le problematiche inerenti alla prassi di transfer pricing possono riguardare anche le operazioni svolte fra più imprese che operano sul territorio italiano all’interno di un gruppo.
Con sentenza n.17955 del 24 luglio 2013, la Corte di Cassazione ha confermato la sussistenza del transfer pricing domestico (interno).
Transfer pricing domestico – Il processo
La CTR della Lombardia ha rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate nei confronti della Società M., confermando il parziale annullamento dell’avviso di accertamento per maggiori imposte (IRPEG, ILOR, IVA) relative all’esercizio chiuso in data 31 dicembre 1999.
Per quanto qui interessa, a fronte del rilievo dell’antieconomicità del ricarico del 4% (in luogo di quello del 10,09%) applicato alle cessioni effettuate dalla contribuente alla controllata Società MS, il giudice d’appello ha motivato la sua decisione sotto tre profili:
a) la controllata godeva si di agevolazioni per il Mezzogiorno, ma ciò non escludeva la legittimità di politiche aziendali dirette ad agevolare ulteriormente l’espansione dell’attività nel meridione d’Italia;
b) il ricarico minimo applicato dalla controllante alla controllata bene poteva rappresentare “strumento di incremento anche occupazionale e sociale oltreché aziendale”, con esclusione di qualsivoglia intento elusivo;
c) l’intero gruppo nulla aveva evaso, avendo effettuato legittime scelte “per il decollo dell’attività in zona svantaggiata”.
Ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate, denunciando difetto di motivazione (art. 360 n.5 c.p.c.).
La sentenza
Afferma la Corte che fondatamente
“il meccanismo elusivo, contestato dall’Ufficio nei rapporti tra società italiane, è nei fatti simile a quello previsto dal TUIR, art. 76 (ora 111), per i rapporti di controllo tra società residenti nello Stato e società non residenti, secondo il generale principio del valore normale di mercato (art. 9), quale spia dell’intento elusivo dinanzi a comportamenti antieconomici del contribuente”.
Nella specie,
“ gli snodi probatori, addotti sul piano logico e circostanziale a giustificazione della ripresa a tassazione, sono stati effettivamente del tutto trascurati dal giudice d’appello nello scarno apparato argomentativo della decisione di secondo grado”.
In particolare, osserva la Corte,
“si riscontrano sia l’omesso esame dell’ andamento degli utili della controllante e della controllata negli anni 1998/2001, sia l’omessa valutazione del ricarico del 6,57% che, riconosciuto nel ricorso introduttivo come il minimo economicamente gratificante, era si inferiore a quello indicato dall’Ufficio ma comunque superiore a quello (4%) concretamente applicato dalla Soc, M. alla Soc. M.S. (controllata al 100%), prima della sua incorporazione nel 2002”.
E dunque, “mancando finanche graficamente qualsivoglia esame motivazionale dei rilievi del Fisco, il primo motivo va accolto”.
Con il secondo motivo, denunciando la violazione dell’art. 9 c. 3 TUIR, la ricorrente fondatamente sostiene che, con la laconica affermazione “l’intero gruppo nulla ha evaso”, la CTR “non ha tenuto conto che il criterio legale del valore normale delle operazioni infragruppo rileva non solo nei rapporti internazionali di controllo, ma anche in analoghi rapporti di diritto interno, ogniqualvolta con la fissazione di un prezzo fuori mercato si miri a far emergere utili presso la società del gruppo che sconta, anche per agevolazioni territoriali, la più bassa tassazione”.
Siamo in presenza, nel caso di specie, di manovre sui prezzi di trasferimento interni, vere e proprie operazioni elusive, “motivate dalla convenienza, in ambito nazionale di trasferire la materia imponibile, agendo sui prezzi negoziati per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi ‘intercompany’. Si tratta del fenomeno del cd. ‘transfer pricing domestico’”.
Lo strumento, osserva ancora la Corte di Cassazione,
“é normalmente utilizzato da società controllanti o collegate, con sede nei territori del Centro-Nord, che cedono merci o beni immateriali alle controllate o consociate aventi sede nel Mezzogiorno ad un prezzo inferiore al valore normale così come definito dall’art. 9 cit. Tali manovre, secondo le determinazioni dell’amministrazione finanziaria, consentono di realizzare una contrazione dell’utile per l’impresa settentrionale con reddito assoggettato alle aliquote ordinarie e di ‘gonfiare’ l’utile dell’impresa meridionale che gode delle agevolazioni fiscali stabilite dall’art. 26 d.p.r. 601/73 (Circolare del 26/02/1999 n. 53)”.
