Liberi professionisti part time: attenzione agli standard!

anche i liberi professionisti che operano part-time, in quanto sono anche dipendenti sono a rischio di accertamento standardizzato (da parametri e studi di settore), soprattuto se in fase di contraddittorio rimangono inerti e non si giustificano davanti al Fisco

Con la sentenza n. 22698 del 4 ottobre 2013 (ud. 26 aprile 2013) la Corte di Cassazione ha ritenuto utilizzabili i parametri per i lavoratori dipendenti che svolgono anche attività di lavoro autonomo.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

D.P.A., geometra, impugnava dinanzi alla CTP di Avellino l’avviso di accertamento col quale l’Ufficio, sulla base dei parametri previsti dalla L. n. 549 del 1995, e dal D.P.C.M. 29 gennaio 1996, (come modificato dal D.P.C.M. 27 marzo 1997), aveva determinato in L. 17.836.000 i maggiori compensi per l’anno 1996, elevando il reddito da quello negativo dichiarato di L. 3.636.000 a quello positivo di L. 14.200.000.

A sostegno del ricorso contestava, tra l’altro, la legittimità dei parametri, rilevando, in particolare, che l’Ufficio non aveva tenuto conto che egli era lavoratore dipendente a tempo pieno presso un’azienda privata ed esercitava l’attività autonoma di libero professionista in modo residuale e saltuario.

L’adita CTP accoglieva il ricorso.

Con sentenza depositata il 24-05-2007 la CTR Campania, in parziale accoglimento dell’appello dell’Agenzia, determinava il reddito imponibile in L. 9.000.000 (Euro 4.648,11); in particolare la CTR precisava che l’accertamento operato mediante l’applicazione dei parametri in questione era per legge assistito da presunzione semplice, precisa e concordante, sicchè spettava al contribuente giustificare lo spostamento tra il reddito accertato e quello dichiarato; nel caso di specie, la presenza di soli costi per L. 3.636.000 (con pari reddito negativo) non appariva risultato economico accettabile, sicchè, sulla base dei dati e degli elementi contabili rilevati dall’avviso di accertamento (in particolare dal rapporto – valutato oltre il massimo consentito – tra ammortamenti dichiarati per L. 2.297.000 e valore dei beni ammortizzabili per L. 13.225.000), desumeva che l’accertamento operato dall’Agenzia non era del tutto infondato; di conseguenza, tenuto conto del reddito accertato a fini IRPEF di lire 14.200.000 e della residualità dell’attività di libero professionista svolta dal contribuente, determinava in modo equo un reddito imponibile di lavoro autonomo pari a L. 9.000.000.

Avverso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione il contribuente.

 

LA SENTENZA

Innanzitutto, la Corte riafferma che “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ‘ex lege‘ determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli ‘standards‘ in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli ‘standards‘ o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello ‘standard‘ prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli ‘standards‘ al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli ‘standards‘, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio coni il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito (Cass. Sez. Unite 26635/2009; conf., tra le tante altre successive, Cass. 12558/2010 e Cass. 13594/2010)”.

Per la Suprema Corte, nel caso di specie, “ a CTR, pur con alcune imprecisioni terminologiche (v. affermazione che l’accertamento operato mediante l’applicazione dei parametri in questione è per legge assistito da presunzioni semplici, precise e concordanti) ha fatto nel complesso corretto uso di tali principi, esaminando in concreto la specifica situazione del contribuente sulla base delle giustificazioni dallo stesso presentate. Al riguardo va, infatti, rilevato che è stato attivato in sede preliminare il contradditorio (v. svolgimento del processo riportato nella gravata sentenza), e che la CTR ha ritenuto di stabilire in lire 9.000.000 il reddito imponibile di lavoro autonomo percepito dal contribuente, sufficientemente motivando tale valutazione in considerazione dei dati di fatto riportati da quest’ultimo e tenendo presente la dedotta residualità dell’attività autonoma professionale dallo stesso svolta”.

 

Brevi note

Il legislatore tributario, avvertendo la necessità di elaborare un criterio maggiormente efficace rispetto ai coefficienti presuntivi, con la legge Finanziaria 1996 (legge 28 dicembre 1995, n. 549) ha introdotto, fino alla approvazione degli studi di settore, la possibilità di effettuare gli accertamenti di cui all’art. 39, c. 1, lett. d, del DPR n. 600/73, “senza pregiudizio della ulteriore azione accertatrice con riferimento alle medesime o alle altre categorie reddituali, nonché con riferimento ad ulteriori operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto”, utilizzando i parametri di cui al successivo comma 184 “ai fini della determinazione presuntiva dei ricavi, dei compensi e del volume d’affari ”.

I parametri furono elaborati con D.P.C.M. 29 gennaio 1996, poi modificato con D.P.C.M. 27 marzo 1997.

L’art. 3, c. 125, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 precisò che “Le disposizioni di cui ai commi da 181 a 187 dell’articolo 3 della legge 28 dicembre 1995, n. 549, riguardanti gli accertamenti effettuati in base a parametri, si applicano per gli accertamenti relativi ai periodi di imposta 1996 e 1997 ovvero, per i contribuenti con periodo di imposta non coincidente con l’anno solare, per gli accertamenti relativi al secondo e al terzo periodo”.

A differenza dei coefficienti presuntivi, i parametri prevedono un sistema basato su presunzione semplice la cui idoneità probatoria è rimessa alla valutazione del giudice di merito.

Nello specifico, rileviamo che il documento di prassi n. 25/2001 dell’Agenzia delle Entrate si occupa anche dei lavoratori autonomi, sottoposti al principio di cassa, richiamando la istruzioni già fornite con la circolare n.117/E del 13 maggio 1996, secondo cui l’ufficio, in sede di contraddittorio, in considerazione delle modalità di determinazione del reddito di lavoro autonomo (principio di cassa), dovrà tenere conto “dell’eventuale incasso di compensi di rilevante ammontare in anni successivi a quello nel corso del quale sono stati sostenuti i relativi costi “.

La stessa Agenzia invita, inoltre, a tenere conto dell’eventuale contemporaneo svolgimento dell’attività di lavoro dipendente (che determina una riduzione dei compensi professionali), fornendo delle interessanti indicazioni di calcolo. In ordine alla concreta incidenza di tale circostanza sui compensi effettivamente conseguiti, viene evidenziato che il tempo medio dedicato all’attività da un professionista a tempo pieno, per l’intero anno, potrà essere considerato pari a 40 ore settimanali per 45 settimane all’anno, e pertanto, tale tempo – medio, dovrà essere scomputato, dal monte-ore totale. Pur in assenza di esplicita previsione (la circolare fa riferimento solo al contemporaneo svolgimento di attività professionale o artistica e di attività di lavoro dipendente) potrà essere valutato, in sede di contraddittorio, anche il contemporaneo svolgimento di attività di lavoro dipendente e attività d’impresa, o il contemporaneo svolgimento di attività professionale e attività d’impresa.

 

2 dicembre 2013

Roberta De Marchi