Cessioni intracomunitarie: la discussa posizione del cedente nazionale

in caso di contestazione sulle operazioni intracomunitarie la regola generale è l’onere della prova a suo carico circa la sua buona fede e l’uscita delle merci dal territorio nazionale: profili operativi e riparto dell’onere probatorio

Il quadro di riferimento e le novità normative

Le cessioni intracomunitarie di cui all’articolo 41 D.L. 331/93 pur non potendosi qualificare come esportazioni vere e proprie sono, come noto, considerate dal legislatore tributario quali operazioni non imponibili.

A tal proposito, pare opportuno ricordare preliminarmente che la Legge di stabilità 2013 ha modificato le disposizioni di fatturazione anche per le operazioni intracomunitarie, le cui regole sono stabilite dal D.L. 331/1993 sopra citato.

Secondo la nuova versione dell’art. 46 comma 2 del D.L. 331, circa le cessioni intracomunitarie di beni, la fattura deve essere emessa entro il giorno 15 del mese successivo a quello di effettuazione dell’operazione, determinato dalla data di consegna o di spedizione dei beni verso l’altro Stato UE. Nella fattura dovrà essere indicata la dicitura “Operazione non imponibile – art. 41 D.L. 331/93”.

Un altro importante cambiamento è intervenuto in ordine alle modalità di registrazione della medesima fattura: la stessa andrà trascritta separatamente nel registro delle fatture emesse entro il termine di emissione sopra citato, in riferimento allo stesso termine. Per esempio, alla luce della nuova normativa, la cessione intracomunitaria che è avvenuta nel mese di maggio deve essere fatturata entro il 15 giugno e deve essere registrata entro il predetto termine (15 giugno), in riferimento però al mese in cui è avvenuta la cessione, e cioè il mese di maggio.

Le innovazioni hanno riguardato, specularmente, anche gli acquisti. Fermo restando l’obbligo dell’integrazione, l’art. 46 comma 1 del D.L. 331/1993, così come modificato dalla Legge di stabilità 2013, prevede che il termine di registrazione della fattura di acquisto intracomunitaria sia il 15° giorno successivo al ricevimento della stessa, con riferimento al mese precedente; il documento deve essere registrato separatamente nel registro delle fatture emesse, secondo l’ordine di numerazione e con anche l’indicazione dell’importo in valuta. Dal 1 gennaio 2013, inoltre, la registrazione, ai fini della detrazione, deve essere effettuata entro il termine della liquidazione periodica IVA o della dichiarazione annuale IVA nella quale è stata esercitata.

Vi sono poi da segnalare le modifiche introdotte per recepire la direttiva comunitaria 2010/45/Ue, trasfuse nell’art. 21 comma 6-bis del DPR 633/72. Con l’introduzione di tale nuovo comma, infatti, il soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato, deve emettere fattura anche per le seguenti operazioni non soggette ad IVA per la mancanza del requisito della territorialità:

  • per le cessioni di beni e prestazioni di servizi extra Ue, annotando in fattura “operazione non soggetta”;

  • per le cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate ad un soggetto passivo debitore d’imposta in altro Stato Ue, diverse da quelle di cui all’art. 10 numero da 1) a 4) e n. 9), annotando in fattura “inversione contabile”.

In entrambi i casi, in caso di inosservanza verrà applicata la sanzione di cui all’art. 6 comma 2 del D.Lgs. 471/97, compresa tra il 5% ed il 10% dei corrispettivi non documentati o non registrati.

La posizione del cedente: la regola generale è l’onere della prova a suo carico circa l’uscita delle merci dal territorio nazionale

Al di là dei recenti mutamenti legislativi, tuttavia, si registra nella prassi ed in giurisprudenza un certo disagio nell’identificare compiutamente la posizione del cedente in caso di cessioni intracomunitarie, nonché gli adempimenti probatori connessi a tale status e le responsabilità individuali del soggetto in caso di commissione di un illecito tributario di carattere elusivo o evasivo dell’imposta sul valore aggiunto.

Fornire prova dell’uscita dal territorio dello Stato di beni ceduti da un soggetto nazionale a un soggetto di altro Stato membro costituisce, in verità, una questione lungamente dibattuta, e non del tutto risolta, che si era presentata sin dall’introduzione del sistema Intrastat.

Le cessioni intracomunitarie di beni sono, dunque, considerate operazioni non imponibili ai fini IVA ma l’agevolazione è accordata solo se:

  • si siano svolte tra soggetti passivi d’imposta residenti in Stati membri diversi;

  • i beni mobili siano oggetto di trasferimento di proprietà a titolo oneroso;

  • i beni siano trasportati dal territorio dello Stato del cedente a quello del cessionario.

Al verificarsi di tali condizioni, l’operazione risulta non imponibile IVA nello Stato del cedente e diviene fiscalmente rilevante in quello del cessionario.

