Deducibilità di costi per beni concessi in comodato a terzi

Alcuni problemi interpretativi possono sorgere quando l’attività di impresa, alla luce dei rapporti economici, contrattuali, societari, viene svolta da più soggetti, che si ripartiscono i costi come accade ad esempio in un contesto di gruppo d’aziende formale o anche informale: il caso del comodato gratuito dei beni d’impresa e delle relative problematiche fiscali

Il principio di inerenza – Aspetti generali

Nell’ambito del sistema del reddito di impresa, il principio di inerenza (incardinato nell’art. 109, c. 5, del TUIR) comporta la deducibilità delle spese e degli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, nella misura in cui siano riferiti ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi.

Tale principio correla dunque, in termini schematici, i costi ai ricavi, nel quadro di un’attività di impresa che generalmente viene svolta da un unico soggetto (che sostiene i costi e realizza i ricavi).

⇒ Alcuni problemi interpretativi possono sorgere quando l’attività di impresa, alla luce dei rapporti economici, contrattuali, societari, viene svolta da più soggetti, che si ripartiscono i costi come accade ad esempio in un contesto di gruppo formale o anche informale.

La questione viene di seguito esaminata con il supporto della prassi interpretativa e delle sentenze emesse in sede di legittimità.

In particolare la recente pronuncia della Corte di Cassazione n. 16731 del 12.8.2015 ha precisato che, nell’ipotesi di esternalizzazione a un’impresa terza dell’attività economica (distribuzione di carni) vendute dalla società contribuente, i costi di acquisto di automezzi di proprietà della società stessa, ma concessi in comodato all’impresa che svolge l’attività di trasporto, sono ammortizzabili dalla contribuente comodante ai sensi dell’art. 102 del TUIR.

Questo, perché le spese sostenute per l’attività di distribuzione si inseriscono «nel programma economico» della società (comodante), e risultano pertanto inerenti rispetto alla sua attività produttiva.

 

L’estensione dell’inerenza

Un’interpretazione ampliativa dell’inerenza, secondo la quale il principio deve intendersi riferito all’intera attività dell’impresa anziché ai singoli beni e attività, si è affermata sia nella prassi interpretativa dell’amministrazione, sia nella giurisprudenza di legittimità, come si evince ad esempio dall’esame della sentenza della sezione Tributaria della Corte di Cassazione n. 10062 del 1° agosto 2000.

In tale sede, In coerenza con quanto era stato peraltro affermato dalla prassi ministeriale (circolare 7.7.1983, n. 30/9/944), la quale aveva affermato che la «spesa inerente» doveva intendersi come legata non ai ricavi dell’impresa, bensì all’«attività» della stessa, è stata ritenuta deducibile in capo alla stabile organizzazione italiana la deduzione di una quota delle spese sostenute (per attività di certificazione dei bilanci) dalla società madre residente a Hong Kong.

Al di là della possibile sovrapposizione con problematiche relative alla deduzione di costi esteri black list e di società controllate estere (CFC), apprezzabili alla luce delle normative successivamente intervenute, la sentenza (in linea, come si osservava, con un preciso orientamento manifestatosi nella prassi interpretativa ufficiale) ha affermato il principio, tuttora valido, secondo il quale l’inerenza dei costi può essere valutata in una prospettiva economica inter/plurisoggettiva.

 

La corrispondenza allargata

sentenza corte di cassazioneUna recente sentenza della Suprema Corte (n. 9554 del 19.4.2013) ha rammentato che il principio di inerenza si fonda in sostanza sulla correlazione tra i costi che si intende dedurre e i ricavi imponibili che devono essere prodotti anche in forza di quei costi.

Non è tuttavia necessario che vi sia una corrispondenza specifica e puntuale («molecolare» secondo il lessico adottato dalla Cassazione nella sentenza) di ogni costo a ogni ricavo, essendo sufficiente la presenza di una semplice contrapposizione economica teorica: i costi devono insomma riguardare l’area o il comparto di attività destinati, anche in futuro, a produrre reddito imponibile.

Vige quindi, in forza delle interpretazioni ampliative della Cassazione, un principio si «inerenza allargata», la quale però presuppone sempre (per poter essere riconosciuta e non dar luogo a legittimi recuperi a imposizione e a sanzioni) la capacità del contribuente di dimostrare in concreto la riferibilità dei costi a ricavi, seppur prospettici e «generali».

