Controllo formale delle dichiarazioni: ambito applicativo e differenza dall'accertamento

una guida alla prassi dell’agenzia delle entrate nelle attività di controllo formale delle dichiarazioni inviate dai contribuenti: gli ambiti delle dichiarazioni soggette a controllo e le possibilità di difesa da parte del contribuente contro eventuali errori nella liquidazione

 

Aspetti generali

Le attività compiute dall’amministrazione finanziaria per la verifica della conformità dei comportamenti a quanto normativamente previsto non si limitano al vero e proprio accertamento, prevedendo anche operazioni più semplici di riscontro tra la situazione di fatto e quanto viene rappresentato in dichiarazione da ciascun contribuente.

Si distinguono al riguardo, nel contesto delle imposte sui redditi, attività di liquidazione [art. 36-bis, D.P.R. n. 600/1973] e attività di controllo formale [art. 36-ter, D.P.R. n. 600/1973].

In particolare quest’ultimo consiste nell’esame della correttezza delle deduzioni/detrazioni d’imposta e delle ritenute indicate in dichiarazione, sulla base della documentazione in possesso del dichiarante che può essergli richiesta dagli uffici procedenti.

La recente giurisprudenza di legittimità – Cass. 17.6.2015, n. 12525 – ha precisato che il controllo formale della dichiarazione consiste in un’attività intermedia tra la liquidazione automatica e l’ordinario accertamento.

Esso non può limitarsi a operazioni valutative o interpretative, ma deve prevedere l’esame del contenuto dei documenti prodotti dal contribuente.

In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto legittimo il disconoscimento del credito d’imposta per redditi esteri ex art. 165 del TUIR, in quanto il relativo documento di supporto non aveva natura ufficiale (nel caso di specie mancava l’asseverazione dell’autorità consolare italiana).

I controlli formali delle dichiarazioni

Per quanto disposto dall’art. 36-ter, c. 1 del decreto sull’accertamento, l’amministrazione finanziaria (ossia, allo stato, l’Agenzia delle Entrate) procede al controllo formale delle dichiarazioni entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione.

Ai sensi del secondo comma dell’art. 36-ter, l’Agenzia delle Entrate può, senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice:

  • escludere in tutto o in parte lo scomputo delle ritenute d’acconto non risultanti dalle dichiarazioni dei sostituti d’imposta o dalle certificazioni richieste ai contribuenti ovvero delle ritenute risultanti in misura inferiore a quella indicata nelle dichiarazioni dei contribuenti stessi;

  • escludere in tutto o in parte le detrazioni d’imposta non spettanti in base ai documenti richiesti ai contribuenti o agli elenchi di cui all’art. 78, c.25, della L. 30.12.91, n. 4131;

  • escludere in tutto o in parte le deduzioni dal reddito non spettanti in base ai documenti richiesti ai contribuenti;

  • determinare i crediti d’imposta spettanti in base ai dati risultanti dalle dichiarazioni e ai documenti richiesti ai contribuenti;

  • liquidare la maggiore imposta sul reddito delle persone fisiche e i maggiori contributi dovuti sull’ammontare complessivo dei redditi risultanti da più dichiarazioni;

  • correggere gli errori materiali e di calcolo commessi nelle dichiarazioni dei sostituti d’imposta.

 

A seguito dell’esame della documentazione, l’ufficio deve procedere alla rettifica della dichiarazione anche se emerge un rimborso a favore del contribuente (circolare dell”Agenzia delle Entrate 16.7.2001, n. 68/E).

Il controllo formale viene ordinariamente svolto dagli uffici periferici dell’Agenzia delle Entrate; per i soggetti c.d. di rilevanti dimensioni (con ricavi non inferiori a 100 milioni di euro), la competenza spetta agli uffici grandi contribuenti costituiti presso le direzioni regionali.

Il controllo deve essere espletato entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione.

Se nell’ambito della procedura emergono elementi sintomatici di evasione, deve essere attivata la fase di controllo sostanziale.

Questa procedura si distingue dalla liquidazione automatica delle dichiarazioni (art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973) in quanto quest’ultima prevede un esame cartolare delle dichiarazioni, mentre il controllo formale si estende a un riscontro documentale di determinate voci della dichiarazione, verificando tra l’altro la conformità dei dati esposti in dichiarazione a quelli desunti dal contenuto delle dichiarazioni presentate dai sostituti d’imposta, ovvero forniti da enti previdenziali, banche e assicurazioni.

La rispondenza può riguardare anche i dati emergenti dalla documentazione prodotta dal contribuente a seguito di una richiesta dell’ufficio.

A seguito del controllo formale, tra il contribuente e l’ufficio può instaurarsi un contraddittorio in seno al quale il contribuente può dimostrare l’infondatezza della pretesa.

