Quando il professionista dirotta i propri compensi su una società

I compensi del lavoratore autonomo non sono suddividibili con una società di servizi, se tale operazione è effettuata solo a fini di elusione fiscale.

Con la sentenza n. 19100 del 3 maggio 2013 (ud. 6 marzo 2013) la Cassazione Penale, Sez. III, ha affermato che i compensi del lavoratore autonomo non sono suddividibili con una società di servizi.

 

Il caso

Era stato stipulato un contratto (poi rinnovato negli anni successivi) tra l’attore B.R. e la società S. srl (le cui quote erano ripartite per il 20% a B.R. e per l’80% a B.T., sorella del primo; l’altra sorella B.D. era l’amministratore unico, mentre G.C.M.R., moglie dell’indagato, ne era la procuratrice), in forza del quale il B. cedeva alla società i diritti di utilizzazione economica della propria immagine dietro compenso annuale di un minimo garantito di Euro 100.000; il B. inoltre era tenuto a versare alla società una percentuale dei compensi da lui fatturati nella misura del 40%.

 

La sentenza

Osserva la Corte che

“il Tribunale, con motivazione pertinente ed immune da vizi, ha ritenuto che l’indagato avesse abusato del diritto di costituire una società. Tale costituzione era infatti avvenuta senza che vi fosse alcuna apprezzabile ragione economica, al solo scopo di conseguire vantaggi fiscali. Dopo aver esaminato i rilievi difensivi e la documentazione prodotta in relazione alla sussistenza di ragioni economicamente apprezzabili, idonee a giustificare la costituzione della ‘S. srl’, ed alla irrilevanza penale dell’abuso del diritto (pag. 8 e ss.), ha evidenziato che non era dato comprendere la differenza intercorrente ‘tra l’attività che il B. ha svolto di fatto da solo, ma sotto la schermatura societaria, e quella che egli avrebbe ugualmente potuto svolgere sempre da solo, assumendo direttamente alle sue dipendenze (invece che alle dipendenze della società “S. srl”) le segretarie necessarie per fissare appuntamenti, selezionare le chiamate, inviare mails…'”.

L’indagato aveva quindi, senza ricavarne alcun vantaggio economico, trasferito i propri guadagni alla società. Sicchè la finalità di tale operazione era palesemente quella di trasformare il 40% dei guadagni (poste attive) in costi deducibili (poste passive).

Sul punto la Corte richiama il pronunciamento a SS.UU., sentenza n. 30055 del 23.12.2008, che ha affermato che in materia tributaria,

“il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici; tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel riconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali.

Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione”.

Principi confermati successivamente (cfr. Cass. Civ., sez. 5 n. 4737 del 26.10.2010; Sez. 5 n. 11236 del 20.05.2011, Sez. 5 n. 21782 del 20.10.2011; Sez. 5 n. 19234 del 07.11.2011; Sez. 5 n. 21390 del 30.11.2012).

Il Tribunale, richiamando la sentenza n. 7739/2011 (Cass. pen.),

“ha rilevato che nulla osta, a livello di ordinamento nazionale (ed europeo) alla rilevanza penale dell’abuso di diritto, proprio in ragione del rispetto del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost., comma 1) e del principio di progressività dell’imposizione (art. 53 Cost., comma 2). Da tali due principi costituzionali deriva, invero, che il contribuente non possa trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo in modo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che possano giustificare l’operazione”.

La sentenza della 2′ sezione sopra richiamata, che il Collegio condivide, evidenzia che “ad avvalorare la tesi della rilevanza penale dei comportamenti elusivi specificamente previsti dalla normativa di settore è la stessa linea di politica criminale adottata dal legislatore, nell’ambito delle scelte discrezionali che gli competono, in occasione della riforma introdotta con il D.Lgs. n. 74 del 2000, che sono state ampiamente delineate dalle Sezioni Unite di questa Corte (sez. Un. n. 27 del 25.10.2000, imp. Di Mauro; n. 1235 del 28.10.2010, 19.1.2011, Giordano) e dalla Corte Costituzionale (sent. n. 49 del 2002)”.

Infatti

“se le fattispecie criminose sono incentrate sul momento della dichiarazione fiscale e si concretizzano nell’infedeltà dichiarativa, il comportamento elusivo non può essere considerato tout court penalmente irrilevante. Se il bene tutelato dal nuovo regime fiscale è la corretta percezione del tributo, l’ambito di applicazione delle norme incriminatrici ben può coinvolgere quelle condotte che siano idonee a determinare una riduzione o una esclusione della base imponibile”.

