La sentenza d'appello motivata per relationem

la motivazione per relationem di una sentenza richiede che siano rispettati determinati requisiti, in particolare che il giudice illustri la condivisione degli argomenti che inserisce per relationem

Con sentenza n. 3340 del 12 febbraio 2013 la Corte di Cassazione ha affermato che “la motivazione di una sentenza può essere redatta per relationem rispetto ad altra sentenza, purché la motivazione stessa non si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento: occorre che vengano riprodotti i contenuti mutuati, e che questi diventino oggetto di autonoma valutazione critica, in maniera da consentire poi anche la verifica della compatibilità logico-giuridica dell’innesto motivazionale (Cass., SS.UU., 4.06.2008 n. 14814)”.

Pertanto, “il rinvio per relationem al disposto di altra sentenza è perfettamente legittimo e giustificato da una economia di scritture, ma il Giudice rinviante non può limitarsi ad un generico richiamo, come nel caso di specie, ma deve citarne i contenuti o riportarne i passaggi fondamentali. Nel caso in cui come nella fattispecie, il rinvio venga effettuato con riferimento ad una sentenza di merito, relativa di un altro processo, (quindi non sempre facilmente reperibile a differenza delle sentenze della Cassazione), senza alcuna motivazione al riguardo, ad una sentenza di altra Commissione tributaria con la sola indicazione del numero della sentenza e dell’anno, ma senza la indicazione della sezione (in quanto la numerazione delle sentenze tributane di merito viene operata per ciascuna sezione e non per Commissione) deve ritenersi doppiamente illegittimo, posto che il ricorrente non può essere obbligato alla ricerca di documenti extraprocessuali”.

 

Brevi considerazioni

Come è noto, in ordine alla legittimità o meno delle sentenze motivate per relationem, con sentenza n. 14814 del 19 febbraio 2008 (dep. il 4 giugno 2008) la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (peraltro richiamata nella sentenza che si annota) ha risolto la questione, che aveva già visto precedenti e difformi pronunciamenti, affermando che la motivazione di una sentenza può essere redatta per relationem ad altra sentenza, purché la motivazione stessa non silimiti alla mera indicazione della fonte di riferimento, occorrendo la riproduzione dei contenuti mutuati, e che questi diventino oggetto di autonomavalutazione critica nel contesto della diversa (anche se connessa) causa sub iudice, in maniera da consentire anche la verifica della compatibilitàlogico-giuridica dell’innesto, fermo restando, preliminarmente, che quando siano pendenti più processi aventi ad oggetto questioni connesse, il giudice deve utilizzare gli istituti processuali tenendo conto della esigenza di evitare giudicati contraddittori, ma anche di garantire il rispetto dei principi del giusto processo, con riferimento al diritto al contraddittorio e alla ragionevole durata del processo, del diritto di difesa e del diritto alla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, presupposto indefettibile, quest’ultimo, “per il controllo etero ed endoprocessuale dei provvedimenti stessi e corollario del principio di legalità dello Stato di diritto”.

Per le Sezioni Unite, la mancanza di una autonoma ed esauriente motivazione, non consente il controllo di legittimità sull’operato del giudice (criteri di valutazione degli elementi probatori adottati, regole ermeneutiche applicate, logica della decisione) che è l’unico possibile controllo sul corretto esercizio della giurisdizione in uno Stato di diritto. D’altra parte, non si può richiedere il rispetto del principio dell’autosufficienza delle impugnazioni se la sentenza impugnata non è, a sua volta, autosufficiente.

La Corte, quindi, conferma l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, secondo il quale quando la motivazione di una sentenza si limiti a rinviare ad altra motivazione, in maniera che non sia possibile individuare le ragioni che stanno a fondamento del dispositivo la sentenza è nulla.

La motivazione deve essere “autosufficiente“, nel senso che dalla lettura della stessa, e non aliunde, deve essere possibile rendersi conto delle ragioni di fatto e di diritto che stanno a base della decisione.

La motivazione di una sentenza può essere redatta per relationem rispetto ad altra sentenza, purché la motivazione stessa non si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento: occorre che vengano riprodotti i contenuti mutuati, e che questi diventino oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa (anche se connessa) causa sub iudice, in maniera da consentire poi anche la verifica della compatibilità logico-giuridica dell’innesto“.