In sintesi,
“ i attuano in ambito nazionale le medesime forme di politiche sui prezzi, attuate assai di frequente in ambito internazionale mediante transazioni infragruppo inferiori (o superiori) al loro valore normale, onde spostare l’imponibile presso le imprese associate che, nei rispettivi territori, godono di esenzioni fiscali e subiscono minore tassazione”.
Se la specialità della disciplina nazionale sul “transfer pricing esterno o internazionale”, fa sì che l’art. 110 TUIR (ex art. 76) non possa di per sé stesso trovare applicazione diretta al “transfer pricing interno o domestico” (cfr. anche Circ. cit.),
“tuttavia, si è ritenuto che la disciplina che regola il “transfer pricing internazionale”, secondo cui i componenti di reddito derivanti da operazioni ‘intercompany’ con società non residenti sono valutati in base al ‘valore normale’ dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti, determinato ex art. 9 cit., costituisce una clausola antielusiva che non solo trova radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto, ma anche immanenza in settori del diritto tributario nazionale (C. 22023/06)”.
Inoltre,
“vale sempre il principio cardine secondo cui, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia e privo di adeguata spiegazione, è legittimo l’accertamento del fisco (art. 39 d.p.r. 600/73 e art. 54 d.p.r. 633/72; cfr. C. 1821/01, 10802/02, 23634/08; v. sull’antieconomicità delle percentuali di ricarico C. 20832/05, 21575/05, 23183/05, 1546/07 e, riguardo all’IVA, C. 26167/11)”;
giustificazione che dovrà ricadere sul versante delle valide ragioni economiche, nella prospettiva di togliere ai vantaggi fiscali “sistematici” la patina di elusività.
In via di principio,
“non si può escludere che considerazioni di strategia generale inducano le imprese a compiere operazioni di per sé stesse antieconomiche in vista ed in funzione di altri benefici. Tuttavia occorre che le varie operazioni rispondano a criteri di logica economica, i quali, a loro volta, devono essere funzionali a meccanismi di mercato in regime di libera concorrenza (‘arm’s lenght principle’), giammai a elementi distorsivi del mercato e della concorrenza. Sicché la finalità di risparmio non può attuarsi semplicemente attraverso l’elusione degli oneri fiscali (C. 10802/02)”.
Ciò introduce il tema del divieto di abuso del diritto,
“che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Tale principio, da un lato, trova fondamento in radici comunitarie a salvaguardia delle risorse proprie dell’UE e nei principi costituzionali di capacità contributiva e imposizione progressiva; dall’altro dall’altro, non contrasta con il principio dall’altro, non contrasta con il principio della riserva di legge, traducendosi nel disconoscimento di effetti abusivi di negozi posti in essere allo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali (cfr., sui tributi non armonizzati, S.U. 30055/08 e, sull’IVA, C. 6880/09 e 4503/09; v. anche C.G., 9 giugno 2011, n. 285, sul prezzo normale di mercato tra soggetti collegati)”.
Ne deriva che,
“per la valutazione fiscale di varie prestazioni, costituenti anche componenti attive e passive del reddito, deve essere applicato il principio, di carattere generale, stabilito dall’art. 9 cit., che non ha soltanto valore contabile, e che impone quale criterio valutativo il riferimento al normale valore di mercato per i corrispettivi presi in considerazione dalla parte contribuente (C 10802/02). Né vale, di per sé stesso, invocare una peculiare scontistica infragruppo, poiché gli sconti ammessi sono solo quelli per le operazioni concluse “in condizioni di libera concorrenza”, ovverosia per le operazioni economiche concluse con soggetti estranei al proprio gruppo economico (cfr. C. 7343/11 sull’art. 9 TUIR)”.
Conclusivamente, la Corte accoglie anche il secondo motivo e, in ordine ad esso, formula il seguente principio di diritto:
“Per la valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, costituenti il cd. ‘transfer pricing domestico’, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’ art. 9 del d.p.r. n. 917 del 1986, che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente”.
Il transfer price interno
La sentenza appena pubblicata ci consente di esaminare la problematica del transfer pricing.
Da un paio di anni a questa parte, nella generale consapevolezza che la congruità dei prezzi di trasferimento riguardi anche i “rapporti interni”, il Fisco, per relationem, sta tentando di trasferire i principi espressi dall’art. 110, comma 7, del T.U. n.917/86 anche nell’ipotesi di rapporti fra società residenti, facenti parte dello stesso gruppo.
