Il destino della Lista Falciani

la sentenza della Cassazione Penale che illustra le motivazioni per cui la “lista Falciani” di contribuenti con depositi bancari in paradisi fiscali, anche se non valida in giudizio, non deve essere distrutta

Sentenza n. 29433 del 10 luglio 2013 (ud 17 aprile 2013) – della Cassazione

Penale, Sez. III – Pres. MANNINO Saverio F. – Est. SARNO Giulio

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNINO Saverio F. – Presidente

Dott. LOMBARDI Alfredo M. – Consigliere

Dott. GRILLO Renato – Consigliere

Dott. SARNO Giulio – rel. Consigliere

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.A. N. IL (OMISSIS);

avverso il decreto n. 209295/2011 GIP TRIBUNALE di MILANO, del 08/03/2012;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIULIO SARNO;

lette le conclusioni del PG rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. G.A. propone, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione avverso l’ordinanza in epigrafe con la quale il gip del tribunale di Milano accoglieva la richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero nell’ambito del procedimento penale per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, in relazione alle annualità fiscali 2005 – 2007 ma, contestualmente, rigettava l’istanza di distruzione avanzata dalla difesa della documentazione da cui avrebbe tratto origine il procedimento stesso.

Come si rileva dal ricorso l’istanza di distruzione riguardava la documentazione trasmessa alle autorità amministrative italiane sulla base degli strumenti di cooperazione internazionale previsti dalla direttiva 77/799/CE e della convenzione sulla doppia imposizione in vigore tra Italia e Francia, e riguardava in particolare la cosiddetta “lista Falciani”, ovvero un documento formato da un ex dipendente infedele di un istituto di credito svizzero che, abusando della propria qualifica, aveva sottratto i dati di migliaia di correntisti riversandoli su supporto informatico del quale era entrato in possesso l’autorità amministrativa francese.

2. La difesa aveva chiesto al PM di attivare la procedura di distruzione della documentazione contenuta nel fascicolo d’indagine ai sensi dell’art. 240 c.p.p., ma il PM non aveva ritenuto di attivarsi nel senso richiesto all’esito delle indagini concluse con la richiesta di archiviazione.

La stessa difesa sollecitava pertanto il gip – già richiesto del provvedimento di archiviazione da parte della procura della Repubblica – di vagliare la richiesta di distruzione dei documenti e quest’ultimo fissava di conseguenza udienza camerale all’esito della quale pur accogliendo la richiesta di archiviazione, rigettava quella di distruzione dei documenti.

3. Il gip, recependo il parere contrario del PM, respingeva la richiesta osservando che la procedura incidentale di cui all’art. 240 c.p.p., può essere attivata esclusivamente all’interno del procedimento penale a carico dell’autore o utilizzatore del dossieraggio ritenendo che in quella sede la richiesta non poteva essere accolta in quanto il procedimento principale nell’ambito del quale

la stessa era stata attivata concerneva non già condotte di illegale raccolta delle informazioni bensì di infedele dichiarazione da parte di uno dei contribuenti menzionati nella lista e nel merito mancando comunque la prova che la documentazione di cui si chiedeva la distruzione fosse stata illecitamente acquisita.

4. Deduce in questa sede il ricorrente:

4.1 l’inosservanza e/o erronea applicazione dell’art. 240 c.p.p., comma 2, nonchè la contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione escludendo, anche sulla base delle motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale n. 173/2009, che la procedura potesse essere attivata solo nell’ambito del procedimento a carico dell’autore/utilizzatore dell’interferenza illecita e che anche in caso di dubbio si sarebbe dovuto disporre la distruzione.

4.2 Eccepisce inoltre l’illegittimità costituzionale dell’art. 240 cpv. c.p.p., nell’interpretazione fornita dal GIP per violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione e chiede in via subordinata la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale.

5. Il ricorrente ha successivamente fatto pervenire memoria in cui ribadisce le ragioni espresse dai motivi di ricorso evidenziando tra l’altro che accedere all’interpretazione fatta propria dal gip di Milano significherebbe legittimare un trattamento deteriore nei confronti della persona offesa del dossieraggio che sia, al contempo, sottoposta ad indagini e che contrasterebbe con la ratio della

riforma apportata nel 2006 volta al contrasto all’illegale detenzione di contenuti dati relativi ad intercettazioni illecitamente effettuate, nonchè documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni e finalizzata da prestare più incisive misure atte ad evitare l’indebita diffusione comunicazione dei dati così acquisiti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

6. Il ricorso è inammissibile.

Lo stesso ricorrente riconosce in premessa che il pubblico ministero non si è pronunciato sull’istanza di distruzione della documentazione e che, anzi, ha espresso pare contrario dinanzi al GIP nel corso dell’udienza camerale disposta da quest’ultimo.