Infine, sul piano sistematico, la tesi che la ratio decidendi si debba sempre poter ricavare, in maniera espressa ed autosufficiente, dalla motivazione della sentenza trova un preciso riscontro legislativo nell’art. 12, c. 7, della L. n. 212/2000. E “sarebbe assurdo ipotizzare che la chiarezza ed esaustività che si pretendono in sede amministrativa, vengano meno nella sede giudiziaria, nella quale le garanzie del contraddittorio e della difesa (che la norma citata intende garantire fin dalla fase delle procedure amministrative di accertamento) sono tutelati con norme costituzionali”.

Si rileva che, successivamente, con sentenza n. 9537 del 29 aprile 2011 (ud. del 16 febbraio 2011) la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità della motivazione per relationem della sentenzapronunciata in sede di gravame, purchè il giudice d’appello, facendoproprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modosintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motividi impugnazione proposti, così che il percorso argomentativo desumibileattraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto.È consolidato indirizzo di questa Corte (Cass. nn. 890/2006, 1756/2006, 2067/1998) che “ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice di merito omette di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento”. Di poi ha ritenuto (Cass. nn. 2268/2006, 1539/2003, 6233/2003, 11677/2002) che è “legittima la motivazione ‘per relationem‘ della sentenza pronunciata in sede di gravame, purchè il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto. Deve viceversa essere cassata la sentenza d’appello allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che alla affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame”.

E ancora con l’Ordinanza n. 10490 del 30 aprile 2010 (ud. del 17 febbraio 2010) la Corte di Cassazione ha affermato che la decisione pronunciata in appello non incorre nel vizio di carenza, inesistenza o apparenza di motivazione subordinatamente alla condizione che, attraverso il rinvio al contenuto della sentenza del primo giudizio, il giudice chiarisca, anche sinteticamente, i motivi per i quali intende condividere le conclusioni della sentenza gravata garantendo l’esposizione di un iter logico giuridico sufficientemente argomentato, anche per il tramite dell’integrazione delle due decisioni. Risponde, infatti, ad un orientamento consolidato in giurisprudenza di legittimità “che la motivazione per relationem della sentenza pronunziata in sede di gravame è legittima purchè il giudice di appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima sia pur sinteticamente le ragioni della conferma della pronunzia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto; sicchè deve essere cassata la sentenza d’appello quando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che alla affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di impugnazione (v. Cass., 14/2/2003, n. 2196, e, da ultimo, Cass., 11/6/2008, n. 15483)”.

Ed ancora, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20032 del 30 settembre 2011 (ud. del 6 luglio 2011) ha cassato la sentenza di secondo grado che, nel testo della motivazione, fa riferimento atalune sentenze della Corte, indicando i principi affermati, senza alcun collegamento concreto con le fattispecie in esame. È consolidato indirizzo di questa Corte (Cass. nn. 890/2006, 1756/2006, 2067/1998) che “ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice di merito omette di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento”. Di poi ha ritenuto (Cass. nn. 2268/2006, 1539/2003, 6233/2003, 11677/2002) che è “legittima la motivazione ‘per relationem’ della sentenza pronunciata in sede di gravame, purchè il giudice d’appello,facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto. Deve viceversa essere cassata la sentenza d’appello allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che alla affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame”.

Rileva l’estensore della sentenza che il pronunciamento di secondo grado “disattende il superiore insegnamento,giustificando la decisione con affermazioni apodittiche e riferimenti esemplificativi ai processi verbali, senza indicarne i contenuto. Non è dato sapere dalla sentenza chi siano i ‘terzi’, le cui dichiarazioni sono state poste a base degli accertamenti e che possono, secondo la giurisprudenza che sarà esaminata in seguito, costituire legittime fonti di prova”.