La prova della regolarità dell’operazione è posta a carico del cedente, in primis attraverso la dimostrazione della movimentazione fisica dei beni ceduti ossia mediante prova del trasporto nel territorio dello Stato membro dell’acquirente con documenti idonei allo scopo.

La VI Direttiva 77/388/CE, sostituita dalla Direttiva 2006/112/CE, non contemplava alcuna disposizione circa le prove da fornire da parte dei soggetti passivi, lasciando agli Stati membri il compito di individuare le condizioni di esenzione dall’imposta per le cessioni intracomunitarie di beni. La Commissione Europea, in diverse occasioni, ha rilevato che il cedente deve provare che le merci cedute siano trasferite al cessionario e che le stesse abbiano lasciato fisicamente il territorio dello Stato membro del cedente.

La Corte di Giustizia, dal canto suo, ha evidenziato di frequente che sarebbe contraria al principio di certezza del diritto la procedura adottata da uno Stato membro che, dopo aver redatto l’elenco dei documenti di prova, non li riconosca idonei, ove accerti che il cessionario non abbia provveduto al trasporto nel suo Paese dei beni ritirati dal proprio fornitore.

La carenza del requisito determina la illegittimità della fattura, annotata – come visto – con la dicitura “non imponibile IVA ai sensi dell’art. 41 D.L. n. 331/1993”, in forza del quale non sono imponibili “le cessioni a titolo oneroso di beni, trasportati o spediti nel territorio di altro Stato membro, dal cedente, dall’acquirente o da terzi per loro conto”.

La condizione dell’uscita della merce dallo Stato ricalca sostanzialmente quella prevista per le esportazioni, la cui fattura non è imponibile IVA, ai sensi dell’art. 8 c. 1 lett. a) del DPR n. 633/1972, con la differenza che in questa ipotesi i beni sono trasportati nel territorio di un Paese extracomunitario.

Mentre, però, per le esportazioni il legislatore ha disposto che la prova della regolarità dell’operazione è costituita dall’esemplare 3 del DAU, munito del timbro del “visto uscire”, oppure – nell’ambito delle procedure informatiche del sistema ECS – dal ricevimento del “messaggio di uscita”, trasmesso dalla dogana di uscita alla dogana di partenza, per le cessioni intracomunitarie di beni,la normativa non ha disciplinato le modalità dei mezzi di prova, lasciando ai soggetti passivi la possibilità di dimostrare la regolarità dell’operazione mediante documenti e dichiarazioni.

Rilevanza dei documenti probatori in ordine alla prova della reale movimentazione delle merci

L’Agenzia delle Entrate concede al contribuente un’ampia discrezionalità per provare l’avvenuta movimentazione dei beni tra soggetti passivi di Stati membri differenti, come già emerge testualmente dalla Risoluzione Ministeriale n. 345/E del 28.11.2007, indicante quali sono i documenti idonei come mezzi di prova e quali gli obblighi a carico del contribuente, successivamente integrata dalle indicazioni fornite dalla Risoluzione n. 477/E del 15 dicembre 2008 nonché dalla più recente Risoluzione n. 19/E del 25 marzo 2013.

Il cedente deve conservare per il tempo stabilito tutta la documentazione: fatture, documenti di trasporto, bonifici bancari, lettere, telegrammi, per poter dimostrare in caso di controlli che l’operazione è avvenuta in modo regolare.

In sostanza, come indicato dalla prassi, il cedente, ai fini della prova, deve conservare:

1) la fattura emessa nei confronti dell’acquirente, munita della prescritta annotazione della non imponibilità IVA, ai sensi dell’art. 41 del D.L. n. 331/1993;

2) gli elenchi riepilogativi della cessione realizzata (INTRA 1 e 1 bis);

3) gli esemplari del documento di trasporto (CMR), firmati, rispettivamente, dal trasportatore quando ha preso in carico la merce e dal destinatario all’atto del ricevimento;

4) i documenti bancari attestanti l’avvenuto pagamento.

I documenti di cui ai numeri 1) e 2) hanno carattere fiscale e soggiacciono all’obbligo della conservazione disposto dall’art. 39 del DPR n. 633/1972, che per le modalità della loro tenuta rinvia all’art. 2219 c.c. e per la loro conservazione all’art. 22 del DPR n. 600/1973.

Per la documentazione bancaria e per gli altri documenti gli articoli di riferimento sono l’art. 19 del Decreto n. 600/1973 e l’art. 2214 c.c..

Le scritture vanno, infine, conservate entro i limiti temporali fissati dall’art. 57 del DPR n. 633/1972.

L’orientamento della Corte di giustizia

La spedizione o il trasporto del bene ceduto in uno Stato membro diverso da quello di partenza costituisce un elemento essenziale della cessione intracomunitaria.