 

 

Inerenza e consolidamento degli imponibili

Il parziale riconoscimento del gruppo societario (avvenuto attraverso l’introduzione di un imponibile «aggregato») si riflette necessariamente sulla questione relativa al riconoscimento di un rapporto di inerenza che scavalca i confini giuridici delle società.

Anche se tale argomento non è specificamente riferibile alla problematica esaminata dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 16731/2015, un breve passaggio sul tema aiuta a meglio comprendere la più generale questione dell’inerenza «intersoggettiva».

Si potrebbe affermare al riguardo che la chiara riferibilità di un comportamento a un vantaggio (o all’eliminazione o riduzione di uno svantaggio) per l’attività d’impresa dovrebbe prevalere sulla diversa soggettività giuridica delle società cui il vantaggio è riferito, se tali società partecipano a un gruppo che, unitariamente considerato, funziona come un’unica impresa.

A maggior ragione, tale assunto è valido se il gruppo partecipa a un istituto che, come il consolidato, conduce alla determinazione di un unico imponibile complessivo.

Con riferimento al settore impositivo dell’IVA, la sentenza della Corte di Giustizia del 29.4.2004, nel procedimento C-137/02, ha ritenuto che la nozione di inerenza à valida anche per le operazioni effettuate da soggetti «altri» rispetto a quello in capo al quale sorgerebbero gli effetti fiscali, affermando il principio secondo il quale il diritto alla detrazione del tributo per le operazioni passive effettuate può avvenire anche se le relative operazioni attive imponibili sono state effettuate da un altro soggetto (nel caso di specie, si trattava di un rapporto tra una società «preparatoria», il cui oggetto sociale consisteva nella mera costituzione di una società di capitali, e quest’ultima società).

Nel contesto del consolidato fiscale nazionale e mondiale, l’estensione dell’inerenza sembra poter derivare automaticamente dal riconoscimento di una determinazione «esogena» dell’imponibile. In sede di accertamento, l’amministrazione finanziaria dovrebbe quindi poter valutare le «inerenze incrociate» tra consolidante e consolidate, e tra singole consolidate.

Allo stesso modo l’amministrazione potrebbe essere autorizzata a valorizzare delle valide ragioni economiche (nell’ambito della valutazione di «elusività» di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973) imperniate su rapporti di tipo intersoggettivo.

 

 

Le valide ragioni extrafiscali

Si rammenta al riguardo che, nell’ambito del processo di attuazione della «delega fiscale» di cui alla L. 11.3.2014, n. 23, il D.Lgs. 5.8.2015, n. 128 ha innovato la disciplina relativa all’elusione tributaria inserendo un nuovo art. 10-bis nel testo della L. 27.7.2000, n. 212.

In sostanza alla nozione di elusione fiscale si sostituisce quella di abuso del diritto (configurabile quando una o più operazioni prive di sostanza economica, pur nel rispetto formale delle norme fiscali e indipendentemente dalle intenzioni del contribuente, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti).

Parallelamente, alla nozione di valide ragioni economiche si sostituisce quella di valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente.

Queste valide ragioni extrafiscali dovranno essere provate (si pensi ad esempio al caso di dissidio tra i soci, spesso presentato come motivazione per talune operazioni straordinarie). Si profilano al riguardo le consuete problematiche interpretative: ad esempio: deve trattarsi di ragioni riferite solamente all’«impresa» in sé considerata, oppure, all’interno di un gruppo o di una rete di relazioni anche contrattuali, potranno immaginarsi valide ragioni extrafiscali riferite a soggetti terzi?.

A parere di chi scrive, in presenza di determinate condizioni, analoghe a quelle che sono valorizzate nella sentenza della Cassazione qui commentata (cioè, in particolare, se le ragioni – formalmente facenti capo a terzi – concorrono all’economia dell’impresa), il requisito della «validità extrafiscale» dovrebbe ritenersi soddisfatto.

Ci si rende conto che la fattispecie non è completamente sovrapponibile a quella dell’inerenza: tuttavia la validità extrafiscale vale a sostenere l’ammissibilità dell’operazione potenzialmente «abusiva», così come l’inerenza del costo vale a garantire il corretto funzionamento del regime di impresa, ossia della determinazione analitica del reddito imponibile.