Il predetto fenomeno1, pur non essendo espressamente disciplinato dal legislatore tributario, è stato oggetto di attenzione da parte dell’Amministrazione finanziaria (circolare n.53/99, peraltro richiamata nella sentenza della Cassazione in commento), la quale, dopo aver escluso l’applicabilità della normativa sui prezzi di trasferimento e quella in materia di elusione fiscale contenuta nell’art. 37-bis del Dpr 600/1973, ha riconosciuto la possibilità di ricorrere all’accertamento analitico-induttivo, ai sensi dell’art. 39, c. 1 lett. d, del Dpr 600/1973, e all’interposizione, disciplinata nell’art. 37, c. 3, del Dpr 600/1973, al fine di contrastare i predetti comportamenti elusivi.
La circolare n. 53/1999 ha precisato che lo strumento può essere utilizzato da società controllanti o collegate, con sede nei territori del Centro-Nord, che cedono merci o beni immateriali alle controllate o consociate aventi sede nel Mezzogiorno ad un prezzo inferiore al valore normale così come definito dall’art. 9 del D.P.R. 917/86.
Tale manovra consente di realizzare una contrazione dell’utile per l’impresa settentrionale con reddito assoggettato alle aliquote ordinarie e di “gonfiare” l’utile dell’impresa meridionale che gode delle agevolazioni fiscali stabilite dall’art. 26 del D.P.R. n. 601/73.
In effetti, attraverso la manovra della “sottofatturazione”, l’alienante trasferisce quote utili all’acquirente ma resta titolare effettivo del reddito in qualità di controllante o collegata e, in sede di distribuzione di dividendi, può attribuirsi dette quote, non tassate.
Nell’ipotesi che il ricorso alle suddette norme risultasse di difficile praticabilità, occorrerà valutare la possibilità di suggerire proposte normative finalizzate a prevedere l’estensione dell’applicazione del citato art. 110, c. 7, TUIR anche alle società residenti.
Potrebbe risultare più agevolmente perseguibile la riconduzione degli “sconti” praticati fra i ricavi, ossia costruire la fattispecie come negozio misto di vendita (per la parte coperta da corrispettivo) e donazione (dunque elargizione gratuita), con la possibilità di ripresa a tassazione della differenza2.
Appare opportuno ricordare che l’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 305/E del 17.9.2002, nel rispondere ad una specifica istanza di interpello con la quale si chiedeva di sapere se la costituzione di una società di capitali, la cui attività consista nello svolgimento di prestazioni accessorie all’attività professionale sia configurabile o meno come una ipotesi di interposizione fittizia, ha evidenziato che “occorre avere riguardo alle specifiche modalità organizzative che verranno adottate ed in particolare ai rapporti contrattuali che verrebbero configurati tra professionista e società di servizi e tra questa e i terzi (clienti, fornitori, dipendenti)”, risultando
“evidente, infatti, che l’ipotesi di interposizione fittizia non può escludersi nel caso in cui le due sfere di attività non risultino definite con chiarezza sotto il profilo organizzativo ed operativo-contabile”.
L’unica ragione economica data dalla ristrutturazione organizzativa, che determinerebbe la convenienza fiscale all’operazione,
“in assenza di altri elementi attinenti ai profili organizzativi di svolgimento dell’attività societaria, induce a ritenere che l’operazione non assume i contorni di una semplice programmazione fiscale ma si traduce in un comportamento finalizzato a realizzare un risparmio fiscale non giustificato da una corrispondente realtà economica e, pertanto, la costituzione della società di capitali configura una ipotesi di interposizione fittizia nello svolgimento dell’attività economica della professionista istante”3.
Sempre sui rischi di elusione è intervenuta la Direzione regionale dell’Emilia Romagna, di cui si è gia occupata la stampa specializzata4, che ha riportato un estratto del pensiero espresso5, secondo cui
“in linea teorica, non si esclude che, nel caso di soggetti residenti, l’amministrazione possa, in sede di accertamento, ricorrere al concetto di valore normale per rettificare il reddito imponibile ma, in tal caso, non si può attribuire alla suddetta valutazione rilevanza di presunzione assoluta.
Da quanto sopra, consegue che in relazione alla fattispecie prospettata dal signor XXX non trovi applicazione il disposto del comma 5, dell’art.76 del dpr 917/86, in quanto entrambi i soggetti economici sono residenti nel territorio dello stato.
