analisi della nuova disciplina del cosidetto ‘abuso del diritto’ in campo tributario: il concetto di certezza del diritto ed i principi generali del nostro ordinamento tributario ante e post riforma del 2015
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L’ABUSO E I PRINCIPI IMMANENTI DELL’ORDINAMENTO
Dal punto di vista giuridico (e in particolare fiscale), oltre che da un punto di vista latu sensu etico, l’abuso del diritto è un fenomeno che non può essere consentito, perché contrario ai principi dell’ordinamento tributario e causa di evidenti distorsioni sostanziali, sia sul piano economico che sociale. Secondo la Suprema Corte, del resto, a seguito di un lungo cammino, percorso anche in sede comunitaria, nel nostro Ordinamento vige un principio generale in forza del quale il contribuente non può trarre indebiti vantaggi dall’uso distorto di strumenti giuridici che, pur non contrastando di per se stessi con alcuna specifica disposizione, siano stati posti in essere al solo o principale scopo di contenere il debito tributario. Questo è peraltro un principio comune anche all’ordinamento Europeo, preesistente ed immanente alla emanazione delle singole leggi antielusive.
Secondo la giurisprudenza della Corte di legittimità, inoltre, la fonte di tale principio va rinvenuta non (solo) nella giurisprudenza comunitaria, quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano.
L’abuso del diritto è dunque ciò che “avrebbe dovuto essere” per l’Ordinamento e non ciò che è stato ma che il contribuente in realtà non voleva (perché voleva un’altra cosa simulazione relativa, o perché non voleva nulla simulazione assoluta).
L’operazione abusiva rappresenta in questi casi solo il mezzo, lo schermo per non dover pagare le maggiori imposte dovute, che, invece, ponendo in essere l’operazione consentita dall’Ordinamento, avrebbero dovute essere pagate.
In caso di abuso, quindi, l’ordinamento, ex ante, non consente la non insorgenza del presupposto di imposta, che non necessita neppure di essere fatto riemergere. In questo caso gli effetti fiscali illeciti dell’operazione abusiva non saranno infatti mai venuti ad esistenza, ex tunc.
In altre parole il fondamento dell’abuso trascende l’ordinamento tributario e non a caso i giudici della Corte l’hanno direttamente ancorato ai principi costituzionali.
Ciò che è certo è che l’Ordinamento giuridico non può consentire l’aggiramento delle sue norme, al mero fine del perseguimento di illeciti vantaggi fiscali. Questo è esattamente lo scopo del riconoscimento nel nostro Ordinamento dello specifico principio dell’abuso del diritto.
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IL VALORE DELLA CERTEZZA DEL DIRITTO NEI RAPPORTI TRIBUTARI
In tale contesto la realizzazione di unadisciplina normativa sull’abuso del diritto, nell’ambito del decreto non a caso chiamato “Certezza del diritto”, è stata di un’importanza epocale.
L’abuso del diritto era infatti, fino ad oggi, un concetto di origine meramente giurisprudenziale.
In un tale scenario si potevano però percepire le seguenti istanze, poi infatti sostanzialmente recepite in sede di attuazione della delega: è necessario che la reazione dell’ordinamento a tali tipi di operazioni non si trasformi in una disapplicazione “ad nutum” delle regole impositive scritte ed è necessario che tale disapplicazione avvenga in un contesto normativo ben preciso, caratterizzato anche da un contraddittorio preventivo con il contribuente.
Il Governo si era del resto anche impegnato a promuovere un fisco che incentivasse l’attrazione di investimenti esteri, e in tale direzione, oltre appunto a quello sulla certezza del diritto, è senz’altro andato anche il Decreto Internazionalizzazione.
Il contrasto all’evasione deve essere comunque perseguito, da un lato rafforzando gli strumenti di controllo e dall’altro ponendo le premesse per il miglioramento del rapporto di fiducia e collaborazione reciproca tra Amministrazione Fiscale e contribuente.
Esempio e frutto di tutto questo sono proprio le nuove norme in materia di abuso del diritto, non a caso inserite all’interno dello Statuto dei diritti dei contribuenti e relative a tutti i tributi, imposte sui redditi e imposte indirette, fatta salva la speciale disciplina vigente in materia doganale.
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COMPLESSITÀ ED ASISTEMATICITÀ DELLE REGOLE E CONSEGUENTI RISCHI DI ABUSO
Non c’è dubbio che negli ultimi anni abbiamo assistito ad un processo di deterioramento del sistema fiscale nazionale.