Nell’uno come nell’altro caso, insomma, il contribuente intende ottenere un trattamento «vantaggioso» che non corrisponde a un’agevolazione, ma solamente al funzionamento normale del sistema (della determinazione analitica del reddito ovvero della neutralità fiscale per determinate operazioni).

In questa cornice, l’accertamento della rilevanza della dimensione intersoggettiva dovrebbe seguire regole non dissimili nelle due ipotesi sopra tratteggiate.

 

 

La sentenza del 2015

corte di cassazione sugli accertamenti studi di settoreLa pronuncia della Cassazione n. 16730 del 2015, sopra richiamata, trae origine da un contenzioso di merito sorto sull’accertamento nel quale era stata disconosciuta la deduzione dei costi sostenuti da una società per «carburanti, manutenzione, ammortamento, autostrada ecc.» relativi a automezzi di proprietà ma concessi in comodato «ad altro soggetto per la distribuzione di propri prodotti».

Secondo la CTR, alla luce del carattere esclusivo del rapporto intercorrente tra le parti, anche confermata dalla «concessione da parte del comodante di un’area antistante il proprio impianto da destinare a parcheggio e di una stanza a uso ufficio», non poteva negarsi che gli automezzi avessero «conservato le caratteristiche di strumentalità all’esercizio dell’impresa, con la conseguente riconoscibilità dei costi di gestione».

Contro la sentenza della CTR l’ufficio finanziario aveva proposto ricorso per cassazione, affidato a un unico motivo. La contribuente resisteva con controricorso.

Secondo l’ufficio, gli automezzi (concessi in comodato alla diversa società che curava la distribuzione) erano beni strumentali dell’impresa trasportatrice e non della contribuente, la quale perciò si era indebitamente dedotte spese non inerenti.

Sempre secondo l’ufficio, la CTR non aveva offerto alcuna puntuale spiegazione delle ragioni per cui l’ipotizzata natura esclusiva dell’attività di distribuzione svolta a favore della contribuente «comportava di per sé» il mantenimento del carattere strumentale dei beni.

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il vizio di motivazione denunciato dall’Agenzia delle Entrate, in quanto la CTR aveva emesso una sentenza conforme a diritto.

Questo, anche se l’Agenzia ricorrente aveva ritenuto non adeguatamente spiegate le ragioni giuridiche per cui dall’esclusività dello svolgimento dell’attività di trasporto a favore della contribuente doveva farsi derivare la natura strumentale dei beni in discussione e la conseguente deducibilità delle relative spese.

 

In particolare sull’inerenza…

È stato invece ritenuto infondato il motivo di ricorso consistente nella dedotta violazione dell’art. 75 (ora 109) del TUIR.

Secondo quanto procede a chiarire la Corte, il principio di inerenza consiste «in una regola economica ritenuta immanente nel nostro ordinamento fiscale», in applicazione della quale il reddito tassabile è considerato al netto dei costi sostenuti per la sua produzione.

Questa regola ha una portata generale, e lascia all’interprete la verifica dell’effettiva inerenza delle spese al processo produttivo.

Si tratta di un principio che ha subito un progressivo allargamento, estendendosi anche a spese non strettamente e direttamente produttive (che però sono giudicate fondamentali per la produzione).

Con riferimento alla fattispecie concreta consistente nell’esternalizzazione di un’attività distributiva mediante trasporto delle carni vendute dalla contribuente con automezzi di proprietà di quest’ultima ma concessi in comodato (attività svolta esclusivamente a favore della società contribuente), la Corte doveva decidere se debbano o meno ritenersi inerenti anche le somme pagate dalla proprietaria per le spese (di manutenzione, carburanti, autostrada, etc.) dei veicoli dati in comodato.

Al riguardo sono stati richiamati i precedenti costituiti da Cass. n. 1465/2009 e da Cass. n. 1369/2011, secondo i quali sono inerenti, e perciò deducibili, anche le spese di ammortamento di beni in comodato funzionali alla produzione.

Nella sostanza, con riferimento al caso deciso, la società contribuente aveva esternalizzato un servizio di distribuzione delle carni, la CTR aveva accertato essere svolto solamente a suo favore e che veniva quindi a inserirsi nel «programma economico dell’impresa». Di conseguenza i costi, sostenuti esclusivamente per il trasporto delle carni da distribuire, dovevano essere ritenuti deducibili.

