Il Fisco italiano ha riqualificato una serie di operazioni di compravendita di un marchio aziendale che prevedevano la cessione in paesi a fiscalità privilegiata ed il successivo riacquisto a prezzi superiori.
Operazioni sul marchio e abuso del diritto
Con la sentenza n. 12282 del 20 maggio 2013 (ud 21 marzo 2013) la Corte Cassazione ha ritenuto abuso del diritto ovvero comunque antieconomica la cessione del marchio e il successivo utilizzo a prezzo superiore.
L’operazione contestata era relativa alla cessioni di due marchi, effettuata nell’anno 2004 verso un corrispettivo di Euro 200.000, a fronte di costi (royalties), di gran lunga maggiori, immediatamente dopo sopportati per il relativo utilizzo e sfruttamento (complessivi Euro 1.336.402 di cui Euro 900.986 nel 2005 ed Euro 435.416 nel 2006).
La sentenza
La Corte richiama e fa propri una serie di principi già affermati in precedenti pronunce.
a) “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’ufficio finanziario ha il potere di accertare la sussistenza della eventuale simulazione di un contratto in grado di pregiudicare il diritto dell’amministrazione alla percezione dell’esatto tributo, senza la necessità di un preventivo giudizio di simulazione, spettando poi al giudice tributario, in caso di contestazione, il potere di controllare ‘incidenter tantum’, attraverso l’interpretazione del negozio ritenuto simulato, l’esattezza di tale accertamento, al fine di verificare la legittimità della pretesa tributaria” (Cass. n. 11676/2002).
b) “In tema di imposte sui redditi, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d); ad un tale riguardo il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie” (Cass. nn. 10802/2002, 7680/2002, 1821/2001, 7871/2012), e, d’altronde, prosegue la Corte, “per consolidato orientamento giurisprudenziale in presenza di un legittimo accertamento induttivo e, quindi, della connessa prova presuntiva, incombe sulla parte contribuente l’onere di dedurre e provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa fiscale (Cass. n. 19174/2003; n. 17016/2002; n. 14505/2001)”.
c) Costituisce ius receptum secondo cui è configurabile l’omessa motivazione della sentenza, “quando il giudice di merito omette di indicare nella sentenza gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logico-giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento (Cass. n. 890/2006, n. 1756/2006, n. 2067/1998, n. 12664/2012, n. 3370/2012)”.
d) Le Sezioni Unite (Cass. sent. n. 30055/2008), hanno, poi, fissato il principio secondo cui
“Nel processo tributario, pur essendo l’oggetto del giudizio delimitato dalle ragioni poste a fondamento dell’atto di accertamento, il tema relativo all’esistenza, alla validità ed all’opponibilità all’Amministrazione finanziaria del negozio da cui si assume che originino determinate minusvalenze deve ritenersi acquisito al giudizio per effetto dell’allegazione da parte del contribuente, il quale è gravato dell’onere di provare i presupposti di fatto per l’applicazione della norma da cui discende l’invocata diminuzione del reddito d’impresa imponibile: ne consegue, anche in ragione dell’indisponibilità della pretesa tributaria, la rilevabilità d’ufficio delle eventuali cause di invalidità o di inopponibilità del negozio stesso, sempre che ciò non sia precluso, nella fase di impugnazione, dal giudicato interno eventualmente già formatosi sul punto o (nel giudizio di legittimità) dalla necessità di indagini di fatto” (Cass. nn. 30056/2008, 30057/2008, 20398/2005).
e) La medesima Corte nella circostanza ha, anche, precisato che
“In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione” (Cass. nn. 30055/2008, 30057/2008, 7343/2011, 12622/2012).
Sulla base dei superiori principi,
“avuto riguardo al fatto che l’illogicità e manifesta antieconomicità delle operazioni effettuate dalle contribuenti, con la cessione dei marchi e l’immediato successivo riacquisto degli stessi, sulla base di prezzo esageratamente più elevato, offrivano concreti elementi per indurre a ritenere legittimo il ricorso al particolare metodo di accertamento utilizzato nel caso e che, quindi, per poter annullare l’accertamento, i Giudici di merito avrebbero dovuto specificare, sulla base di una complessiva valutazione degli elementi in atti e di valide argomentazioni, le ragioni per le quali l’evidente antieconomicità delle operazioni, poste in essere dalle contribuenti, non costituiva sintomo di violazioni di disposizioni tributarie”.
Rileva la Corte, altresì, che la CTR, per giustificare l’economicità delle operazioni, si è limitata a condividere acriticamente la deduzione delle contribuenti, secondo cui nel 2004 vi sarebbe stata una “contraffazione dei marchi”, che “ne aveva ridotto il valore” in modo tale da giustificarne la vendita per il prezzo esposto in contabilità, senza però considerare che:
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l’argomentazione utilizzata si rivelava palesemente incongrua, giacchè sul piano della coerenza logica, si poneva in insanabile contrasto con la pacifica circostanza, che già nell’anno successivo (2005) a quello della cessione dei marchi (2004), le contribuenti, per il mero utilizzo degli stessi, nel solo ambito territoriale di Italia, San Marino e Vaticano, hanno dichiarato di avere affrontato costi pari quasi a cinque volte (Euro 900.986), il prezzo realizzato dalla vendita (Euro 200.000), appena un anno prima;
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che la cessione dei marchi era stata effettuata a favore di una società Svizzera, costituita appena da un mese, del cui consiglio di amministrazione faceva parte un commercialista, consulente delle contribuenti; che detta società Svizzera, aveva subito dopo trasferito i diritti di sfruttamento dei marchi ad altra società di diritto Irlandese, della quale era rappresentante legale una persona di età giovanissima (18 anni), la quale ne aveva, quindi, disposto in favore delle contribuenti, nei limiti e per il corrispettivo anzi indicati.
Il principio, quindi, espresso dalla Corte è il seguente:
“il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, in virtù del quale restava precluso alle contribuenti il conseguimento di vantaggi fiscali, ove ottenuti, come nel caso, mediante l’uso distorto, di strumenti giuridici, – quali la cessione a terzi di marchi a prezzo ridotto e l’immediato successivo acquisto, verso un corrispettivo annuale di gran lunga maggiore, del mero diritto di sfruttamento parziale, – idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici fiscali”.
1 luglio 2013
Francesco Buetto