Sarà, peraltro, cura dell’amministrazione finanziaria controllare, ai sensi del citato art. 39, la correttezza delle scritture contabili anche in relazione alle operazioni intercorse tra il professionista e la Società di servizio e procedere a eventuali rettifiche, qualora ne sussistano i presupposti”.
La dottrina6 non ha mancato di mettere in luce che
“forte del principio generale secondo cui le imposte reddituali sono determinate in base al prezzo effettivo pattuito tra le parti, l’Agenzia regionale esclude, senza mezzi termini, la legittimità di una verifica che metta in discussione la congruità dei costi sostenuti dal professionista istante, in assenza dei requisiti oggettivi e soggettivi cui è subordinato l’impiego del valore corrente, in deroga a tale principio…
Secondo tale impostazione, il valore corrente della transazione conclusa tra contraenti entrambi residenti e comunque legati da rapporti di cointeressenza, rappresenta, dunque, un mero parametro per controllare l’esistenza di eventuali artificiose manovre sui corrispettivi contabilizzati, indubbiamente riscontrabili qualora: sussista, in concreto, un’ingiustificata e abnorme sproporzione rispetto ai prezzi comunemente praticati all’epoca dei fatti, nel luogo geografico in cui operano detti contraenti, per beni o servizi similari a quelli scambiati (cfr. Cass., Sez.Trib., 24/7/2002, n.10802); almeno uno dei soggetti coinvolti nell’operazione usufruisca di regimi fiscali da favore (cfr. CM 26/2/1999, n.53/E)”.
“L’intento elusivo perseguito dal contribuente può essere individuato: in una serie di atti la cui sequenza appaia anomala in relazione al risultato economico cui essi sono stati preordinati, o caratterizzata dall’assenza di una qualsiasi plausibile ragione non fiscale della loro concatenazione; dalla sussistenza di un’interdipendenza funzionale tra le singole operazioni che, apparentemente autonome e casuali nella loro successione, perseguono nella sostanza uno scopo unitario7”.
Il documento di prassi del 2002 è stato criticato da una parte della dottrina8, secondo cui nell’ipotesi della costituzione della solita società di servizi di appoggio al commercialista
“il discorso delle valide ragioni economiche ( tipico della materia elusiva) nel caso dell’interposizione fittizia ( vale a dire nel caso della creazione di un soggetto intermedio e fittizio tra la fonte del reddito e il contribuente reale) deve avere una taratura assai resistente per non cozzare contro il rilievo che l’organizzazione della propria attività professionale/imprenditoriale, anche sotto il profilo della sua programmazione fiscale, non può non avere margini di libertà ampi.
Altrimenti si potrebbe verificare una situazione di non conformità alle norme costituzionali e comunque alle regole che garantiscono la libera esplicazione dell’autonomia privata, specie sotto il profilo della libertà d’intrapresa economica”.
Altra dottrina di rilievo9,
“sebbene sia vero che eseguire alcune attività diverse da quelle intellettuali protette a una società anziché svolgerle nell’ambito dell’attività professionale potrebbe avere una convenienza fiscale … ritiene sia scorretto asserire che ciò comporta la divisione del reddito prodotto. Infatti in tale eventualità il reddito è prodotto usufruendo di una delle forme giuridiche previste dal codice civile per poter svolgere una delle attività economiche indicate dall’art.2195 del codice civile nell’ottica di una sana pianificazione fiscale che porta a preferire, tra quelle disponibili, la veste giuridica più conveniente dal punto di vista fiscale.
Difendere la risoluzione n.305/02 significa dichiarare che tutti coloro che svolgono più di un’attività non possono svolgerne alcune in comune attraverso la costituzione di società se da ciò emerge un vantaggio fiscale o un frazionamento del reddito”.
La risoluzione diramata dalla Entrate, a nostro avviso, va difesa perchè legittima, coerente, e in linea con la normativa vigente, dal momento che, al di là della possibile costituzione a latere del professionista di una società di servizi, occorre rifarsi ai principi fiscali e civili, cioè la prestazione va fatturata dal soggetto che realmente ha effettuato il servizio.
Il problema, a nostro avviso, sta tutto lì: il rischio di commistione fra attiva societaria e attività professionale. Di tutto ciò non si ha traccia nell’istanza; anzi, la parte, in maniera quasi candida, ammette che l’unico motivo per cui si sta mettendo in piedi questa struttura societaria è la “ convenienza fiscale”.