I motivi sono di varia natura: un peso importante va attribuito, sicuramente, ad una produzione normativa in continuo divenire, con regole impositive non sempre sistematicamente coordinate, oltre che ad una attività interpretativa della pubblica amministrazione, che, se da una parte è senz’altro determinante come attività di indirizzo e chiarezza per gli stessi contribuenti e professionisti, dall’altra, laddove sollecitata dagli interpelli dei contribuenti, risulta spesso indirizzata al caso specifico e dunque non sempre inquadrabile a sistema. Né, come noto, le Circolari si possono del resto sostituire alla norma.
In tale contesto l’abuso del diritto è dunque nato come argine avverso operazioni di singoli contribuenti che tale sistematicità cercavano di sfruttare a loro vantaggio.
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IL DIBATTITO SULL’ABUSO DEL DIRITTO ANTE RIFORMA
Stabilire se si stesse parlando di elusione (illegittima), di abuso del diritto (illegittimo), o di risparmio di imposta (legittimo), comportava comunque uno sforzo argomentativo ed interpretativo notevole, che ha caratterizzato tutto il dibattuto ante riforma.
Il confine tra evasione ed elusione in particolare non è sempre ben individuabile.
Lo scopo, infatti, è pur sempre lo stesso: la sottrazione al proprio obbligo di contribuzione alle spese pubbliche in ragione del principio di capacità contributiva.
Ciò che cambia è solo il metodo di perseguimento di tale scopo illecito: diretto nel caso dell’evasione, mediante l’occultamento dei redditi; indiretto nel caso dell’elusione, che, in sostanza, si verifica quando il soggetto passivo d’imposta si sottrae all’imposta con la “dissimulazione” della propria capacità contributiva. Eludere una norma tributaria significa quindi violarla in maniera obliqua, aggirarla tramite la scelta di operazioni contrattuali e negozi il cui solo (o comunque principale) scopo è quello di ridurre l’onere fiscale. Mentre dunque con l’evasione il contribuente occulta il presupposto d’imposta, con l’elusione il contribuente non occulta, ma impedisce, almeno formalmente, l’insorgere del presupposto stesso. Gli accadimenti economici, infatti, sono realmente esposti così come si verificano, ma, nella sostanza, la norma che inquadra il presupposto di imposta riguarda in realtà differenti fattispecie, giustificate da altre cause e finalità.
La differenza più difficile da individuare era però proprio quella tra elusione ed abuso del diritto (con il recente decreto unificati finalmente in un’unica fattispecie), trattandosi sostanzialmente di uno stesso fenomeno, in cui la distinzione si basava solo sul fatto se la fattispecie oggetto di contestazione fosse o meno prevista, positivamente, tra quelle tassativamente indicate dall’art. 37 bis del DPR 600/73. L’abuso del diritto era dunque uno sviluppo teorico/giurisprudenziale in chiave antielusiva teso a sopperire alla mancanza di una clausola generale volta ad impedire la realizzazione di operazioni negoziali, il cui scopo essenziale fosse il mero risparmio di imposta.
L’interpretazione lasciata alla giurisprudenza, in funzione nomofilattica, si espandeva così notevolmente, ai limiti del legislativo, fino ad individuare l’esistenza di una “norma generale” antiabuso sottesa dall’Ordinamento.
La Cassazione pronunciandosi sui fenomeni di dividend washing (sentenze 29/4/2005, n. 20398, depositata il 21/10/2005, e 25/10/2005, n. 22932, depositata il 14/11/2005), ebbe ad affermare che gli atti, i fatti o i negozi, anche collegati tra loro, privi di uno scopo economico e che portino alle parti esclusivamente un vantaggio fiscale sono nulli in quanto difettano di causa.
Tali principi sono stati a loro volta approfonditi con la sentenza Cass., sez. trib. del 17.10.2008, n. 25374. Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, un’operazione di locazione finanziaria era stata frammentata in distinti contratti stipulati con società appartenenti allo stesso gruppo societario, con l’effetto di separare l’operazione di finanziamento, tipica del leasing, dalla cessione in godimento del bene, allo scopo di ottenere la riduzione della base imponibile IVA. Nei motivi della decisione, tra l’altro, la Cassazione ribadiva che lo strumento dell’abuso del diritto deve essere utilizzato dall’Amministrazione finanziaria con particolare cautela, dovendosi sempre tener conto che l’impiego di forme contrattuali e/o organizzative che consentano un minor carico fiscale costituisce esercizio della libertà d’impresa e della libera iniziativa economica, nel quadro delle libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione e dall’ordinamento comunitario. L’approccio dell’Amministrazione finanziaria in materia doveva essere, quindi, oltremodo pragmatico, dovendosi rilevare che l’evoluzione degli strumenti è necessariamente collegata alle rapide mutazioni della realtà economico – finanziaria, nella quale possono trovare spazio forme nuove, non strettamente legate ad una angusta logica di profitto della singola impresa.