La controversia

La vicenda che è stata oggetto dell’esame della Cassazione nella citata sentenza n. 12525 del 2015 trae origine da un ricorso avverso una cartella esattoriale proposto dalla società Alfa S.r.l.

A quest’ultima era stato richiesto il pagamento della somma di euro 540.413,47, oltre sanzioni per euro 162.125,84, per mancato riconoscimento credito di imposta esposto in dichiarazione.

Nello specifico la società, nella dichiarazione redditi dell’anno 2000, aveva portato in detrazione l’importo delle imposte pagate all’estero (in Egitto), in attuazione delle disposizioni dell’allora vigente art. 15 del TUIR (ora art. 165).

L’Agenzia delle Entrate aveva ritenuto la documentazione insufficiente per carenza di ufficialità e per carenza probatoria, con la conseguente iscrizione a ruolo.

La CTP aveva successivamente accolto il ricorso della società contribuente, ma la Commissione Tributaria di secondo grado di Trento, sulla base di ulteriore documentazione, aveva accolto l’appello principale dell’ufficio finanziario e rigettato quello incidentale della società.

In particolare la commissione di merito, nell’accogliere l’appello principale, aveva precisato che la documentazione prodotta dalla società, rilasciata in modo formalmente corretto, non consentiva tuttavia di precisare l’ammontare dei redditi definitivamente accertati fino all’anno 2001 e l’ammontare dell’imposta assolta e quando la stessa fosse stata definitivamente pagata.

Le difficoltà riscontrate si imperniavano in particolare sulla mancanza della legalizzazione della firma del traduttore, così che la certificazione di asseverazione della traduzione giurata non risultava sottoscritta dal funzionario di cancelleria del Consolato italiano. Inoltre le copie degli atti relativi alla dichiarazione fiscale per l’anno 2000 non attestavano la definitività delle imposte pagate e la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 15 (ora 165) del TUIR.

Nel rigettare l’appello incidentale della società, inoltre, la commissione aveva ritenuto che non vi fosse stata alcuna violazione né dello Statuto del contribuente, in quanto la società era stata previamente informata dell’azione di rettifica della dichiarazione dei redditi, né dell’art. 36-ter in rassegna, dato che l’ufficio finanziario si era limitato (come previsto da detta norma) a determinare il credito di imposta spettante in base ai dati risultanti dalle dichiarazioni e dai documenti richiesti al contribuente, senza che a tal fine fosse necessario emettere alcun avviso di accertamento.

Le motivazioni della decisione

Avvero la decisione della Commissione di secondo grado aveva proposto ricorso, con otto distinti motivi, la società, mentre l’Agenzia delle Entrate aveva prodotto un controricorso.

Queste le soluzioni partitamente indicate dalla Corte per ciascun motivo:

  1. secondo la società la procedura di liquidazione ex art. 36-ter poteva effettuarsi per le sole rettifiche immediatamente evidenti, e non anche per quelle che richiedevano una valutazione giuridica in merito a questioni di non immediata soluzione (come sarebbe stata la mancanza di ufficialità della documentazione); questo motivo è stato ritenuto infondato: secondo la Corte infatti; l’art. 36-ter consente all’ufficio anche “l’esame estrinseco” della documentazione fornita dai contribuenti e la conseguente valutazione in termini di attendibilità, come avvenuto nella fattispecie;

  2. sempre secondo la società ricorrente, la Commissione di secondo grado, a fronte della circostanza (non imputabile alla società stessa) che la certificazione di asseverazione della traduzione giurata non era sottoscritta dal funzionario di cancelleria del Consolato d’Italia, avrebbe dovuto, nell’esercizio dei poteri istruttori di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, disporre una CTU o procedere ex art. 123 c.p.c. alla nomina di un traduttore;

  3. con il terzo motivo la società aveva sostenuto che con la produzione della traduzione giurata (pur incompleta per la mancata sottoscrizione del funzionario di cancelleria) aveva provato i fatti che costituivano il fondamento del proprio diritto ed aveva quindi assolto all’onere della prova a suo carico;

  4. con il quarto motivo si affermava che non era stato rispettato il principio della collaborazione e della buona fede tra contribuente e amministrazione finanziaria, atteso che quest’ultima, se riteneva inattendibile la traduzione prodotta dal contribuente, avrebbe dovuto contrapporre una diversa traduzione;

  5. il quinto motivo si imperniava sull’asserita violazione dell’art. 33 del D.P.R. n. 445/2000: secondo la società, la certificazione della traduzione giurata era stata resa direttamente da un console onorario della Repubblica Italiana, sicché (dato che le firme apposte dalle rappresentanze consolari italiane non sono soggette a legalizzazione), la certificazione della traduzione giurata doveva ritenersi valida anche se eseguita mediante apposizione del solo timbro del consolato;

  6. con il sesto motivo la ricorrente aveva sostenuto che la Commissione di secondo grado aveva ritenuto attendibili alcune traduzioni e non attendibili altre, pur essendo state le stesse eseguite da un medesimo traduttore.