Laddove il comportamento antielusivo contrasti con specifiche disposizioni, rimane, poi, salvaguardato anche il principio di legalità. Nella sopra richiamata sentenza si evidenzia in proposito:

“La affermazione della rilevanza penale delle condotte elusive in materia fiscale, nei limiti sopra specificati, non contrasta con il principio di legalità, inteso nel senso sopra precisato, poichè se tale principio non consente la configurabilità della generale fattispecie di truffa, in presenza di una espressa previsione nel sistema tributario di una specifica condotta elusiva, non è, invece, ostativo alla configurabilità della rilevanza penale della medesima condotta, trattandosi di un risultato interpretativo ‘conforme ad una ragionevole prevedibilità’, tenuto conto della ratio delle norme, della loro finalità e del loro inserimento sistematico.

Se il principio di legalità venisse diversamente applicato nella materia di cui si parla si chiuderebbero gli spazi non solo della normativa penale generale, ma anche di quella speciale di settore: la plurima invocazione del principio di specialità trasformerebbe questo in principio di impunità, pur in presenza di una descrizione della fattispecie elusiva provvista dei caratteri di determinatezza”.

 

La rilevanza penale dell’elusione

Sulla questione della rilevanza penale dell’elusione in materia fiscale (si veda la sentenza n. 7739 del 28 febbraio 2012,ud 22 novembre 2011, vicenda Dolce Gabbana), la giurisprudenza penale della Corte di Cassazione, trascurate le sentenze non compiutamente argomentate, si è espressa in senso favorevole alla configurabilità di un illecito penale.

  • Sez. 3, n. 2 6723 del 18/03/2011: il reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 4, è configurabile anche in presenza di una condotta elusiva rientrante tra quelle previste dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, quando tale condotta, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all’Amministrazione finanziaria, comporti una dichiarazione infedele per la mancata esposizione degli elementi attivi nel loro effettivo ammontare.

  • Sez. 3, n. 29724 del 26/05/2010: l’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale IVA da parte di società avente residenza fiscale all’estero sussiste se questa ha stabile organizzazione in Italia, che ricorre anche quando la società straniera abbia affidato, anche di fatto, la cura dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura munita o meno di personalità giuridica, prescindendosi dalla fittizietà o meno dell’attività svolta all’estero dalla società medesima. Nel caso di specie era stato contestato il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, (omessa dichiarazione IVA) con riferimento ad una società avente residenza fiscale all’estero, ma che non possedeva un legame col territorio di quello Stato, essendo priva di un’organizzazione di uomini e mezzi idonea ad operare in loco in piena autonomia gestionale ed aveva affidato la cura dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura e ciò a prescindere dalla fittizietà o meno dell’attività svolta all’estero dalla società medesima.

 

A sostegno della rilevanza penale della condotta elusiva deve osservarsi, in primo luogo, che il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. f), fornisce una definizione molto ampia dell’imposta evasa:

“la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine”,

definizione idonea a ricomprendere l’imposta elusa, che è, appunto, il risultato della differenza tra un’imposta effettivamente dovuta, cioè quella dell’operazione che è stata elusa, e l’imposta dichiarata, cioè quella autoliquidata sull’operazione elusiva.

Con la sentenza n. 7739/2012 (Dolce Gabbana) è stato affermato il principio che non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge.

In tal caso, infatti, si richiede al contribuente di tenere conto, nel momento in cui redige la dichiarazione, del complessivo sistema normativo tributario, che assume carattere precettivo nelle specifiche disposizioni antielusive. In altri termini, nel campo penale (secondo detta sentenza) non può affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive, così come, invece, ritenuto dalle citate Sezioni Unite civili della Corte Suprema di Cassazione, mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva.

La affermazione della rilevanza penale delle condotte elusive in materia fiscale, nei limiti sopra specificati, non contrasta col principio di legalità, inteso nel senso sopra precisato, poichè se tale principio non consente la configurabilità della generale fattispecie di truffa, in presenza di una espressa previsione nel sistema tributario di una specifica condotta elusiva, non è, invece, ostativo alla configurabilità della rilevanza penale della medesima condotta, trattandosi di un risultato interpretativo “conforme ad una ragionevole prevedibilità”, tenuto conto della ratio delle norme, delle loro finalità e del loro inserimento sistematico.

Se il principio di legalità venisse diversamente applicato nella materia di cui si parla si chiuderebbero gli spazi non solo della normativa penale generale, ma anche di quella speciale di settore: la plurima invocazione del principio di specialità trasformerebbe questo in principio di impunità, pur in presenza di una descrizione della fattispecie elusiva provvista dei necessari caratteri di determinatezza.

 

16 giugno 2014

Francesco Buetto