Ai fini della contestazione degli effetti fiscali derivanti dall’abuso del diritto, ciò che allora doveva fare l’Amministrazione Finanziaria era spiegare (motivandolo) che l’operazione contestata non era voluta, volendo invece i contribuenti solo i relativi effetti fiscali. Nel far questo l’Ufficio doveva comunque indicare quali norme (fiscali) il contribuente aveva inteso aggirare, al fine (esclusivo, o comunque prevalente) di ottenere un indebito vantaggio fiscale e, come ancora ricordato dalla Cassazione nella sentenza n. 1465 del 21.01.2009, doveva indicare quale fosse stato il “comportamento fisiologico aggirato”.
Tutti tali condivisibili principi hanno poi, non a caso, trovato compiuta realizzazione nel recente decreto.
L’operazione, concludeva la Corte, deve essere quindi valutata secondo la sua essenza, sulla quale non possono influire ragioni economiche meramente marginali o teoriche, tali, quindi, da considerarsi manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti, rispetto alla finalità di conseguire un risparmio d’imposta.
Insomma, tutto il dibattito ante riforma conteneva già in realtà i “germi” della nuova disciplina.
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LA SOLUZIONE DEL DECRETO CERTEZZA
Fino ad oggi, dunque, la “ingiustizia” dell’abuso, non essendo riferibile a parametri normativi diretti e ad una norma tributaria imperativa, che tale lo qualificasse e come tale lo sanzionasse, doveva essere necessariamente riferita ad una clausola metagiuridica insita nell’Ordinamento e riportata alla luce solo grazie alla giurisprudenza. Per rendere tutto più trasparente e consapevole era doveroso emanare una legge, che a tali principi desse finalmente voce positiva.
In sostanza, in ottemperanza peraltro ad una specifica raccomandazione comunitaria (la 2012/772/UE), con il decreto sulla certezza del diritto si introduce finalmente una norma generale antiabuso, mentre si abroga la vigente norma antielusiva applicabile solo per l’accertamento delle imposte sui redditi ad un numero chiuso di operazioni (articolo 37-bis, D.P.R. n. 600/73).
In sintesi, l’abuso del diritto si configurerà dunque ora in presenza di:
una o più operazioni prive di sostanza economica;
rispetto formale delle norme fiscali;
realizzazione di un vantaggio fiscale indebito;
vantaggio fiscale che costituisca l’effetto essenziale dell’operazione.
Non si considerano invece abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali non marginali, laddove viene anche esplicitata la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.
Nel procedimento di accertamento dell’abuso del diritto l’onere della prova della condotta abusiva graverà del resto sull’amministrazione finanziaria, mentre il contribuente sarà tenuto a dimostrare la sussistenza delle valide ragioni extrafiscali che stanno alla base delle operazioni effettuate. L’abuso del diritto (a differenza peraltro di quanto fino ad oggi sostenuto invece in sede giurisprudenziale) non potrà inoltre essere rilevato d’ufficio da parte del giudice tributario. E non sarà penalmente punibile.
Insomma veramente una nuova ottica, dimostrata ancor più da altre due previsioni fondamentali:
la motivazione dell’accertamento: nell’atto di accertamento deve essere formalmente e puntualmente individuata la condotta abusiva, a pena di nullità dell’accertamento stesso, laddove l’obbligo di motivazione dell’atto di accertamento, dovrà riguardare sia la condotta abusiva, sia le norme o principi aggirati, sia gli indebiti vantaggi fiscali realizzati e sia i chiarimenti forniti dal contribuente in sede di contraddittorio;
il contraddittorio e il diritto di difesa: devono essere garantiti in ogni fase del procedimento di accertamento tributario.
L’obiettivo perseguito, secondo quanto delineato espressamente nella relazione governativa, è quello di dare maggiore certezza al quadro normativo in tema di elusione-abuso del diritto, evitando che gli uffici esercitino i loro poteri di accertamento senza precise linee guida e sganciando la dimostrazione della sussistenza della sostanza economica delle operazioni dalla sfera dei motivi della condotta, rendendola oggettiva ai fini dell’effettività.
La collocazione della norma antiabuso all’interno dello Statuto dei diritti dei contribuenti è motivata dunque dal conferire a questa disciplina la forza di principio preordinato alle regole previste nelle discipline dei singoli tributi, come è stato più volte riconosciuto dalla Corte di Cassazione relativamente alle altre disposizioni contenute nello statuto.
29 settembre 2015
Giovambattista Palumbo