla base delle spese che quest’ultimo ha effettuato, grazie ad una serie di indici fissati a priori. Il contribuente può comunque giustificare in sede di contraddittorio lo scostamento tra spese effettuate e il reddito dichiarato.

È infatti compito del contribuente fornire la “prova contraria“, per dimostrare che il finanziamento delle spese effettuate è avvenuto:

  • con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta;

  • con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte;

  • con redditi che non concorrono alla formazione del reddito imponibile.

L’accertamento sintetico è comunque ammesso solo quando il reddito complessivo accertabile (reddito presunto) risulta superiore di almeno il 20 per cento rispetto a quello dichiarato (nella versione normativa precedente tale percentuale era pari del 25 per cento) e la determinazione sintetica del reddito viene effettuata mediante un calcolo basato su alcuni “indicatori di capacità contributiva“.

In pratica, vengono considerate tutte le spese di un certo tipo che sono a conoscenza del fisco, le quali vengono moltiplicate per dei coefficienti legati alla “classe” attribuita al contribuente, sulla base di tre caratteristiche:

  • composizione familiare (single, coppie con e senza figli, monoparentali);

  • età (fino a 35 anni; 35-64 anni; oltre 65 anni);

  • area geografica (Nord, Centro, Sud).

La moltiplicazione delle spese per i coefficienti porta alla determinazione del reddito presunto.

Dopo averlo determinato, l’Agenzia delle Entrate invita dunque il contribuente a giustificare lo scostamento tra spese e reddito, fornendo dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento.

Il contribuente può in ogni caso controllare preventivamente la congruenza tra spese sostenute e reddito dichiarato tramite il Redditest, un software messo a punto dall’Agenzia delle Entrate.

Ai soggetti inseriti nelle liste selettive viene dunque recapitato un questionario con richiesta di chiarimenti (la mancata risposta al questionario comporta una sanzione compresa tra 258 e 2.065 euro) sugli elementi rilevati, da fornire  in sede di contraddittorio, che rappresenta un’opportunità per difendersi prima che sia emesso l’accertamento vero e proprio.

In tale ambito è bene produrre tutti i documenti necessari, anche perché quelli non prodotti non potranno altrimenti essere presi in considerazione in sede di contenzioso.

Al contribuente vengono offerti non meno di 15 giorni per reperire i dati e consegnarli all’ufficio preposto.

Il contribuente potrà in tale sede dimostrare situazioni e fatti certi, o fornire le prove che dimostrino che le spese certe sono state finanziate con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta.
Sia il questionario che viene inviato ai contribuenti selezionati che ogni eventuale accertamento sono dunque tarati sulle caratteristiche dei
beni come risultanti dall’Anagrafe tributaria ed occorre quindi compilare con esattezza i dati, poiché la potenza di un’automobile o i mesi di possesso di un’immobile possono influire sulla determinazione dei redditi.

Per quanto concerne i beni mobili e immobili il nuovo redditometro non guarda alla proprietà ma alla disponibilità di un bene. Il contribuente che, pur non avendo a disposizione una casa o un’automobile, ne è comunque proprietario, deve dunque recuperare tutta la documentazione necessaria a dimostrare la cessione in comodato a terzi e, per esempio, che chi dispone del bene ha un reddito al di fuori del nucleo famigliare.

Per quanto riguarda i movimenti di denaro, dall’ottobre 2013 l’Agenzia delle Entrate ha inoltre accesso a molti più dati rispetto al passato.

A far scattare il campanello d’allarme saranno per esempio un elevato numero di accessi alle cassette di sicurezza e movimenti di denaro superiori al reddito dichiarato.

Le nuove comunicazioni risaliranno al 2011 e i dati saranno la base per creare liste selettive di contribuenti per i quali emergessero incoerenze.

Per il redditometro conta in sostanza la disponibilità di denaro e un’alterazione del reddito può essere dimostrata con un prestito, con donazioni o eredità. In particolar modo, con la movimentazione di grandi cifre (per esempio l’acquisto di una casa da parte di un soggetto con redditi bassi) le donazioni devono essere supportate da specifica documentazione, perché gli accertamenti potrebbero spostarsi dal soggetto coinvolto al soggetto prestatore o donatore.

Altra cosa molto utile è poi conservare le prove di redditi esenti o tassati alla fonte, come gli interessi sui titoli di Stato o sulle obbligazioni, i redditi da locazione di immobili tassati con la cedolare secca o vincite a giochi e lotterie. Questa documentazione può infatti consentire di chiarire eventuali discrepanze fra il reddito indicato in dichiarazione e quello ricostruito dall’Agenzia delle Entrate.

Tutti i beni acquistati nell’ambito della propria attività professionale non rientrano infine nel conteggio del redditometro, ed è dunque consigliabile, in fase difensiva, poter disporre di fatture, addebiti sul conto corrente e ammortamenti in bilancio che dimostrino l’utilizzo non privato ma professionale dei beni acquistati.

Nel caso invece delle medie ISTAT il contribuente dovrebbe dimostrare che ha speso meno di quanto imputato dall’ISTAT.

A poco serve in questo caso pertanto conservare gli scontrini e le ricevute fiscali relativi alle spese alimentari, alla luce del fatto che l’Agenzia delle Entrate, così come la Commissione tributaria, non possono sapere se il contribuente ha, capziosamente, esibito solo una parte delle ricevute.

Le considerazioni che precedono non devono comunque essere intese nel senso della sostanziale impossibilità di fornire la prova contraria, in quanto essa potrà provenire mediante l’uso delle c.d. “massime di esperienza”.

