Il compenso troppo elevato all'amministratore è fiscalmente indeducibile

è indeducibile il compenso corrisposto all’Amministratore Unico sproporzionato ai valori della società amministrata, se il contribuente non fornisce prova dell’esistenza di ragioni economiche giustificative per il compenso

Con l’ordinanza n.9036 del 15 aprile 2013 la Corte di Cassazione ha confermato l’indeducibilità dei compensi elevati dati agli amministratori.

 

Il rilievo

La controversia trae origine dal rilievo operato dall’Amministrazione finanziaria che aveva ritenuto il compenso corrisposto all’Amministratore Unico sproporzionato, non avendo peraltro la contribuente né dedotto né fornito prova dell’esistenza di ragioni economiche giustificative.

 

Motivi della decisione

Questa Corte ha affermato (Sez. 5, sentenza n. 9497 del 11/04/2008), che rientra nei poteri dell’Amministrazione Finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa, con possibile negazione della deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo l’Ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti. Ha altresì ripetutamente ritenuto (di recente, Sez. 5, sentenza n. 4554 del 25/02/2010; Sez. 5, sentenza n. 26480 del 30/12/2010), che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, incombe al contribuente l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del d.P.R. n. 597 del 1973 e del d.P.R. n. 598 del 1973, che del d.P.R. n. 917 del 1986; e che, poiché rientra nei poteri dell’Amministrazione Finanziaria, in sede di accertamento, la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei medesimi”.

Per la Corte, tali principi non risultano incompatibili con la formulazione dell’art. 95, vigente pro tempore, secondo cui “I compensi spettanti agli amministratori delle società ed enti di cui all’articolo 72, comma 1, sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti”. Ed invero, il mancato riferimento a tabelle o altre indicazioni vincolanti, che pongano limiti massimi di spesa, oltre i quali essi non possano essere deducibili, non confligge con il suesposto principio generale; “di talché va in questa sede riaffermato che la deducibilità ai sensi dell’articolo 62 del DPR n. 917 del 1986 dei compensi degli amministratori non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti (conf. Sez. 5, sentenza n. 1348 del 30/10/2001; Cass. 27 settembre 2000 n. 12813), rientrando nei normali poteri dell’ufficio la verifica dell’attendibilità economica delle rappresentazioni esposte nel bilancio e nella dichiarazione”.

 

Il dibattito sulla congruità

Il dibattito sulla congruità ha preso le mosse dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 12813 del 17.05.2000, depositata il 27.09.2000, che ha ritenuto il compenso agli amministratori soggetto alla valutazione di “congruità”, in rapporto alle dimensioni dell’impresa, da parte dei funzionari del Fisco. Per i Giudici Supremi, infatti, la riconosciuta deducibilità fiscale “non significa che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni sociali o contratti, e ciò a prescindere dall’invalidità di tali atti sotto il profilo civilistico”, in presenza di elementi certi, precisi e concordanti, e non mere presunzioni semplici, tali da permettere all’ufficio “un sindacato di legittimità”. E pertanto, “una volta ritenuta la correttezza dell’esercizio dei poteri valutativi istituzionalmente attribuiti all’ufficio finanziario e l’incensurabile motivazione della sentenza di merito sul punto, resta superfluo il ricorso ad accertamenti (da compiersi incidenter tantum) riservati ad altri giudici, quali quello sulla validità di negozi giuridici”.

Successivamente, la stessa Corte di Cassazione (sentenza n. 13478 del 10.11.2000, depositata il 30.10.2001) ha riconfermato il proprio pensiero: “l’amministrazione finanziaria ben può valutare la congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e procedere a rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, e di conseguenza negare la deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa”.

