ai fini reddituali, le provvvigioni erogate agli agenti si considerano deducibili nell’esecizio in cui diventano certe e determinabili
Con la sentenza n. 23321 del 15 ottobre 2013 (ud. 26 giugno 2013) la Corte di Cassazione ha confermato che le provvigioni sono deducibili nell’esercizio in cui sono certe e determinabili.
La sentenza
La Corte dà continuità al principio già affermato (Cass. n. 23361/2006) secondo cui “In tema di imposte sui redditi, e con riferimento alla determinazione del reddito d’impresa, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 2, disponendo che i ricavi ed i costi di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare vanno imputati all’esercizio in cui si verificano tali condizioni, esclude la deducibilità di provvigioni non ancora certe e determinate nella loro debenza e nel loro ammontare, in quanto contrattualmente condizionate al buon fine delle prestazioni, non ricorrendo, fino al momento in cui dette prestazioni non siano ultimate effettivamente, il requisito della certezza, normativamente prescritto ai fini dell’imputabilità ai costi di esercizio“.
Rileva la Suprema Corte che tale principio ha trovato ulteriore seguito nella sentenza n. 9539 del 29/04/2011, sempre della Cassazione, “la quale ha affermato che in tema di imposte sui redditi, e con riferimento alla determinazione del reddito d’impresa, anche dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 15 febbraio 1999, n. 65, che ha modificato, in attuazione della direttiva comunitaria 13 dicembre 1986, n. 635, l’art. 1748 c.c., per determinare il momento in cui le provvigioni dell’agente possono essere dedotte come costi bisogna far sempre riferimento al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 2, con la conseguenza che esse sono deducibili nell’esercizio corrispondente al momento in cui il contratto promosso dall’agente è eseguito o avrebbe dovuto essere eseguito”.
Osserva la Corte che, nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale ha espressamente motivato la decisione impugnata (in ordine all’epoca di maturazione delle provvigioni per la promozione di ordini di acquisto di capi di abbigliamento) in linea coi superiori principi, non avendo rilievo il “materiale esborso del costo“.
Brevi note giurisprudenziali
La Corte, nella sentenza n. 1648 del 24 gennaio 2013 (ud 19 settembre 2012), aveva già affermato che, poichè “l’imputazione di un determinato costo ad un esercizio anzichè ad un altro ben può, in astratto, comportare l’alterazione dei risultati della dichiarazione, mediante i meccanismi di compensazione dei ricavi e dei costi nei singoli esercizi – deve ritenersi rigorosamente preclusa in tema di reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, la detrazione di costi in esercizi diversi da quello di competenza, giacchè il contribuente non può essere lasciato arbitro della scelta del periodo in cui registrare le passività (v. Cass. 3809/07, 16198/01, 7912/00) – cfr., da ultimo, Cass. Sez. 5, n. 3418 del 12/02/2010 e Cass. n. 6331 del 2008”.