Di qui l’esigenza di individuare i confini della responsabilità del cedente nei casi in cui, nonostante egli si sia avvalso del beneficio di non imponibilità dell’operazione, non si verifichi, invece, il trasferimento all’estero.

Il tema è particolarmente sentito nelle ipotesi in cui i beni sono ceduti con la clausola “franco fabbrica”, in base alla quale la responsabilità del trasporto in un altro Stato membro ricade contrattualmente sul cessionario comunitario, e il trasporto dei beni è eseguito, quindi, da un vettore incaricato dal cessionario medesimo.

Sulla questione è intervenuta in più occasioni la Corte di Giustizia (cfr. Sentenza n. C-409/04 del 27 settembre 2007, Sentenza n. C-430/09 del 16 dicembre 2010, Sentenza C-409/04 e Sentenze relative alle cause C-146/05 e C-184/05, anch’esse emanate il 27 settembre 2007, Sentenza n. C-273/11 del 6 settembre 2012, Sentenza C-146/05 del 27 settembre 2007), la quale ha affermato che se da un lato, sebbene l’onere di provare il trasporto dei beni in altro Stato membro incomba al cedente, le norme che prevedono la prova di tale fatto devono rispettare i principi comunitari di proporzionalità e certezza del diritto, dall’altro sostiene che il cedente, per provare di aver correttamente applicato il trattamento di non imponibilità alle cessioni intracomunitarie, deve agire secondo buona fede adottando tutte le misure necessarie per evitare di partecipare ad una frode fiscale.

L’indicazione del numero identificativo del cessionario: la recente e rigorosa presa di posizione della giurisprudenza di legittimità.

I principi espressi dalla Corte di giustizia sono stati – in generale – accolti anche dalla Corte di Cassazione che, con alcune sentenze, anche recenti, ha esaminato la questione dei requisiti della prova delle cessioni intracomunitarie, fornendo ulteriori utili elementi interpretativi. Nelle Sentenze nn. 13457 del 2012 e 12964 del 24 maggio 2013, viene ribadito il concetto secondo il quale le merci cedute da un soggetto passivo nazionale, fatturate come cessioni intracomunitarie, ma non trasportate in un altro Stato membro, sono da considerarsi non imponibili se il cedente si procura mezzi di prova che dimostrino l’invio dei beni in un altro Stato membro e la sua buona fede al riguardo.

Nella prassi, tuttavia, diverse ipotesi di irregolarità si manifestano nei casi in cui il cessionario comunitario abbia fornito un numero identificativo ai fini IVA – risultato cessato – al venditore, il quale perciò ha riportato nelle scritture contabili un dato inesistente, rendendo invalida l’operazione effettuata. In tale evenienza, la cessione si considera non avvenuta e il cedente nazionale ne è responsabile, per cui è tenuto ad assolvere l’IVA non versata con l’applicazione di eventuali sanzioni amministrative.

La responsabilità a carico del cedente deriva dal mancato esercizio della facoltà di non aver verificato per suo conto l’esistenza e la correttezza del numero identificativo fornitogli dal cessionario.

L’art. 46 comma 2 del D.L. n. 331/1993 dispone, infatti, che la fattura delle cessioni intracomunitarie di beni deve contenere, tra gli altri dati, il numero di identificazione attribuito ai fini IVA al cessionario dallo Stato membro di appartenenza.

Al cedente è riconosciuta la facoltà di accertare l’esistenza del numero identificativo attraverso due momenti:

  • presentando apposita richiesta all’ufficio dell’ Agenzia delle Entrate territorialmente competente;

  • ricevendo l’atto formale di conferma del dato fornito dall’acquirente.

Se però l’esito è negativo, l’operazione è carente di un requisito essenziale, per cui l’agevolazione della non imponibilità dell’IVA non può essere accordata al cedente. Gli Stati membri, in virtù del principio di leale collaborazione tributaria, hanno attribuito il diritto ai singoli di ottenere, su richiesta, la conferma della validità del “numero identificativo”.

Per contro, non sono obbligati a soddisfare richieste in ordine ad altre circostanze, né gli uffici abilitati a ricevere gli elenchi riepilogativi degli scambi intracomunitari di beni o incaricati dei controlli sono tenuti a correggere inesattezze o irregolarità riscontrate ovvero ad integrare eventuali omissioni o a svolgere accertamenti all’atto della presentazione degli elenchi riepilogativi, perché non si possono sostituire al soggetto inadempiente.

Va subito chiarito che, come confermato diverse volte dalla Suprema Corte, interessata sul punto da frequenti ricorsi in materia, l’ipotesi in esame non configura una mera irregolarità procedurale, bensì un vero e proprio illecito, che può essere configurato come un tentativo di evasione IVA.

