L'IVA sulle prestazioni sanitarie: tra indetraibilità ed esenzione

per un contribuente che esercita l’attività di casa di cura, le operazioni esenti poste in essere in generale dalle strutture sanitarie non sono estranee all’esercizio dell’impresa e possono generare un diritto alla detrazione IVA?

Con la recente sentenza n. 1144/2/2014, depositata in data 13.10.2014, la Commissione Tributaria Provinciale di Firenze ha respinto il ricorso di un contribuente, negando un rimborso per Euro 1.619.289,24.

La tesi del contribuente, in sostanza, consisteva nel ritenere che le operazioni esenti poste in essere in generale dalle strutture sanitarie pubbliche e private, non sono estranee all’esercizio dell’impresa, ma rientrano in tale esercizio e quindi, pur essendo espressamente previsto dall’art. 19 cc. 2, 5 e 19 bis del DPR 633/72 che le prestazioni sanitarie rientrino in un regime di pro rata di indetraibilità, tale previsione, laddove non consente la detraibilità dell’IVA in relazione alle operazioni esenti, sarebbe stata incompatibile con la normativa comunitaria, perché avrebbe spezzato il regime di neutralità tipico dell’imposta sul valore aggiunto.

Secondo il ricorrente, inoltre, il comma 2 dell’articolo 19 citato, che dispone, testualmente, che “non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti”, sarebbe stato anche in contrasto con il precedente comma 1, che dispone la detrazione dell’imposta quando l’acquisto avviene nell’esercizio dell’impresa.

Secondo il ricorrente, in definitiva, l’indetraibilità avrebbe dovuto riguardare solo le operazioni escluse e non invece quelle esenti.

In sostanza il ricorrente lamentava il fatto che sul settore sanitario graverebbe in tal modo un “Iva occulta”, che farebbe perdere all’imposta la sua caratteristica di neutralità.

Per tutti tali (come di seguito vedremo, infondati) motivi, il ricorrente invocava dunque, alternativamente:

  • il riconoscimento da parte del Legislatore della detraibilità dell’imposta per le strutture sanitarie pubbliche e private;

  • l’inclusione tra le operazioni esenti ex art. 10 del DPR 633/72 delle forniture di beni e servizi alle imprese che operano nel settore sanitario;

  • il rinvio degli atti alla Corte Costituzionale;

  • la sospensione del procedimento rinviando la vertenza alla Corte di Giustizia.

Non solo, dunque, il ricorrente, in quanto struttura che non si poteva detrarre l’Iva (e quindi avente effettivamente diritto all’esenzione), ribadiva il suo diritto all’esenzione stessa, ma pretendeva, al tempo stesso, anche di detrarsi l’IVA (e perfino di dedursi il costo dell’Iva già indetraibile).

Tali richieste, come confermato dai giudici di primo grado nella sentenza sopra citata, erano però in realtà basate su uno “stravolgimento” del disposto della normativa nazionale e comunitaria.

Con il D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 313 sono state infatti formulate le disposizioni che dichiarano esenti da Iva la rivendita di beni acquistati con imposta totalmente indetraibile.

In particolare il n. 27-quinquies dell’articolo 10 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, proprio per adempiere all’obbligo imposto dalla Corte di Giustizia con sentenza C-45/95 del 25 giugno 1997, ha adeguato le norme interne a quelle della VI Direttiva comunitaria.

Paradossalmente, nel contenzioso in esame, tali disposizioni di adeguamento venivano però invocate per cercare di sovvertire principi basilari del tributo IVA, visto che si chiedeva in sostanza di riconoscere a quanti effettuano operazioni esenti lo stesso trattamento di totale detassazione che compete invece solo agli esportatori ed ai soggetti ad essi assimilati.

Ma in realtà ciò non è possibile.

In presenza di attività esenti non può essere riconosciuto infatti il diritto al rimborso dell’imposta assolta sugli acquisti di beni afferenti lo svolgimento di attività anch’esse esenti.

Sono le stesse norme comunitarie, oltre a quelle nazionali, che negano in modo assoluto il diritto alla detrazione dell’imposta “a monte”.

L’art. 13 della VI Direttiva comunitaria del 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE enumera dunque le cessioni di beni e le prestazioni di servizi che gli Stati membri debbono esentare dall’Iva nei loro ordinamenti interni.

La citata Sezione B, lettera c) dell’articolo 13 della suddetta Direttiva afferma semplicemente che gli Stati membri debbono prevedere al loro interno l’esenzione dall’Iva per le rivendite di beni per i quali il cedente, in occasione del loro acquisto, non ha detratto la relativa imposta, o perché i beni stessi erano inizialmente destinati ad un’attività esente, oppure perché colpiti da indetraibilità oggettiva dell’Iva.

Vero è che, prima dell’emanazione del D.Lgs. n. 313 del 1997, la legislazione nazionale aveva recepito le citate disposizioni solo parzialmente ed in modo non del tutto conforme alla VI Direttiva.

L’intassabilità delle cessioni era infatti prevista solo a favore dei beni per i quali era stabilita l’indetraibilità oggettiva dell’imposta, ai sensi dell’ex art. 19, comma 2 (ora art. 19-bis1), del D.P.R. n. 633 del 1972; nessuna norma era stata invece introdotta per le cessioni di beni per i quali l’indetraibilità dell’imposta derivava dall’attività esente svolta dal soggetto acquirente-rivenditore.

Oggi, però, per assurdo, si attaccava dunque proprio l’adeguamento fatto dall’Italia per non incorrere nelle sanzioni comunitarie.