Si tratta di un indirizzo risalente, che trae origine dall’affermazione esplicita per cui “le regole sull’imputazione temporale dei componenti di reddito sono inderogabili, sia per il contribuente che per l’ufficio finanziario e, pertanto, il recupero a tassazione di ricavi nell’esercizio di competenza non può trovare ostacolo nella circostanza che essi siano stati dichiarati in un diverso esercizio: ciò infatti finirebbe per lasciare il contribuente arbitro della scelta del periodo più conveniente in cui dichiarare i propri componenti di reddito con innegabili riflessi sulla determinazione del proprio reddito imponibile” (cfr. Cass. 15 novembre 2000 n. 14774, che si è specificamente occupata di un’ipotesi di ricavi contabilizzati nell’esercizio successivo, precisando come la circostanza che detti componenti avessero già concorso alla formazione del reddito di altro esercizio non impediva la loro considerazione nel periodo d’imposta in cui si radica la competenza in virtù del TUIR, pure escludendo a carico dell’amministrazione l’onere di rettifica automatica delle dichiarazioni presentate per gli altri anni; idem, Cass. 28 luglio 2006 n. 17195; Cass. 24 settembre 2008 n. 23987; Cass. n. 26665/2009; Cass. n. 3947/2011). Inoltre, osservava la Corte, anche il prospettato contrasto della soluzione appena esposta coi principi costituzionali e con quello di cui all’art. 127 T.U.I.R. non sembra cogliere nel segno, se è vero che “la pratica conseguenza di una vietata (v. D.P.R. n. 917 del 1986, art. 127) doppia imposizione … non risulta evento irrimediabilmente connesso all’applicazione del criterio sopra enunciato (del resto, immediatamente scaturente dalla legge), giacchè, in base ai principi generali, può essere evitata (cfr., in materia di iva, Cass. 8965/07) mediante l’esercizio da parte del contribuente – con istanza di rimborso e conseguente impugnazione, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, del silenzio rifiuto su di esso eventualmente formatosi – dell’azione di restituzione della maggior imposta indebitamente corrisposta per la mancata esposizione nell’annualità di competenza dei costi negati in relazione a diversa imputazione temporale”.
Ancora di recente, con la sentenza n. 20975 del 13 settembre 2013 (ud. 8 luglio 2013) la Corte di Cassazione ha confermato l’inderogabilità del principio di competenza. “… Questa Corte ha più volte ritenuto che poichè ‘l’imputazione di un determinato costo ad un esercizio anzichè ad un altro ben può, in astratto, comportare l’alterazione dei risultati della dichiarazione, mediante i meccanismi di compensazione dei ricavi e dei costi nei singoli esercizi – deve ritenersi rigorosamente preclusa in tema di reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, la detrazione di costi in esercizi diversi da quello di competenza, giacchè il contribuente non può essere lasciato arbitro della scelta del periodo in cui registrare le passività (v. Cass. 3809/07, 16198/01, 7912/00)’ – cfr., da ultimo, Cass. Sez. 5, n. 3418/2010 e Cass. n. 6331/2008”.Rileva la Corte che “si tratta, a ben considerare, di un indirizzo risalente, che trae origine dall’affermazione esplicita per cui ‘le regole sull’imputazione temporale dei componenti di reddito sono inderogabili, sia per il contribuente che per l’ufficio finanziario e, pertanto, il recupero a tassazione di ricavi nell’esercizio di competenza non può trovare ostacolo nella circostanza che essi siano stati dichiarati in un diverso esercizio: ciò infatti finirebbe per lasciare il contribuente arbitro della scelta del periodo più conveniente in cui dichiarare i propri componenti di reddito con innegabili riflessi sulla determinazione del proprio reddito imponibile’ – cfr. Cass. 15 novembre 2000 n. 14774; idem, Cass. 28 luglio 2006 n. 17195; Cass. 24 settembre 2008 n. 23987; Cass. n. 26665/2009; Cass. n. 3947/2011 e, da ultimo, da Cass. n. 1648/2013”.
Le indicazioni di prassi
Come è noto, con la circolare n. 23/E del 4 maggio 2010 l’Agenzia delle Entrate ha fornito importanti ed attesi chiarimenti in ordine alla rettifica dell’imputazione temporale dei componenti negativi di reddito, riconoscendo la deduzione, nel periodo di imposta di effettiva competenza, di costi oggetto di recupero per mancato rispetto del principio di competenza, può essere in ogni caso riconosciuta. “Il diritto al rimborso della maggiore imposta versata con riguardo a un periodo d’imposta antecedente o successivo a quello oggetto di accertamento, decorre dalla data in cui la sentenza che ha affermato la legittimità del recupero del costo non di competenza è passata in giudicato, ovvero dalla data in cui è divenuta definitiva, anche ad altro titolo, la pretesa dell’Amministrazione finanziaria al recupero del costo oggetto di rettifica. Da tale data, infatti, si deve ritenere affermato irrevocabilmente anche il diritto del contribuente a dedurre nel periodo di imposta di effettiva competenza il componente negativo”.