Di conseguenza, nel caso di numero identificativo inesistente del cessionario, il cedente:

  • dovrà versare l’IVA non assolta, perché la cessione è considerata un’operazione interna;

  • potrebbe risultare destinatario delle sanzioni disposte dal D.Lgs. n. 471/1997.

A tal riguardo, va fatto presente che l’art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997 offre la possibilità, al trasgressore che si attivi spontaneamente, di regolarizzare le violazioni fiscali, in determinate circostanze e condizioni, mediante dichiarazioni integrative o comunicazioni all’ufficio competente, risultando istituzionalizzato il cosiddetto “ravvedimento operoso” (cfr. anche l’art. 11 comma 4 del D.Lgs. n. 471/1997). Da rilevare che il ravvedimento opera soltanto se la violazione non sia stata già contestata e, comunque, non siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative (ad esempio, l’invito a presentare gli elenchi), di cui i soggetti interessati abbiano avuto formale conoscenza.

Il cedente è, dunque, ritenuto responsabile per fatti non commessi, come si verifica nel caso in cui il cessionario comunitario, dopo aver ritirato i beni, non provvede a trasportarli nel proprio Stato membro, ma li immette sul mercato nello stesso territorio nazionale.

La questione richiederebbe una riflessione più approfondita da parte degli organi legislativi e amministrativi, perché in molti casi il cedente in buona fede nulla può fare contro eventuali frodi o illeciti commessi dal cessionario, di cui talvolta non è nemmeno a conoscenza.

Tuttavia, anche la giurisprudenza di legittimità pare abbracciare in materia un’ottica rigorosa, confermata anche di recente dalla Cassazione, con la sentenza n. 4636/2014.

I Supremi togati, difatti, hanno chiarito che l’onere di provare l’esistenza dello scambio intracomunitario grava sul contribuentecedente che emette la fattura e non applica l’imposta nei confronti del cessionario, dichiarando che l’operazione non è imponibile, secondo l’ordinario principio del riparto dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c.

Il tentativo di recuperare le garanzie difensive sul versante oggettivo del fatto contestato

Un diverso (e, per vero,minoritario) orientamento giurisprudenziale ritiene eccessivamente gravoso l’onere probatorio circa l’esistenza del numero identificativo IVA del cessionario in capo al cedente nazionale, specie ove non si palesi sul versante oggettivo la prova della consapevolezza di quest’ultimo di concorrere ad un illecito tributario.

Nonostante, la prassi amministrativa abbia più volte precisato che, in difetto dell’indicazione in fattura del codice identificativo del cessionario/committente comunitario, la detassazione ai fini IVA nel Paese di origine prevista dall’art. 41 del D.L. n. 331/1993 viene meno, in quanto l’operazione non assume natura intracomunitaria, ma «interna», una giurisprudenza di merito ormai risalente (CTP Milano, sentenza n. 97/2002), ha affermato che il predetto codice identificativo, se riportato negli elenchi riepilogativi degli acquisti e delle cessioni intracomunitari di beni (c.d. modelli Intrastat), non preclude la qualificazione dell’operazione come intracomunitaria e, quindi, l’applicazione del regime di non imponibilità ad IVA nei confronti del cedente/prestatore. L’omissione commessa da quest’ultimo soggetto costituirebbe, infatti, sempre secondo questo intervento giurisprudenziale, una mera violazione formale, non sanzionabile in base all’art. 10 della L. n. 212/2000 (c.d. Statuto del contribuente).

Il ragionamento dei giudici milanesi si attesta sulla considerazione che la disciplina transitoria degli scambi intracomunitari di beni di cui al D.L. n. 331/1993 collega la detassazione nel Paese di origine (e quindi la natura intracomunitaria dell’operazione effettuata) non tanto all’esternazione del codice identificativo del destinatario dell’operazione stessa, quanto all’esistenza dello status di soggetto passivo d’imposta, ex artt. 4 e 5 del D.P.R. n. 633/1972, del destinatario della fattura.

In un’ottica egualmente sostanzialistica e volta alla “tutela” del soggetto cedente, secondo l’art. 18, comma 3, lettera b) del Regolamento di esecuzione (UE) n. 282 del 15 marzo 2011, egli può utilizzare, per la verifica dell’esistenza di un operatore economico, “qualsiasi altra prova attestante che il destinatario è un soggetto passivo” effettuando “una verifica di ampiezza ragionevole dell’esattezza delle informazioni fornite dal destinatario, applicando le normali procedure di sicurezza commerciali, quali quelle relative ai controlli di identità o di pagamento”.

In sostanza, la sua buona fede unitamente all’invio dei beni al di fuori del territorio nazionale possono essere validi strumenti a favore del soggetto cedente, al fine di adempiere l’onere probatorio dello scambio intracomunitario, in un sistema che, proprio perché volto a prevenire frodi, si attesta come particolarmente rigoroso.

30 luglio 2014

Martino Verrengia