Transfer pricing anche per il finanziamento estero infragruppo

Le regole sul transfer pricing trovano applicazione anche per quanto riguarda i finanziamenti ricevuti da una società consociata estera, con rischio di indetraibilità degli interessi passivi pagati.

Il transfer pricing – Premessa

transfer pricingSempre più spesso l’Amministrazione Finanziaria pone la sua attenzione sulle operazioni internazionali ed, in particolare, su quelle che potrebbero dar luogo a trasferimento di materia imponibile dall’Italia verso un altro paese estero.

In tale ambito rientrano i controlli sul cosiddetto transfer pricing, ovvero quelle verifiche volte ad assicurare che i prezzi di trasferimento applicati all’interno di un gruppo non siano artatamente manipolati in modo tale da “spostare” materia imponibile magari verso un Paese a fiscalità privilegiata.

L’Amministrazione Finanziaria, del resto, con la circolare 25/E del luglio scorso, con cui ha fornito i primi indirizzi operativi agli Uffici sull’attività di controllo per il 2013, ha ribadito la priorità delle verifiche in oggetto, sebbene evidenziando che l’adesione al regime degli oneri documentali, ai fini dei controlli da transfer pricing1, costituisce un comportamento, di per sé, indicativo della volontà collaborativa del contribuente e, quindi, deve essere correttamente valutata ai fini della riduzione del rischio di evasione/elusione.

In sostanza, i soggetti che hanno assolto agli oneri documentali previsti dalla normativa di settore dovrebbe essere considerati a minor rischio di evasione rispetto ai soggetti che non vi hanno provveduto. È da evidenziare, infine, che tale tipologia di controlli suggeriti dalla Direzione Centrale sono indirizzati tanto ai grandi contribuenti quanto alle medie imprese.

Per quanto generalmente l’elusione tramite le politiche dei prezzi di trasferimento venga realizzata mediante “ritocchi” sui prezzi applicati alle merci acquistate o vendute nei confronti della controparte estera, con manovre, quindi, sul fronte dei costi e dei ricavi, la pronuncia odierna pone in evidenza un’altra fattispecie che forse era stata sottovalutata: secondo la Cassazione, infatti, il transfer pricing trova applicazione anche in materia di finanziamenti tra società italiane ed estere appartenenti al medesimo gruppo.

 

Modello Ocse e normativa italiana

L’articolo 110, comma 7, del TUIR, recante la normativa sui prezzi di trasferimento, ha la finalità di consentire all’Amministrazione finanziaria un controllo dei corrispettivi applicati alle operazioni commerciali e/o finanziarie intercorse tra società collegate e/o controllate residenti in nazioni diverse, al fine di evitare che vi siano aggiustamenti “artificiali” di tali prezzi, determinati dallo scopo di ottimizzare il carico fiscale di gruppo, ad esempio canalizzando il reddito verso le società dislocate in aree o giurisdizioni caratterizzate da una fiscalità più mite.

Più precisamente, il predetto articolo 110 costituisce – in conformità con le linee guida fissate dall’art. 9 del modello di convenzione fiscale OCSE del 1995-1996 – una deroga al principio per cui, nel sistema di imposizione sul reddito, questo viene determinato sulla base dei corrispettivi pattuiti dalle parti della singola transazione commerciale (articolo 109 del TUIR).

Nelle ipotesi in cui tali corrispettivi risultano scarsamente attendibili e possono essere manipolati in danno del Fisco italiano, come nel caso degli scambi transnazionali tra soggetti i cui processi decisionali sono condizionati, poiché funzionali ad un unitario centro di interessi, i corrispettivi medesimi sono – per vero – sostituiti, per volontà di legge, dal “valore normale” dei beni o dei servizi oggetto dello scambio, qualora tale sostituzione ricada, in concreto, a vantaggio del Fisco italiano.

 

Il valore normale

Il problema, allora, diviene quello di definire quale valore normale occorra considerare ai fini accertativi. L’articolo 110, comma 7, del TUIR rinvia, a tal proposito, al precedente comma 2, il quale, a sua volta, rinvia all’articolo 9, comma 3, dello stesso TUIR.

Gli Ermellini, con la pronuncia odierna, hanno ricordato che quest’ultima disposizione, nella prima parte, definisce il “valore normale” come “il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi”; la seconda parte della medesima disposizione, poi, enuncia i criteri “per la determinazione del valore normale”, disponendo che debba farsi riferimento, a tal fine, “in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso”.

Ne discende che, tra i diversi criteri indicati dal modello OCSE del 1995, per la valuta-zione dei corrispettivi delle transazioni commerciali tra le imprese associate di un gruppo multinazionale, il legislatore italiano ha prescelto quello del “confronto del prezzo” (comparable uncontrolled price method), la cui disciplina si articola nella prima e seconda parte, summenzionate, del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, c. 3.

I Giudici del Palazzaccio hanno evidenziato, quindi, che il “valore normale” dei corrispettivi, nelle operazioni intercorse tra imprese appartenenti ad un gruppo multinazionale, non possa essere che quello (enunciato dalla seconda parte del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, c. 3, che disciplina specificamente le modalità “per la determinazione” del valore in questione) secondo cui deve farsi riferimento

“in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso”.

