Anche gli interessi passivi eccessivi possono essere considerati costi antieconomici

un interessante caso di accertamento in cui viene contestata l’antieconomicità e la conseguente indeducibilità dal reddito d’impresa degli interessi passivi pagati in misura considerata eccessiva: la contribuente aveva fatto registrare “un andamento decisamente negativo”, caratterizzato dall’accumulo di “consistenti e notevoli perdite di esercizio”, nonché dalla denuncia di “ricavi inferiori ai costi di diretta imputazione”

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 1010 del 28 gennaio 2015 ha esteso il principio di contestazione di un costo per antieconomicità anche agli interessi passivi.

Nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate ricorreva per cassazione avverso la sentenza con la quale la CTR Emilia Romagna, rigettandone l’appello, aveva confermato la sentenza di primo grado che, su ricorso della contribuente, aveva disposto l’annullamento dell’avviso di accertamento avente ad oggetto il recupero a tassazione, tra l’altro, di ricavi non contabilizzati, costi non documentati, costi non di competenza e sopravvenienze passive.

La CTR aveva motivato il rigetto del gravame osservando, quanto ai ricavi, che “l’ufficio ha omesso di verificare in concreto se … la società avesse avuto o meno un comportamento finalizzato all’occultamento dei ricavi“, incombendo invero “all’ufficio provare il proprio assunto” e quanto ai costi non documentati, rappresentati dagli interessi passivi corrisposti per il finanziamento ricevuto dalla controllante e dal riaddebito di una quota parte di spese pubblicitarie sostenute pure dalla controllante, che diversamente da quanto ritenuto dall’ufficio, si trattava di “costi documentati, certi e determinabili” comprovati dalle fatture e, segnatamente i primi, dalle registrazioni a bilancio.

L’Amministrazione Finanziaria, come detto, ricorreva al giudice di legittimità, ritenendo in particolare che i giudici di secondo grado avessero errato nel ritenere che “l’antieconomicità della gestione imprenditoriale (ancorché ripetuta) non integra gli estremi della presunzione grave, precisa e concordante e per l’effetto che l’amministrazione finanziaria, allorquando fondi la pretesa impositiva, esclusivamente, su detta economicità gestionale, non adempie all’onere probatorio su di essa incombente ai sensi dell’art. 2697 c.c.“.

 

Il motivo di impugnazione, secondo la Suprema Corte, era fondato, dato che il principio secondo cui la presenza di una contabilità aziendale formalmente tenuta non è d’ostacolo all’accertamento analitico-induttivo dell’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate, allorquando la condotta del contribuente si riveli anomala sotto il profilo commerciale, contrastando, in ragione della sua antieconomicità, con un principio di ragionevolezza che pretende che l’esercizio di un’impresa commerciale sia ispirato a criteri di obiettiva economicità, ovvero al conseguimento di ricavi in misura adeguata a coprire i costi.

In tal caso, afferma la giurisprudenza della Corte, è consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, che possono essere ex se rappresentate anche dalla circostanza che un’impresa commerciale dichiari per più annualità un volume di affari di molto inferiore agli acquisti, essendo dunque onere del contribuente dimostrare la liceità fiscale delle suddette operazioni, sicché il giudice tributario non può, al riguardo, limitarsi a constatare la regolarità della documentazione cartacea.

 

Nel caso al giudizio della Corte, pertanto, i giudici di secondo grado non avrebbero dovuto limitarsi a constatare l’inoppugnabilità delle registrazioni contabili eseguite dalla contribuente, ma avrebbero dovuto, conformemente all’insegnamento sopra riportato, prendere atto che, a fronte della documentata antieconomicità della gestione, nella specie positivamente allegata dal deducente, facendo rilevare che in sede di verifica era emerso che sin dalla sua costituzione la contribuente aveva fatto registrare “un andamento decisamente negativo“, caratterizzato dall’accumulo di “consistenti e notevoli perdite di esercizio“, nonché dalla denuncia di “ricavi inferiori ai costi di diretta imputazione“, sussistevano le condizioni per far luogo all’accertamento analitico-induttivo operato dall’ufficio, dal momento che la regolarità della contabilità non trovava nella specie alcuna corrispondenza nella ragionevolezza di una gestione imprenditoriale perennemente in perdita.

Quanto poi allo specifico punto dei costi non documentati, rappresentati nella specie dagli interessi passivi corrisposti a fronte del finanziamento ricevuto dalla controllante, assumendo la Commissione Tributaria Regionale che prova di essi fossero le fatture registrate in contabilità, la loro contabilizzazione nei conti della finanziatrice e l’annotazione riportata nel p.v.c., malgrado l’amministrazione, impugnando l’idoneità probatoria di detta documentazione, avesse contestato “l’esistenza e l’effettività dell’operazione” in ragione delle perdite denunciate dalla finanziatrice, della consistente entità delle somme asseritamente erogate e della mancata produzione della documentazione relativa, era innegabile la sussistenza del denunciato vizio motivazionale, essendo la Commissione di secondo grado pervenuta a formulare il proprio giudizio senza un’adeguata ponderazione degli elementi di cognizione offerti a conforto della pretesa dal deducente, ma limitandosi a prendere atto che l’appostazione del costo non si esponeva a rilievi di carattere formale.

Ben diversamente l’ufficio aveva invece opposto che. in ragione dell’entità dei finanziamenti a cui la posta afferiva, pari ad euro 1.430.585,61, e della circostanza che il finanziatore versava in condizioni di protratta perdita, vi era ragionevole motivo di dubitare della loro stessa effettività ed aveva per questo inutilmente richiesto che la parte producesse la documentazione relativa.

Ne discende perciò, secondo la Suprema Corte, che la CTR non si poteva certo far scudo del principio secondo cui le prove sono liberamente apprezzabili dal giudice, trovando questo principio un limite nella logicità del ragionamento decisorio.

 

In conclusione, i requisiti di gravità, precisione e concordanza, richiesti dall’art. 2729 c.c., perchè gli indizi possano assurgere al rango di prova presuntiva, devono valutarsi con riferimento ai fatti noti, dai quali risalire con deduzioni logiche ai fatti ignorati e in tema di accertamento delle imposte sui redditi non è escluso che l’Amministrazione finanziaria possa servirsi, nel corso del medesimo accertamento e per determinate operazioni, contemporaneamente del metodo analitico e del metodo induttivo.

Del resto il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, c. 1, lett. d, consente l’accertamento induttivo del reddito, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, qualora la contabilità possa essere considerata complessivamente ed essenzialmente inattendibile, in quanto confliggente con regole fondamentali di ragionevolezza.

In tale contesto, come recentemente affermato dalla stessa Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 22638 del 24 ottobre 2014, nel caso di applicazione di regole statistiche o matematiche, basate su un ragionamento logico deduttivo, i requisiti di gravità, precisione e concordanza, richiesti dall’art. 2729 c.c., non sono peraltro a ben vedere neppure necessari. Tale circostanza si avvera ad esempio, come nel caso al giudizio della Corte, laddove l’Erario contesti l’antieconomicità di un’operazione contrastante con i criteri di ragionevolezza.

In tal caso diviene infatti onere del contribuente dimostrare la liceità fiscale dell’operazione e l’inconsistenza, invece, dell’impianto logico e giuridico dell’Erario. E questo non come conseguenza di un’inversione dell’onere della prova, ma come adempimento ordinario dell’onere della prova di ciascuna delle parti in processo.

25 agosto 2015

Giovambattista Palumbo