E ancora, con la sentenza n. 26504 del 12 dicembre 2011 (ud. 21 settembre 2011), la Corte di Cassazione ha accolto le doglianze dell’Agenzia delle Entrate, tese a negare, nel caso di specie, la sussistenza di una motivazione per relationem nella sentenza appellata. Facendo proprio il costante insegnamento della Suprema Corte, nella sentenza che si annota, i giudici affermano che “la motivazione per relationem della sentenza di appello è legittima purchè il giudice del gravame, facendo proprie le argomentazione di quello di prima istanza, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, di guisa che il percorso argomentativo, desumibile dal raffronto tra le parti motive di entrambe le sentenze, risulti appagante e corretto, in conformità al modello di sentenza prefigurato dal disposto dell’art. 132 c.p.c., n. 4. Tale correttezza del percorso motivazionale non può, per contro, essere ritenuta da questa Corte laddove il giudice di appello si limiti ad una laconica motivazione, formulata in termini di mera adesione alla motivazione dell’impugnata sentenza. E’ fin troppo evidente, infatti, che in siffatta ipotesi non è in alcun modo possibile inferire che alla condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto sulla base dell’esame dei motivi di gravame, e di una valutazione di infondatezza degli stessi (Cass. 2268/06, 15483/08, 18625/10, 11138/11)”. Nel caso sottoposto alla Suprema Corte, “l’impugnata sentenza ha addirittura letteralmente trascritto la motivazione della decisione di prime cure, come si evince dal riferimento – contenuto in più punti della decisione di appello – ai motivi di ricorso del contribuente ed alle controdeduzioni dell’Ufficio, anzichè ai motivi di appello proposti dall’amministrazione finanziaria. Ed è certamente significativo che la CTR – a p. 2 della decisione, a chiusura della parte narrativa della motivazione – abbia testualmente riportato la seguente affermazione: ‘chiede l’Ufficio che il ricorso venga rigettato perchè infondato’; laddove, rivestendo l’amministrazione finanziaria la qualità di appellante, la stessa non avrebbe logicamente potuto concludere per il rigetto del proprio ricorso in appello. Ma vi è di più. Il dispositivo dell’impugnata sentenza addirittura reca la pronuncia di accoglimento del ricorso della contribuente (‘la Commissione accoglie il ricorso e dichiara compensate le spese’), anzichè quella di rigetto dell’appello proposto dall’amministrazione finanziaria. Sicchè è di palmare evidenza che la CTR, men che motivare per relationem la propria decisione, mediante richiamo a quella emessa in prime cure, si è limitata a riprodurre pedissequamente quest’ultima, senza effettuare esame alcuno dei motivi di appello proposti dall’Agenzia delle Entrate, che – in verità – non risultano neppure menzionati nella sentenza di appello”. L’esame della pronuncia di primo grado, nell’ambito e nei limiti dei motivi di gravame risulta pertanto ristretta, nel caso di specie, alla seguente laconica ed apodittica affermazione: “la decisione della Commissione di primo grado appare logica, conforme a diritto e non deve perciò essere modificata“.

E da ultimo, con la sentenza n. 15249 del 12 settembre 2012 (ud. 12 luglio 2012) la Corte di Cassazione ha fissato dei limiti al rinvio, in sentenza, alla motivazione di altro giudice. Secondo il costante insegnamento della Corte Suprema, la motivazione per relationem della sentenza pronunciata in sede di gravame è da reputarsi legittima, “purchè il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto. Il ricorso alla motivazione suindicata deve, viceversa, ritenersi illegittimo, con conseguente cassazione della sentenza di seconde cure, allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che all’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass. 15483/08, 18625/10, 11138/11)”. Nel caso di specie, “a fronte degli specifici e dettagliati motivi di appello, regolarmente trascritti nel ricorso, ai fini della autosufficienza, e mirati a contestare, in maniera del tutto analitica, ciascuno dei rilievi operati dall’Ufficio – l’impugnata sentenza si è limitata ad operare un secco e laconico, nonché apodittico, riferimento alle conclusioni cui è pervenuta la decisione di prime cure, senza premurarsi di specificare le ragioni per le quali tali conclusioni siano da condividere, e senza spendere neppure una parola in ordine alle consistenti censure mosse dalla contribuente alla decisione di primo grado”. La sentenza di appello è, quindi, solo apparentemente motivata, “palesandosi tale decisione del tutto priva dell’indicazione degli elementi da cui l’organo giudicante, nel confermare la decisione di primo grado, ha tratto il proprio convincimento (Cass. 1756/06, 9113/12)”.

 

23 maggio 2013

Francesco Buetto