22La norma, in altri termini, impone all’Amministrazione di prendere in considerazione, nell’accertamento del reddito di impresa, in via principale, i “listini” e le “tariffe” del venditore dei beni o del prestatore di servizi a società dello stesso gruppo, tenuto conto anche degli sconti che il medesimo è usualmente disposto a praticare nel mercato di appartenenza. Quindi (in caso di inesistenza, di inapplicabilità, o di inattendibilità del listino o della tariffa) la medesima disposizione dispone di prendere in esame, in via subordinata, i “mercuriali” ed i “listini delle camere di commercio”, o le “tariffe professionali”.

Mentre, la definizione del “valore normale” contenuta nella prima parte del citato art. 9, c. 3 (sebbene non possa essere intesa come una mera declaratoria di principio, avendo anch’essa un innegabile valore precettivo) svolge, tuttavia, un ruolo sussidiario e suppletivo, rispetto a quello prioritario svolto dai criteri per la “determinazione” del valore normale dei prezzi per le cessioni infragruppo. Siffatta definizione opera, cioè, nel solo caso in cui il riferimento ai listini, alle tariffe ed ai mercuriali, in uso nel mercato del cedente, si riveli di nessuna utilità pratica, per la loro inesistenza, inapplicabilità, o inattendibilità.

In conclusione, nell’applicazione del metodo del “confronto di prezzo”:

  • occorre dare preferenza al c.d. confronto interno, basato sui listini e le tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi nel rapporto tra tale soggetto ed un’impresa indipendente, atteso che è ai suddetti elementi documentali di raffronto che l’Amministrazione deve anzitutto riferirsi, “in quanto possibile”, e tenuto conto di eventuali “sconti d’uso”;

  • in seconda battuta, l’Amministrazione dovrà fare riferimento alle mercuriali ed ai listini delle camere di commercio, ovvero alle tariffe professionali, nell’esame delle transazioni comparabili tra imprese indipendenti (c.d. confronto esterno) appartenenti allo stesso mercato, ossia a quello del soggetto fornitore dei beni o dei servizi;

  • infine, ed in via del tutto sussidiaria e suppletiva, l’Ufficio potrà fare ricorso – ai sensi della prima parte dell’art. 9, comma 3, succitato – al prezzo “mediamente praticato” ed in “condizioni di libera concorrenza” per beni o servizi similari, “nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi”.

 

Tasso d’interesse come discriminante elusiva

Il caso affrontato dalla Suprema Corte, con la pronuncia in commento, riguarda una Spa che aveva ricevuto un finanziamento da una società tedesca appartenente al medesimo gruppo e, quindi, aveva portato in deduzione dal reddito i relativi interessi passivi. L’Amministrazione Finanziaria, in sede di controllo sul transfer pricing, recuperava a tassazione parte di detti interessi, contestando che il tasso applicato dalla società estera fosse stato artificialmente tenuto elevato così da trasferire in Germania materia imponibile altrimenti tassata in Italia.

Più precisamente, l’Ufficio aveva verificato il valore normale del tasso di interesse relativo alla transazione intercorsa tra le due società, facendo riferimento al mercato del mutuante, e sulla base dei bollettini ufficiali della BundesBank tedesca, in conformità al disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, c. 3, seconda parte.

Sulla base di tali dati, quindi, l’Ufficio aveva accertato che il tasso d’interesse medio praticato sul mercato finanziario- creditizio tedesco, ovvero dello Stato di residenza del soggetto mutuante, era inferiore a quello adottato per l’operazione di finanziamento in commento. Da qui la ripresa a tassazione dei costi rappresentati da detti interessi, evidentemente maggiorati allo scopo di accrescere gli utili della capogruppo tedesca, diminuendo quelli della consorella italiana per sottrarli alla tassazione nazionale.

Per la Cassazione, così procedendo, l’Ufficio aveva correttamente operato in base all’anzidetto articolo 110, comma 7, del TUIR, e neppure poteva scalfire la correttezza di tale comportamento la censura sollevata dalla società per cui l’Ufficio non aveva dimostrato che in Germania vi sarebbe stato un trattamento fiscale più favorevole. Gli Ermellini, infatti, a quest’ultimo proposito, hanno stabilito che sul Fisco grava soltanto l’onere di dimostrare l’esistenza di operazioni tra imprese collegate, nonché dello scostamento evidente tra il corrispettivo pattuito ed il valore normale, non essendo tale onere esteso alla prova della funzione elusiva dell’operazione. Grava, invece, sul contribuente l’onere di dimostrare che, al contrario, il suo comportamento è stato corretto, ovvero non soltanto che i costi contestati sono esistenti ed inerenti, ma anche che la transazione in oggetto sia effettivamente avvenuta a valori inferiori a quelli di mercato.

 

30 ottobre 2013

Alessandro Borgoglio

 

 

NOTE

1 Ai sensi dell’articolo 110, comma 7, del TUIR, “I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali ‘procedure amichevoli’ previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La presente disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione di prodotti”.