L’Agenzia delle Entrate, espressasi sul punto con la Circolare 31 luglio 2013, n. 24/E, par. 2.3, ha affermato infatti che, quale prova contraria, il contribuente potrà utilizzare “argomentazioni logiche” a sostegno di una diversa rappresentazione di fatto della sua situazione reddituale.

Saranno così considerate “anche le evidenze e le argomentazioni in concreto rappresentate dal contribuente, logicamente sostenibili, pur non supportate da documentazione, nell’ottica di assicurare l’economicità dell’azione amministrativa”.

In conclusione, in virtù delle innovazioni apportate dal D.L. n. 78/2010, sono stati completamente modificati i commi da 4 a 7 dell’articolo 38 del D.P.R. n. 600/1973, in relazione all’accertamento sintetico dei redditi delle persone fisiche.

La nuova disciplina stabilisce che:

– la determinazione sintetica del reddito avviene mediante la presunzione relativa che tutto quanto è stato speso nel periodo d’imposta sia stato finanziato con redditi del periodo medesimo, ferma restando la possibilità per il contribuente di provare che le spese sono state finanziate con altri mezzi, ivi compresi i redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile;

– a detta presunzione si affianca, con pari efficacia, quella basata sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva individuato, con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, mediante l’analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza, ferma restando la prova contraria del contribuente;

– in ambedue i casi il contribuente è tutelato da una «clausola di garanzia»: la determinazione sintetica è consentita solo quando lo scostamento tra il reddito complessivo determinato presuntivamente e quello dichiarato sia pari ad almeno il 20%;

– il contribuente è ulteriormente e significativamente garantito dall’ampia possibilità di fornire eventuali elementi di prova per giustificare lo scostamento tra il reddito dichiarato e la capacità di spesa a lui attribuita, sia prima che dopo l’avvio del procedimento di accertamento con adesione, che deve essere obbligatoriamente attivato, in ossequio alle disposizioni contenute nello Statuto del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212)

– dal reddito complessivo determinato sinteticamente sono deducibili i soli oneri previsti dall’articolo 10 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ferma restando la spettanza delle detrazioni d’imposta

Il decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 24 dicembre 2012 ha dato poi piena attuazione alla modifica normativa introdotta con l’articolo 22 del decreto legge n.78 del 2010.

Specifiche analisi hanno permesso di individuare un numero significativo di spese connesse ai diversi aspetti della vita quotidiana, compresa l’acquisizione di beni durevoli, in relazione alla tipologia di nucleo familiare e all’area territoriale di appartenenza.

Sono state, in concreto, definite circa cento voci di spesa riconducibili alle seguenti macro categorie: “Consumi generi alimentari, bevande, abbigliamento e calzature“, “Abitazione”, “Combustibili ed energia”, “Mobili, elettrodomestici e servizi per la casa”, “Sanità”, “Trasporti”, “Comunicazioni”, “Istruzione”, “Tempo libero, cultura e giochi”, “Altri beni e servizi” e “Investimenti”.

Il citato decreto, relativamente alla quantificazione dell’ammontare della spesa attribuibile al contribuente, come visto, distingue tra:

a) spese di ammontare certo, oggettivamente riscontrabile, conosciuto dal contribuente e dall’Amministrazione finanziaria (“spese certe”);

b) spese di ammontare determinato dall’applicazione ad elementi presenti in Anagrafe Tributaria o, comunque, disponibili (ad esempio potenza delle auto, lunghezza delle barche, etc.) di valori medi rilevati dai dati dell’ISTAT o da analisi degli operatori appartenenti ai settori economici di riferimento (“spese per elementi certi”);

c) spese per beni e servizi di uso corrente (la cui classificazione è mutuata dall’ISTAT), di ammontare pari alla spesa media risultante dall’indagine annuale sui consumi delle famiglie compresa nel Programma statistico nazionale, ai sensi dell’articolo 13 del d.lgs. 6 settembre 1989, n. 322, effettuata su campioni significativi di famiglie, differenziate per composizione e area geografica di appartenenza, (per semplicità, di seguito, “spese ISTAT”);

d) quota di spesa, sostenuta nell’anno in esame, per l’acquisto di beni e servizi durevoli.

Il sistema previgente, comunque simile sotto questo aspetto a quello introdotto dal D.L. n. 78/2010, contemplava invece due tipologie di rettifica sintetica:

una prima, fondata sul c.d. “redditometro”, ove l’imponibile veniva quantificato sulla base di appositi coefficienti individuati con il D.M. 10 settembre 1992;

una seconda, basata sulla spesa patrimoniale, ove si presumeva che alla capacità di spesa del contribuente avesse corrisposto, al ricorrere di determinate circostanze, una capacità contributiva non dichiarata.

La ratio delle modifiche è rinvenibile, come specifica l’art. 22 del D.L. n. 78/2010, nel “fine di adeguare l’accertamento sintetico al contesto socio-economico, mutato nel corso dell’ultimo decennio, rendendolo più efficiente e dotandolo di garanzie per il contribuente, anche mediante il contraddittorio”.

L’art. 22 del D.L. n. 78/2010 stabilisce che il “nuovo” accertamento sintetico si applica “con effetto per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto”, quindi al 31 maggio 2010.

Di conseguenza:

sino al periodo d’imposta 2008, trovava ancora applicazione l’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 ante D.L. n. 78/2010;

dall’esercizio 2009 in poi, è applicato il “nuovo” accertamento sintetico.

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7 gennaio 2016

Giovambattista Palumbo