Se l’imprenditore non svolge attività durante l’anno l’accertamento dell’Agenzia delle Entrate non è valido

non può essere considerato valido l’accertamento, operato dall’amministrazione finanziaria su un imprenditore, ricostruito attraverso le movimentazioni bancarie che evidenziano prelevamenti e contestuali versamenti a fronte, tuttavia, di una attività che nell’anno accertato, non è mai stata esercitata

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13369, del 30 giugno 2015, nel respingere il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, ha confermato la sentenza dei giudici della Commissione tributaria regionale i quali avevano rilevato l’illegittimità di un avviso di accertamento ad un imprenditore, basato sull’analisi dei movimenti bancari, che tuttavia come rilevato dalla Guardia di Finanza, nell’anno accertato non aveva mai volto l’attività.

I versamenti bancari indice di incassi per l’attività d’impresa

L’Agenzia delle Entrate è ricorsa in Cassazione, avverso la sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale, riformando la pronuncia di primo grado, ha annullato un avviso di accertamento IVA – IRPEF – IRAP per l’anno 2004, emesso nei confronti del contribuente.

I giudici del merito di secondo grado, dopo aver riferito che l’avviso di accertamento muove dal presupposto di fatto relativo ai numerosi prelevamenti operati dal contribuente sul proprio conto corrente, con contestuali versamenti che l’amministrazione finanziaria, ritenuta l’attività d’impresa esercitata, li ha qualificati ai sensi dell’art. 32, c. 10, n. 2, D.P.R. 600/73, come ricavi conseguiti nell’ambito dell’esercizio dell’attività d’impresa, affermano l’illegittimità del provvedimento impositivo sulla base del fatto che per l’annualità in esame gli stessi agenti della Guardia di Finanza, nel verbale di contestazione, avevano rilevato che il contribuente non aveva mai svolto attività nel ramo dei lavoro edili oggetto di contestazione.

Per i giudici del merito non sussiste il presupposto giuridico dell’esercizio d’attività d’impresa, per ritenere integrata la fattispecie prevista dall’art. 32, c. 2, n. 2, del D.P.R. 600/1973, costituente fondamento unico dell’avviso d’accertamento.

Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate è ricorsa in Cassazione, con un unico motivo concernente violazione degli artt. 32, D.P.R. 600/73 e 51 D.P.R. 633/72, perché la Commissione Regionale sarebbe incorsa nell’esigere la dimostrazione, da parte dell’Amministrazione e ai fini dell’operatività dell’inversione dell’onere della prova prevista dalle suddette norme, dello svolgimento di un’attività di impresa da parte del contribuente.

Come operano gli accertamenti bancari per l’imprenditore: i prelevamenti e versamenti

Occorre ricordare che la materia degli accertamenti bancari trova disciplina negli artt. 32, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e 51 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, rispettivamente, per le imposte dirette e l’Iva. Tali norme devono poi essere lette in collegamento con i successivi artt. 39 e 54, che disciplinano per le imposte dirette e l’Iva, le rettifiche delle rispettive dichiarazioni. In sostanza queste disposizioni consentono all’ufficio finanziario di acquisire dati inerenti a movimentazioni bancarie su conti intrattenuti dal contribuente e di porre a base degli accertamenti le risultanze di queste rilevazioni, qualora il contribuente non dimostri di averne tenuto conto nella determinazione dell’imponibile o la loro irrilevanza a tal fine.

La Cassazione è assolutamente unanime e consolidata nel ritenere che le disposizioni in tema di accertamento bancario configurino una presunzione, ed in particolare una presunzione legale, in quanto direttamente posta dalla legge, e di natura relativa, essendo sempre ammessa la prova contraria ad opera del contribuente, facendo poi derivare da questa qualificazione tutte le relative conseguenze, che in concreto assumono notevole rilevanza nel rapporto con il contribuente e nello sviluppo del contenzioso tributario. Secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, l’amministrazione finanziaria, una volta che abbia acquisito i dati relativi alle movimentazioni sui conti riferibili al contribuente, può legittimamente porre tali dati a fondamento dell’accertamento senza dover dimostrare più nulla, incombendo a questo punto sul contribuente l’onere di dimostrare che i movimenti finanziari riguardano attività estranee a quelle imponibili o si riferiscono ad attività che trovano riscontro nella documentazione contabile.

In un recente orientamento la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4688, del 23 marzo 2012, ha affermato che le presunzioni fondate sulle movimentazioni bancarie legittimano l’amministrazione finanziaria a considerare come ricavi i versamenti e i prelevamenti dei quali il contribuente non riesca a dare giustificazione, per poter accertare la natura di costi degli addebiti; in particolare, al fine della loro deducibilità, è necessario che il contribuente fornisca prova contraria alla rilevanza fiscale delle movimentazioni bancarie.

In materia di versamento e prelevamenti bancari è necessario tenere sempre presenti due principi operativi di fondamentale importanza:

a) il primo, relativo ai versamenti, e per il quale questi, a seconda che ci si riferisca ad imprese/professionisti o a “privati”, non possono, nella “normalità” essere superiori ai ricavi contabilizzati o al reddito lordo dichiarato. E se lo sono, ne va giustificata la provenienza (proventi esenti, derivanti da attività agraria, da redditi fondiari, eccetera). In genere i versamenti dovrebbero essere inferiori ai ricavi contabilizzati o al reddito lordo dichiarato perché, senza dubbio, una loro parte viene direttamente riciclata nelle spese correnti e quant’altro. Siano esse relative alla gestione che alle normali esigenze di vita;

b) il secondo, relativo ai prelevamenti, e per il quale, sempre a seconda del soggetto che si considera, questi, anche se finalizzati a costituire un fondo cassa, non possono nella “normalità” essere superiori ai costi contabilizzati aumentati dell’utile netto, o al reddito lordo dichiarato. E, se lo sono, ne va giustificata la destinazione.

Attività non esercitata: nullo l’accertamento

La Corte di Cassazione nell’esaminare la sentenza oggetto del presente commento, ritiene di dove ribadire il principio espresso dalla prevalente giurisprudenza di legittimità che, quando sussistono flussi finanziari che non trovano corrispondenza nella dichiarazione dei redditi, i dati risultanti dai conti correnti bancari possono essere utilizzati:

  1. sia per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività occulta (impresa, arte o professione);

  2. sia per quantificare il reddito ricavato da tale attività, incombendo al contribuente l’onere di dimostrare che i movimenti bancari che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni non sono fiscalmente rilevanti.

I giudici del merito nella sentenza impugnata dall’Agenzia delle Entrate non mettono in discussione il principio di diritto che i dati risultanti dai conti correnti bancari possono essere utilizzati per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività occulta ma, con una valutazione di fatto censurabile solo sotto il profilo del vizio di motivazione, e non censurata nel ricorso, hanno ritenuto che la presunzione di esercizio di attività occulta basata sui movimenti dei conti bancari del contribuente, ai sensi degli articoli 32 del D.P.R. 602/773 e 51 D.P.R. 633/72, sarebbe stata nella specie superata dall’accertamento positivo, operato nel verbale di contestazione della Guardia di Finanza, che nell’anno in esame, aveva sostanzialmente evidenziato che il contribuente non aveva mai svolto attività nel ramo dei lavori edili.

La Corte di Cassazione ritiene, in sostanza, che la censura mossa nell’unico mezzo di ricorso risulta dunque non pertinente alla ratio decidendi della sentenza gravata, la quale si fonda su un accertamento di fatto e non su un giudizio di diritto, e pertanto il ricorso è rigettatto.

24 settembre 2015

Federico Gavioli