Con l’emanazione del D.Lgs. n. 313 del 1997, l’Italia ha infatti provveduto ad adeguare la normativa del D.P.R. n. 633 del 1972 a quella prevista dall’art. 13, Sezione B), lettera c), della VI Direttiva, stabilendo un trattamento di esenzione per la cessione di tutti i beni privi del diritto a detrazione.

È stato quindi inserito all’art. 10 del D.P.R. n. 633 del 1972 il n. 27-quinquies), con il quale sono state ricomprese tra le esenzioni tutte “le cessioni che hanno per oggetto beni acquistati o importati senza il diritto alla detrazione totale della relativa imposta ai sensi degli artt. 19, 19-bis1 e 19-bis2“.

Alla luce di quanto sopra esposto, come puntualmente confermato anche dai giudici di primo grado, come non poteva sussistere alcun dubbio che l’esenzione dall’Iva prevista dalla più volte citata disposizione dell’art. 13, Sezione B, lettera c), della VI Direttiva, trasfusa nel nostro ordinamento al n. 27-quinquies dell’art. 10 del D.P.R. n. 633 del 1972, si riferisse soltanto alle rivendite di beni per i quali non è stata operata alcuna detrazione dell’imposta a monte e non certo alle cessioni di beni effettuate nei confronti di chi svolge attività esenti, così non poteva sussistere alcun dubbio sul fatto che la stessa esenzione spetta però solo a patto che non sia stata operata la detrazione dell’imposta.

Cercare allora di risolvere il problema, asserendo che, pur essendo le operazioni esenti, deve comunque spettare la detrazione, è del tutto infondato e contrario alla normativa sia nazionale che comunitaria.

E’ chiaro del resto che la distorsione del dettato normativo si realizzerebbe non solo in caso di doppia esenzione (per fornitore ed acquirente), ma anche in caso di contemporanea condizione, di esenzione e detraibilità, per l’acquirente struttura sanitaria, la quale, in tanto gode della condizione di esenzione all’atto della cessione o prestazione, in quanto, appunto, sopporta (rectius: deve sopportare) l’indetraibilità dell’imposta.

La richiesta del contribuente, secondo il quale, l’Iva dovrebbe essere detraibile nonostante l’esenzione, come confermato dalla Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, appariva dunque in tutta la sua inconsistenza.

Affermano infatti i giudici di prime cure nella sentenza sopra citata che “ …. L’art. 13 della Direttiva comunitaria del 17/05/1977, n. 77/388/CEE elenca le cessioni di beni e le prestazioni di servizi che gli Stati membri debbono esentare dall’IVA nei loro ordinamenti interni. Il suddetto articolo 13 afferma che gli Stati membri debbono prevedere al loro interno l’esenzione dall’IVA per le rivendite di beni per i quali il cedente, in occasione del loro acquisto, non ha detratto la relativa imposta, o perché i beni stessi erano inizialmente destinati ad un’attività esente, oppure perché colpiti da indetraibilità oggettiva dell’IVA. Con l’emanazione del D.Lgs.n.313 del 1997, l’Italia ha provveduto ad adeguare la normativa del DPR n.633/ 72 a quella prevista dall’art. 13, Sezione B), lettera C), della VI Direttiva, stabilendo un trattamento di esenzione per la cessione di tutti i beni privi del diritto a detrazione. E’ stato pertantoinserito all’art. 10 del DPR n.6331 72 il n. 27-quinquies), con il quale sono state ricompresse tra le esenzioni tutte le cessioni che hanno per oggetto beni acquistati o importati senza diritto alla detrazione totale della relativa imposta ai sensi degli artt. 19, 19-bis 1 e 19-bis 2″. Sulla scorta di quanto riportato quindi non vi possono più essere dubbi sul fatto che l’esenzione dall’IVA prevista dalla disposizione dell’art. 13, Sezione B, lettera C), della VI Direttiva, riportata al n. 27- quinquies dell’art. 10 DPR n.633172, si riferisce solo alle rivendite di beni per i quali non è stata operata alcuna detrazione dell’imposta a monte e non certo alle cessioni di beni effettuate nei confronti di chi svolge attività esenti. Non vi può dunque essere più alcun dubbio sul fatto che la stessa esenzione spetta a patto che non sia stata operata la detrazione dell’imposta. La Direttiva non consente l’esenzione della cessione del bene alla struttura sanitaria effettuata da un soggetto che opera detraendo l’imposta a monte, ma prevede che debba essere esente la cessione del bene effettuata dalla struttura sanitaria o da chiunque non abbia potuto detrarre l’imposta assolta a monte, quando il bene ceduto è destinato esclusivamente ad una attività esentata come è nel caso di specie. La stessa Corte di Giustizia Europea, con ordinanza del 06/ 07/2006, cause riunite C-18/05 e C-1551 05, Sez.V, ha affermato che “La Corte ha dichiarato che l’art. 13, parte B,lettera C), della VI Direttiva mira ad evitare una doppia imposizione contraria al principio della neutralità del tributo, inerente al sistema comune di IVA. La prima parte dell’art. 13, parte B, lettera C), della VI Direttiva permette così, con l’esenzione da essa prevista, di evitare che la rivendita di beni formi oggetto di una nuova imposizione, mentre questi ultimi sono stati preliminarmente acquistati da un soggetto passivo per le esigenze di un’attività esentata in forza dello stesso articolo e, pertanto, in occasione di tale acquisto, I’Iva è stata versata in maniera definitiva, senza possibilità di detrarla“. In conclusione quindi si può affermare che l’esenzione spetta proprio in quanto 1’IVA è indetraibile. L’esenzione, proprio per espressa disposizione dei giudici comunitari, è dunque giustificata dalla indetraibilità dell’imposta sull’acquisto”.

30 dicembre 2014

Giovambattista Palumbo