L'omesso versamento dell'IVA ed il problema della crisi di liquidità del contribuente

ecco come il restyling del reati tributari impatta sui casi di omesso versamento dell’IVA: le nuove soglie di punibilità ed il problema della crisi di liquidità del contribuente

La disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, introdotta dal D.Lgs. n. 74 del 10.03.2000, ha operato un radicale rovesciamento dei principi che stavano alla base del D.L. 10.07.82 n. 429, convertito nella legge 7 agosto 1982, n. 516.

L’attuazione della delega fiscale (D.Lgs. n. 158 del 24 settembre 2015) determina un nuovo radicale cambiamento del regime penale tributario.

In questo nostro intervento puntiamo l’attenzione alle modifiche apportate al reato di omesso versamento dell’Iva, di cui all’art. 10-ter.

L’omesso versamento Iva

Con il D.L. n. 223 del 4 luglio 2006, convertito in legge n. 248/2006, è stato sanzionato penalmente l’omesso versamento Iva.

La regola dettata dall’art. 35, c. 7, del D.L. 223/2006, va sulla scia, di fatto, delle modifiche apportate dal comma 414, dell’articolo 1, della legge n. 311/2004 per l’omesso versamento delle ritenute certificate, atteso il richiamo ad essa sia per le pene che per i limiti.

Infatti, il comma 7, dell’articolo 35, del D.L. n. 223/2006, al D.Lgs. n. 74/2000, dopo l’art. 10-bis ha inserito l’art. 10-ter (Omesso versamento di IVA), prevedendo che “la disposizione di cui all’articolo 10-bis si applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo”.

La norma, avendo agganciato i nuovi reati all’art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000, comportava la reclusione da sei mesi a due anni per chiunque non versava l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo.

Il reato ha natura dolosa e pertanto per la sussistenza della fattispecie non basta la colpa (cioè la semplice dimenticanza) essendo necessario la coscienza e volontà (dolo generico) di non versare allo Stato le somme dovute.

Il reato, di cui all’art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000, si ritiene perfezionato solo nel momento in cui il contribuente non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo, di ammontare superiore a 50.000 euro: in buona sostanza, se in sede di controllo, i verificatori constatano l’omesso versamento, per un ammontare superiore a quello previsto dalla norma, il contribuente potrebbe ancora sanare l’irregolarità provvedendo al versamento entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo.

L’art. 8, del D.Lgs. n. 158, riformulando l’art.10-ter, sgancia il reato dall’art.10-bis e innalza la soglia di punibilità.

Restando ferma la reclusione da 6 mesi a 2 anni per chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, viene innalzata da 50 mila euro a 250 mila euro per ciascun periodo d’imposta, la soglia di punibilità.

Il pensiero della Corte di Cassazione sulla crisi di liquidità

Dopo una prima pronuncia della Corte (sentenza n. 6293 del 16 febbraio 2010, ud. del 14 gennaio 2010), che ha affermato che la consumazione del reato è determinata allo spirare del termine per il versamento dell’acconto (27 dicembre dell’anno solare) per il periodo d’imposta successivo, vanno registrate una serie di sentenze1 che si occupano specificatamente della crisi di liquidità.