 

Il secondo, terzo e quarto motivo sono stati congiuntamente esaminati dalla Corte in ragione della loro connessione, con il conseguente assorbimento del quinto e sesto.

Queste le considerazioni fatte dalla Cassazione:

  1. quando i documenti esibiti dalle parti nel processo sono redatti in lingua straniera il giudice, ai sensi dell’art. 123 del codice di rito civile (applicabile anche al processo tributario), ha solo la facoltà, e non l’obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore; a siffatta nomina può infatti farsi a meno allorché le medesime parti siano concordi sul significato delle espressioni contenute nel documento prodotto ovvero quando tale documento sia accompagnato da una traduzione che, allegata dalla parte e ritenuta idonea dal giudice, non sia stata oggetto di specifiche contestazioni della parte avversa;

  2. al di fuori di queste ipotesi, e in particolare quando (come nel caso di specie) il giudice reputa inidonea la traduzione giurata allegata da una parte, lo stesso non può, in mancanza peraltro di specifiche contestazioni della parte avversa (nella specie non evidenziate), decidere la causa ritenendo d’ufficio come non acquisiti agli atti i documenti redatti in lingua straniera, ma ha l’obbligo di procedere alla nomina dì un traduttore; a maggior ragione nella fattispecie in esame, nella quale va rilevato che, da una parte, il contribuente si è attivato fornendo all’Amministrazione i documenti richiesti (seppur redatti in lingua straniera) e la traduzione degli stessi (seppur formalmente incompleta), mentre, dall’altra, l’amministrazione, nonostante la riscontrata mancata sottoscrizione del funzionario consolare sia circostanza riguardante l’operato di un funzionario pubblico, ha impostato la sua difesa su tale rilievo formale, non rispettando in tal modo appieno il principio della collaborazione e della buona fede tra contribuente ed amministrazione di cui all’art. 10 dello Statuto del contribuente.

La prova della spettanza del diritto

Con il settimo motivo la società, denunciando (a norma dell’art. 360, c. 1, n. 5, del c.p.c.) omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ha sostenuto che la Commissione di secondo grado aveva ritenuto insufficienti anche altri documenti prodotti in quanto non provavano la definitività del pagamento delle imposte all’estero, senza però considerare il verbale di riunione della commissione di revisione interna datato 31.05.2000, che aveva definito in via conciliativa i redditi imponibili della società.

Con l’ottavo motivo, affermando (ex art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c. la violazione dell’art. 15 [165] del TUIR), la ricorrente aveva sostenuto di aver dimostrato, con il menzionato verbale di conciliazione, che le imposte erano state versate a titolo definitivo.

Il settimo motivo è stato ritenuto fondato dalla Corte, con assorbimento dell’ottavo.

Ha precisato al riguardo la Cassazione che la Commissione di secondo grado aveva che le copie degli atti depositate dalla società in appello non attestavano la definitività delle imposte pagate, senza però in alcun modo valutare il citato verbale di riunione della commissione di revisione interna (preso invece in considerazione dalla Commissione di primo grado), dal quale risultava che, in esito a controversia con l’amministrazione fiscale egiziana relativa ai redditi dichiarati negli anni 1994-1998, erano stati concordemente definiti gli imponibili per i detti anni.

È stato quindi rigettato il primo motivo di ricorso e sono stati accolti o assorbiti tutti gli altri motivi; la sentenza è stata dunque cassata con rinvio per una nuova decisione alla Commissione di secondo grado di Trento in diversa composizione.

In definitiva, secondo quanto è stato chiarito dalla pronuncia qui esaminata:

  • l’art. 36-ter del D.P.R. n. 600/1973 da’ luogo a una procedura che non si ferma alla mera disamina di documentazione tributaria, ma si estende anche alla valutazione dell’idoneità probatoria e in generale della regolarità di detta documentazione ai fini della dichiarazione fiscale;

  • una certificazione astrattamente idonea a giustificare un fatto (nel caso di specie, l’assolvimento di imposte all’estero) non può essere disconosciuta per la mancanza di un elemento formale non imputabile al contribuente, specialmente se sono presenti ulteriori elementi a esso favorevoli che non sono stati adeguatamente presi in considerazione nel giudizio di merito.

6 ottobre 2015

Fabio Carrirolo

 

1 Ai sensi della disposizione normativa richiamata i soggetti che erogano mutui agrari e fondiari, le imprese assicuratrici e gli enti previdenziali devono comunicare all’anagrafe tributaria gli elenchi dei soggetti che hanno corrisposto: a) quote di interessi passivi e relativi oneri accessori per mutui in corso; b) premi di assicurazione sulla vita e contro gli infortuni; c) contributi previdenziali ed assistenziali.