Di diverso avviso, invece, si è posta la Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 6599 del 09.05.2002 e confermata dalla sentenza n. 21155/2005, secondo cui in tema di determinazione del reddito d’impresa, l’attuale legislazione non consente all’Amministrazione finanziaria di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori delle società di persone. Per la Corte, “la mancanza, poi, nel sistema di una clausola generale antielusiva è di ostacolo al riconoscimento, nell’attualità, di un potere dell’Amministrazione a fare questo tipo di valutazione per questi comportamenti (l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 prevede, infatti, ipotesi tassative tra le quali non si può comprendere quella in esame) … né, per superare questi ostacoli, può farsi ricorso al meccanismo dell’interposizione di persona di cui al comma 3 dell’art. 37 del D.P.R. n. 600/1973, poiché nella fattispecie in esame si discute solo di deducibilità o meno per un soggetto di costi (che all’Amministrazione sono apparsi eccessivi), e non di imputazione di reddito ad un soggetto piuttosto che ad un altro (i costi che risultano sostenuti dalla società risultano nella stessa misura reddito per altri soggetti, per cui non vi è una interposizione…; né, per riconoscere il potere di valutazione, può farsi riferimento alla disciplina dell’inerenza … poiché in questa materia (dell’inerenza) a fini impositivi rileva tendenzialmente il profilo della qualità del costo piuttosto che quello della quantità, proprio perché l’ordinamento riconosce all’imprenditore la libertà di impostare la sua strategia d’impresa. Orbene, il costo è inerente se serve a produrre ricavi; una volta accertata questa qualità del costo, è abbastanza difficile poter dire (senza scivolare in una zona grigia, tendenzialmente molto discrezionale) in quale misura esso è deducibile o meno, tranne che non vi sia una indicazione normativa specifica, che ponga un tetto alle spese”.

Successivamente, la sentenza n. 28595 del 30 ottobre 2008, dep. il 2 dicembre 2008, della Corte di Cassazione aveva battuto un altro colpo a favore dei contribuenti, affermando che l’ordinamento tributario non accorda all’Amministrazione finanziaria alcun sindacato sulla congruità della quantificazione e determinazione del compenso devoluto agli amministratori di società che, quale componente negativo, deve intendersi integralmente deducibile dal reddito d’impresa nel rispetto dei presupposti stabiliti dalla disciplina degli artt. 60 e 109 del Tuir. Il principio affermato dalla Corte è il seguente: “in tema di determinazione del reddito d’impresa, l’Amministrazione Finanziaria, allo stato attuale della legislazione, non ha il potere di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori delle società di persone, per cui tali compensi sono deducibili come costi ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 62 (Cass. n. 6599 del 2002; Cass. n. 21155 del 2005)”. L’orientamento “è basato sulla considerazione che il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 62, nella sua nuova formulazione introdotta dal T.U., non prevede più il richiamo ad un parametro da utilizzare nella valutazione della entità dei compensi, per cui l’interprete non può che prendere atto della modificazione normativa e concludere per l’inesistenza del potere di verificare la congruità delle somme date ad un amministratore di società a titolo di compensi per l’attività svolta”. In ogni caso, viene osservato che “il giudice a quo, pur aderendo a tale indirizzo, ha comunque compiuto una valutazione in ordine alla congruità del compenso e che tale giudizio integra una ratio decidendi del tutto autonoma, in grado di per sè di sorreggere la statuizione impugnata, con l’effetto che il ricorso, che non propone censure sul punto, appare sotto tal profilo inammissibile per difetto di interesse (Cass. n. 2273 del 2005; Cass. n. 5902 del 2002)”.

Con ordinanza n. 18702 del 13 agosto 2010 (ud. del 9 giugno 2010), la Corte di Cassazione aveva, invece, escluso totalmente la deducibilità dei compensi degli amministratori nelle società di capitali1. I giudici prendono le mosse da un precedente pronunciamento (sentenza n. 24188/06) secondo cui l’art. 62 del T.U. n. 917/86 escludendo “l’ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per lavoro dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone, non consente di dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore di società di capitali: la posizione di quest’ultimo è infatti equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l’assoggettamento all’altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione “. La sentenza impugnata, nella parte in cui ha riconosciuto la deducibilità del relativo costo, “è dunque ispirata ad un erroneo principio di diritto, non perchè i compensi degli amministratori di società di capitali siano deducibili nel solo anno in cui sono corrisposti, ma perché non sono affatto deducibili“.