Con la sentenza n. 33021 del 28 luglio 2015 (ud. 17 giugno 2015), la Corte di Cassazione Penale, si è occupata della questione, dove l’imputato, a propria difesa, rileva che il fatto era stato commesso per forza maggiore, come comprovato dallo stato di decozione in cui versava la società, determinato dal mancato incasso di notevolissimi crediti dalla stessa vantati nei confronti di una multinazionale. Inoltre, evidenziava che il reato sanziona l’imprenditore che abbia omesso il versamento di tributi dichiarati, senza tuttavia distinguere tra i soggetti che hanno posto in essere tale condotta al solo scopo di appropriarsi di somme sottratte all’Erario e i soggetti che non siano riusciti a fare fronte al debito fiscale perchè privi della necessaria liquidità a causa di difficoltà finanziarie. La Corte prende atto che già la giurisprudenza di legittimità ha fornito indicazioni pratiche per individuare i presupposti del reato: “da una parte, la dimostrazione della correttezza della gestione caratteristica dell’impresa e che questa sia stata negativamente condizionata da fattori non controllabili; dall’altra, la dimostrazione della inutilità del ricorso a misure alternative alla gestione caratteristica dell’impresa per fronteggiare la crisi di liquidità (Cass. 26/6/2014, n. 27676)”. Pertanto, “il contribuente che invochi la assoluta impossibilità ad adempiere deve fornire la prova della crisi di liquidità della sua azienda, della non imputabilità dello stato di crisi ai suoi comportamenti e che detta situazione di crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso a comportamenti diversi dal mancato assolvimento dell’onere tributario (Cass. 19/2/2015, n. 7429)”. La Corte, invece, nel caso in questione imputa al contribuente lo stato di decozione aziendale, che ha preferito utilizzare la liquidità disponibile “per procurarsi materie prime, continuare le lavorazioni e pagare i dipendenti, versando i contributi previdenziali e assicurativi: ad avviso del giudice di merito, a giusta ragione, tale condotta, quand’anche provata e giustificata da finalità di impresa, realizza il presupposto dell’inadempimento consapevole all’obbligo di corresponsione in favore dell’Erario, avendo il soggetto il preciso dovere di assicurare la relativa provvista”. Inoltre, è stato ritenuto manifestamente infondato anche il secondo motivo di annullamento, “in quanto la Corte territoriale ha ritenuto sfornite di consistenza probatoria le allegazioni difensive, tendenti a dimostrare che la difficoltà economica della AF s.r.l. era stata determinata dal mancato incasso di significative somme da parte dei clienti, situazione, questa, che aveva, di poi, condotto la società al fallimento, in quanto l’inadempimento dei debitori è una eventualità insita nel rischio di impresa, non del tutto imprevedibile; nè il M. ha provato l’impossibilità di fare fronte altrimenti alla crisi, gestendo le proprie risorse economiche e patrimoniali, onde consentire l’accantonamento della somma dovuta a titolo d’i.v.a. (Cass. 15/1/2015, n. 1725)”.

Altra sentenza recente della Cassazione, puntuale nella disamina della questione, è la pronuncia n. 25317 del 17 giugno 2015, ud. 10 dicembre 2014. della Cassazione Penale, Sez. III.

In apertura la Corte richiama il pronunciamento a SS.UU. (n. 37425 del 28/03/2103) con cui è stato affermato che:

a) il reato, che si consuma col mancato pagamento dell’imposta dovuta in base alla dichiarazione annuale entro la scadenza del termine per il pagamento dell’acconto relativo al periodo di imposta dell’anno successivo, “è punibile a titolo di dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, non essendo richiesto che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte”;

b) la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine lungo previsto;

c) ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua operazioni imponibili “riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria”.

Pertanto, non può essere invocata, per escludere la colpevolezza, “la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta”. Sul tema della “crisi di liquidità” d’impresa quale fattore in grado di escludere la colpevolezza, “è necessario che siano assolti, sul punto, precisi oneri di allegazione che devono investire non solo l’aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055)”.

Puntualizza la Corte che per la sussistenza del reato “non è richiesto il fine di evasione, antomeno l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto. Il dolo del reato in questione è integrato, dunque, dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato”. In sintesi, “la scelta di non pagare prova il dolo; i motivi della scelta non lo escludono”. In ordine all’invocata forza maggiore, la stessa “postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente, questa Suprema Corte ha sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante” (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984). Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990). Ne consegue che:

a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perchè non esclude la suitas della condotta;

b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità;

c) non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato concausato dai mancati accantonamenti e dal mancato pagamento alle singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità;

d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico. Alla luce di tali considerazioni la tesi difensiva è stata ritenuta palesemente infondata2 e del tutto generica3.

20 ottobre 2015

Gianfranco Antico

1 Ricordiamo che con l’ordinanza n. 88 del 15 maggio 2015 (ud. 29 aprile 2015), la Corte Costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art.10-ter del D.Lgs. 10 marzo 2000, sollevata, in riferimento all’art.3 della Costituzione.

2 Perché il dolo richiesto dalla norma incriminatrice è integrato dal consapevole e volontario inadempimento e deve sussistere alla scadenza del termine, restando estranee le ragioni dell’omissione.

3Perchè il ricorrente non ha mai rigorosamente dimostrato di essere stato nell’impossibilità di effettuare i versamenti mensili a causa dell’insolvenza dei suoi clienti nei confronti dei quali aveva emesso fattura, non avendo mai dedotto quale fosse l’ammontare preciso dell’IVA non incassata, quali fossero le fatture insolute, quale incidenza avesse avuto l’insoluto sul debito annuale verso l’Erario, se e quali iniziative giudiziarie o stragiudiziarie fossero state tempestivamente ma inutilmente intraprese per riscuotere l’insoluto.