L’istanza di rimborso della maggiore imposta versata può essere presentata, ai sensi dell’articolo 21, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992, entro due anni dal passaggio in giudicato della sentenza ovvero dalla data in cui è divenuta definitiva, anche ad altro titolo, la pretesa dell’Amministrazione finanziaria al recupero del costo oggetto di rettifica.
In nessun caso, ovviamente, potrà accogliersi l’istanza di rimborso del contribuente, qualunque sia la norma invocata, nel caso in cui la pretesa dell’Amministrazione finanziaria al recupero del costo oggetto di rettifica non si sia resa definitiva.
Avverso l’eventuale silenzio rifiuto dell’amministrazione è ammesso ricorso, ai sensi dell’articolo 19 del decreto legislativo n. 546 del 1992, nel termine di prescrizione ordinaria decennale.
Il diritto al rimborso dell’imposta indebitamente versata non comporta il venir meno o la rideterminazione delle sanzioni originariamente irrogate per effetto del disconoscimento del costo non di competenza, né degli interessi dovuti.
Successivamente, con la circolare n. 29/E del 27 giugno 2011 l’Agenzia delle Entrate, correttamente, ritiene di confermare che rientri tra gli atti “ad altro titolo”, che danno diritto alla presentazione dell’istanza di rimborso, gli atti di accertamento fiscale compresi gli strumenti deflattivi del contenzioso. Recita testualmente la C.M. n.29/2011: “il diritto al rimborso di cui trattasi consegue a tutte le ipotesi in cui il rilievo divenga definitivo, e quindi anche nelle ipotesi di accertamento resosi definitivo per mancata impugnazione nei termini o per acquiescenza, nonché nei casi di accertamento con adesione o conciliazione giudiziale”.
Con la circolare n. 35/E del 20 settembre 2012 emanata dall’Agenzia delle Entrate in ordine ai quesiti posti nel corso del Modulo di aggiornamento professionale (MAP) del 31 maggio 2012, si occupa, al punto 1.4. della rettifica dell’imputazione temporale dei componenti positivi di reddito, facendo così seguito alle indicazioni fornite in ordine ai componenti negativi con la circolare n.23 del 4 maggio 2010.Infatti, in merito all’errata competenza, la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 23 del 4 maggio 2010 si riferisce ai componenti negativi di reddito, senza fornire chiarimenti sull’errata competenza dei componenti “positivi” di reddito, che presenta invece la stessa tipologia di rilievo di quelli negativi.Nella risposta al quesito la circolare rileva, anzitutto, che il contribuente non può essere lasciato arbitro della scelta del periodo cui imputare i componenti negativi di reddito, stanti i principi contenuti nell’articolo 109 del TUIR e gli innegabili riflessi che ciò comporterebbe sulla determinazione del reddito imponibile.Tuttavia, nell’ipotesi in cui nella determinazione della base imponibile delle imposte sui redditi l’ufficio accertatore abbia imputato, per competenza, un componente negativo di reddito ad un periodo d’imposta diverso da quello nel quale era stato dedotto dal contribuente, e ciò abbia comportato un fenomeno di doppia imposizione, allo stesso contribuente deve essere concessa la possibilità di recuperare la deduzione (cfr. circolare 23/E del 4 maggio 2010 e circolare 31/E del 2 agosto 2012).Precisato ciò, il documento di prassi estende i principi contenuti nella citata circolare 23/E del 2010 “anche alla ipotesi di non corretta imputazione temporale di componenti positivi, ripresi a tassazione dall’ufficio accertatore in un periodo di imposta successivo rispetto a quello in cui gli stessi componenti hanno già concorso alla determinazione del reddito. Ciò in quanto anche in tale ipotesi si realizza un fenomeno di doppia imposizione che deve essere evitato”.
19 novembre 2013
Francesco Buetto