E’ il GIP, autonomamente investito dalla richiesta del difensore del ricorrente, ad essersi attivato, quindi, per la fissazione dell’udienza per l’esame della richiesta di distruzione della documentazione.

Ciò contrasta all’evidenza con la procedura indicata dall’art. 240 c.p.p., ai commi 2, 3 e 4.

Stando al disposto del comma 3, è il pubblico ministero, infatti, a dover chiedere entro 48 ore al GIP la distruzione della documentazione dopo avere proceduto, a mente del comma 2, alla secretazione ed alla custodia dei dati illegalmente acquisiti.

Ed il GIP deve provvedere sulla richiesta nel contraddittorio delle parti.

Nessun autonomo potere di attivazione della pronuncia del GIP è pertanto previsto direttamente per la parte diversa dal PM e ciò a differenza di quanto ad esempio è sancito dall’art. 269c.p.p., comma 2, che facoltizza qualsiasi parte a chiedere a tutela della riservatezza la distruzione dei verbali e delle registrazioni relative alle intercettazioni telefoniche al giudice che ha autorizzato o convalidato l’intercettazione.

Nè si può sostenere la “dimenticanza” del legislatore sul punto.

L’esame della evoluzione normativa della disposizione dimostra come la scelta attuale sia stata attentamente ponderata dal legislatore.

L’art. 240 c.p.p., (documenti anonimi) che originariamente si componeva del solo attuale comma 1, con cui si stabilisce l’inutilizzabilità delle dichiarazioni anonime fatte salve alcune eccezioni espressamente indicate, è stato dapprima modificato dal D.L. 22 settembre 2006, n. 259, art. 1, con l’aggiunta dei commi 2 e 3.

In particolare al comma 2 si prevedeva che: “2. L’autorità giudiziaria dispone l’immediata distruzione dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni e comunicazioni, relativi al traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti. Allo stesso modo si provvede per i documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni. Di essi è vietato eseguire copia in qualunque forma. Il loro contenuto non costituisce in alcun modo notizia di reato, né può essere utilizzato a fini processuali o investigativi”.

E dunque oltre ad estendere l’ambito di applicazione dell’art. 240 c.p.p., includendo nella disposizione oltre ai documenti anonimi anche quelli illegalmente formati attraverso l’attività illecita di intercettazione o di acquisizione comunque illegale di informazioni, il legislatore affidava all’autorità giudiziaria il compito di procedere alla distruzione.

La soluzione adottata è stata oggetto di interventi emendatori operati dal Senato in sede di conversione, essendosi posta la necessità di chiarire chi tra giudice e pubblico ministero avesse l’effettivo potere di disporre la distruzione.

Il nodo è stato sciolto in favore del GIP, ma con la precisazione che lo stesso debba procedere su istanza del solo pubblico ministero.

Non è prevista, infatti, alcuna facoltà per la parte diversa dal PM di rivolgersi al GIP per ottenere la distruzione del documento in mancanza dell’iniziativa del PM. La disciplina è differente quindi rispetto a quella dettata per altre situazioni in cui pure si pone l’esigenza di evitare la compressione di diritti fondamentali dell’individuo quali fa riservatezza (art. 269 c.p.p.) o la proprietà (art. 263 c.p.p.) in assenza di reali esigenze di carattere processuale.

Ma proprio il caso di specie dimostra le ragioni della scelta operata.

Il compito di verificare ed accertare eventuali profili di illiceità nella formazione dell’atto di cui si chiede la distruzione non può che rientrare, infatti, nella competenza esclusiva del PM in quanto accessoria all’attività di raccolta delle prove da parte di quest’ultimo, ferma restando ovviamente la sanzionabilità in via autonoma di eventuali abusi.

Peraltro l’inutilizzabilità degli atti illegalmente formati a mente dell’art. 240 c.p.p., comma 2, nella attuale formulazione non preclude che gli stessi possano valere come spunto di indagine, così come accade per gli scritti anonimi (cfr. Sez. 1 sentenza del 5.12.2007 n. 45566 RV 238143).

A mente dell’art. 616 c.p.p., alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonchè del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, fissata in via equitativa, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente ai pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma di Euro 1.000,00.

Così deciso in Roma, il 17 aprile 2013.

Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2013.