La stessa dottrina che si è espressa criticamente10 nei confronti del pensiero dell’Agenzia riconosce che la risoluzione
“va letta in controluce, in quanto le conclusioni formulate sono state determinate dal tenore del quesito … e la risoluzione ammette che, ove vi siano rapporti contrattuali ben definiti ( tra il professionista e la società e tra costo e i clienti) e vi siano una struttura organizzativa ( si pensi alla distribuzione dei locali e all’articolazione del personale) e patrimoniale ( per esempio, la coerente ripartizione dei cespiti tra l’una e l’altra struttura) ben individuate e specifiche, viene meno il sospetto che la società sia creata a fini meramente fiscali”.
Rileviamo che un importante punto segnato a favore dell’Amministrazione Finanziaria proviene dalla CTP di Firenze (sentenza n. 66/11/08 del 18 settembre 2008) che ha avallato il recupero dell’ufficio basato su un illecito transfer pricing (interno), avvenuto per comprimere il reddito delle singole consorziate per fini meramente fiscali, pianificando una collocazione ottimale delle componenti reddituali (positive o negative), che permettesse una riduzione del carico fiscale della società a regime fiscale più svantaggioso.
Tramite transazioni antieconomiche, come quella oggetto di esame da parte dei giudici fiorentini, si realizza infatti un vero e proprio abuso del diritto ( cfr. anche Ctp di Milano 577/1998, Ctc 3286/1992, Corte di appello di Venezia 816/1991). Per i giudici di Firenze
“è pacifico che gli ex dipendenti del Consorzio…hanno continuato ad occuparsi della contabilità del Consorzio e delle partecipate; a fronte di tali prestazioni … la società consorziata non ha fatturato alcunché…, accollandosi per intero anche il costo del personale che ha svolto invece attività a favore di altra società…
Il passaggio del personale … pertanto fa presumere che le due società, in un’ottica di esclusivo risparmio fiscale, abbiano trasferito il costo del personale amministrativo su quella che presenta un trattamento tributario degli utili più svantaggioso, cioè su quello che presenta la forma della spa, avendo ben presente il regime agevolato di tassazione degli utili conseguiti dalla società cooperativa…”.
Aggiornamenti:
24 settembre 2013
Gianfranco Antico
NOTE
1 Cfr. MICHELI, Transfer pricing interno: traslazione del reddito tra tipi diversi di società, in“il fisco”, n. 13/2000, pag. 3561.
2 Pur se minoritaria, si segnala che la Commissione tributaria di Milano, Sez. I, con la sentenza n. 588 del 28.10.1997, depositata il 18.3.1998, per una ipotesi di accertamento nei confronti di una società italiana, facente capo ad un grosso gruppo petrolifero, dove l’ufficio recuperava, fra l’altro, minori ricavi contabilizzati in seguito a cessioni di petrolio ad altra società residente, appartenente al gruppo, ad un prezzo inferiore a quello di acquisto, ha disatteso la tesi dell’ufficio che sosteneva che il riferimento al criterio normale costituisce un principio di carattere generale per le valutazioni delle cessioni di beni, senza che per questo si possa parlare di ingerenza o sindacabilità delle scelte aziendali, affermando che il ricorso al criterio del valore normale risulta possibile soltanto se il Fisco sia in possesso di elementi atti a comprovare che i corrispettivi dichiarati siano inferiori a quelli effettivamente conseguiti, fermo restando la sussistenza di presunzioni gravi, precise e concordanti.
3 Per un suo articolato commento si rinvia a CARPENTIERI, La risposta troppo stringata lascia quesiti insoluti, in “Guida normativa”, del 25.9.2002, pag. 22.
4 Cfr. “ItaliaOggi”, del 15.4.2003.
5 Per un suo commento si rinvia a ROMANO- SCALABRINI, Società di servizi, ok alle deduzioni, in “Italia Oggi”, del 15.4.2003.
6 Cfr. ROMANO-SCALABRINI, Società di servizi, ok alle deduzioni, in “Italia Oggi” del 15.4.2003.
7 Cfr. CARRIROLO, Elusione e norme antielusione: novità, schemi e ipotesi, “il fisco” n. 30/ 2004, fasc. n. 1, pag. 4695.
8 Cfr. BUSANI, Srl di servizi, rischio elusione, in “Il Sole 24 ore”, edizione del 18.9.2002, pag. 29.
9 Cfr. CARPENTIERI, La risposta troppo stringata lascia quesiti insoluti, in “Guida normativa” del 25.9.2002, pag. 22.
10 Cfr. BUSANI, Srl di servizi, rischio elusione, “Il Sole 24 ore”, edizione del 18.9.2002, pag. 29.