È stato quindi affermato il seguente principio di diritto:

«in una fattispecie di esternalizzazione a impresa terza dell’attività di distribuzione di carni vendute dalla contribuente, i costi per “carburanti, manutenzione, ammortamento, autostrada ecc.” di veicoli di proprietà della medesima contribuente, ma concessi in comodato all’impresa che svolge in esclusiva l’attività di trasporto, sono deducibili ai sensi dell’art, 75, comma 5, DPR 22 dicembre 1966, n. 917, applicabile ratione temporis; e ciò in quanto le spese per la detta esclusiva attività di distribuzione si inseriscono “nel programma economico” della contribuente e debbono perciò ritenersi inerenti la sua attività produttiva».

 

 

Inerenza e “valide ragioni extrafiscali” – Considerazioni di sintesi

La fattispecie sopra brevemente considerata, sulla quale è intervenuto il giudizio della Cassazione, è relativa a beni che rimanevano pur sempre di proprietà dell’impresa comodante (A) ed erano concessi in comodato all’impresa comodataria (B), continuando tuttavia a inserirsi nel «programma economico» dell’impresa A.

In termini molto più secchi, trattandosi di agevolazioni fiscali – nel caso specifico la c.d. «Tremonti bis» di cui alla L. 18.10.2001, n. 383, la prassi interpretativa dell’Agenzia delle Entrate – risoluzione n. 393/E del 24.12.2002 – aveva affermato semplicemente che il bene strumentale per natura, ancorché locato a un soggetto terzo, rimaneva pur sempre «agevolabile» proprio grazie a questa strumentalità per natura, ossia in forza (in definitiva) dell’inclusione entro determinate categorie catastali.

Ciò significava comunque che esso bene rimaneva strumentale per la società locatrice anche se di fatto non veniva utilizzato nella sua attività imprenditoriale, bensì in quella della conduttrice.

Sulla base delle argomentazioni fin qui presentate, sembra possibile affermare che i concetti di inerenza (ai fini del riconoscimento dei costi nell’imposizione reddituale e della detrazione dell’IVA a credito) e di «valide ragioni extrafiscali» (ai fini del riconoscimento del carattere non abusivo di una determinata operazione) rappresentino due espressioni del medesimo principio: da un lato, infatti, è il «costo» o la «spesa» a doversi giustificare in ragione della sua utilità rispetto alla produzione di utili/redditi (o nella prospettiva dell’effettuazione di operazioni imponibili); dall’altro, è l’intero comportamento attuato a doversi giustificare secondo «apprezzabili» ragioni non fiscali.

È evidente che l’attività di un’impresa funzionante presuppone un funzionamento «osmotico», nel quale vengono acquisiti dei fattori che incrementano la ricchezza della struttura e comportano decrementi «numerari», mentre altri fattori/beni vengono ceduti in cambio di incrementi «numerari»: di questi processi complessi, al fisco interessa, in ultima analisi, solamente il «prodotto finale» in termini di materia imponibile.

È altresì chiaro che, alla luce dei principi costituzionali e di rango legislativo, i quali in materia costituiscono un presidio insormontabile di legittimità dell’azione amministrativa, la tassazione deve gravare su un utile netto (nelle imposte sui redditi), depurato dai costi, mentre nel sistema dell’IVA la neutralità dell’imposta richiede il corretto funzionamento del binomio detrazione/rivalsa (ossia l’emersione di IVA a credito contestualmente all’effettuazione delle varie operazioni attive).

Su tale base, sembra difficile precludere in linea generale (e fatta salva la possibilità di operazioni evidentemente elusive, ovvero censurate da norme specifiche di tenore antielusivo) il riconoscimento fiscale degli oneri sostenuti in quanto correlati all’attività svolta dall’«impresa», anche quando si tratta di un’«impresa» esercitata da più soggetti coordinati in un gruppo formale o sostanziale, ovvero – in generale – di un’attività i cui costi e i cui risultati economici si ripartiscono tra soggetti diversi in forza di collegamenti di tipo contrattuale o partecipativo.

 

2 dicembre 2015

Fabio Carrirolo