La stessa Cassazione, invece, con sentenza n. 24957 del 10 dicembre 2010, in un colpo solo, aveva ritenuto deducibili, sempre e comunque, i compensi agli amministratori (e indipendentemente dall’importo). Per la Corte di Cassazione (sentenza n. 24957/2010) nell’attuale sistema la spettanza e la deducibilità dei compensi agli amministratori è determinata dal consenso che si forma tra le parti o nell’ente sul punto, senza che all’amministrazione sia riconosciuto un potere specifico di valutazione della congruità”. Nello specifico, rilevano i giudici, “occorre anche osservare che, nell’evoluzione dei tempi, i compensi degli amministratori, specie di imprese di grosse dimensioni, ha assunto una tendenza diretta ad una crescente lievitazione degli stessi … nondimeno, neppure può affermarsi che nell’attuale ordinamento siano assenti norme antielusive in presenza di una disciplina sulla simulazione e dei negozi in frode alla legge, usufruendo delle quali sia l’Erario che il giudice, eventualmente investito della questione, potrebbero servirsi in caso di determinazione dei compensi che appaiano insoliti o sproporzionati, anche se nell’ipotesi di amministratori non soci, come sembrerebbe essere nel caso in esame, appare improbabile una distribuzione occulta di utili, ne è percepibile uno scopo fraudolento in danno dell’Agenzia delle entrate, dato che le aliquote applicabili nei confronti dei redditi degli amministratori (non inferiore al 43,5) sono superiori rispetto a quelle applicabili mediamente per i redditi delle società (34,9 %)”.

Da ultimo, tuttavia, con l’ordinanza n. 3243 dell’11 febbraio 2013 (ud. 10 gennaio 2013) la Corte di Cassazione ritorna sulla propria posizione: Questa Corte ha affermato (Sez. 5, Sentenza n. 9497 del 11/04/2008), che rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa, con possibile negazione della deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo l’Ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti…; e che, poichè rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria, in sede di accertamento, la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei medesimi”. “Ed invero dall’eliminazione (in sede di redazione del Tuir) del riferimento del limite delle ‘misure correnti per gli amministratori non soci’ consegue solo la liberalizzazione del concetto di spettanza ai fini della deducibilità. Il mancato riferimento a tabelle o altre indicazioni vincolanti, che pongano limiti massimi di spesa, oltre i quali essi non possano essere deducibili, non confligge con i suesposti principi generali”. D’altro canto, prosegue la sentenza, è inopponibile all’Amministrazione finanziaria il risultato elusivo ottenuto dall’impresa nel “conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici (cfr. Cass. Sez. 5 20/7/2012 n. 12622; Cass. SU 2.1.12.2008 n. 30055)”. Talchè viene riaffermato che la deducibilità dei compensi degli amministratori “non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti (conf. Sez. 5, Sentenza n. 13478 del 30/10/2001; Cass. 27 settembre 2000 n. 12813), rientrando nei normali poteri dell’ufficio la verifica dell’attendibilità economica delle rappresentazioni esposte nel bilancio e nella dichiarazione”.

 

3 maggio 2013

Francesco Buetto

1Tale sentenza supera, di fatto, i precedenti pronunciamenti che si limitavano a disquisire della congruità del compenso, a volte effettivamente sproporzionato. Il pensiero espresso dalla Cassazione, volto a negare la deducibilità totale dei compensi agli amministratori, peraltro, non era neanche stato avanzato dalla Amministrazione finanziaria, tant’è che la controricorrente aveva depositato una memoria, contestando la possibilità di decidere la causa sulla base di una questione non dedotta, superata però dalla stessa Corte: la circostanza che tale interpretazione non sia stata mai dedotta dall’Ufficio, segnatamente in sede di accertamento, non appare vincolante per il Giudice, alla luce di quanto dedotto dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 30055/08, secondo cui “affermare, infatti, che nel giudizio tributario l’amministrazione finanziaria (e, adesso, l’Agenzia delle Entrate) è attore e che la sua pretesa è quella risultante dall’atto impugnato vuoi dire riconoscere che l’erario aziona una specifica pretesa impositiva – e cioè accerta un determinato debito tributario in capo al contribuente e ne richiede il pagamento – e che il processo che nasce dall’impugnativa dell’atto autoritativo è, si, delimitato nei suoi confini, quanto a petitum e causa petendi, dalla pretesa tributaria, ma solo nel senso che il fondamento e l’entità di questa non possono aver latitudine diversa da quanto dedotto nell’atto impositivo“. In pratica, il rilievo è stato modificato dalla Cassazione, partendo dalla contestazione comunque del costo effettuata dall’ufficio in ordine all’anno di deducibilità.