Riflessi in ambito fiscale delle prove irritualmente assunte nel corso di indagini penali

nel processo tributario sono validamente utilizzabili anche le prove acquisite irritualmente in fase di indagine penale, anche se le stesse prove non sono utilizzabili nel processo penale collegato

Con sentenza n. 2352/2013 la Corte di Cassazione dà continuità al principio di diritto che afferma la reciproca autonomia del processo penale e del processo tributario, sia con riguardo alle norme ad essi applicabili sia con riferimento alle loro finalità. La Suprema Corte, pertanto, esclude l’applicabilità dell’automatismo secondo cui l’accertamento fiscale deve dichiararsi nullo sulla base del principio processuale penalistico che sancisce l’inutilizzabilità delle prove assunte irritualmente nel corso di indagini di polizia tributaria.

 

La sentenza

L’articolato contenzioso di cui trattiamo, nasce dalla notifica di tre avvisi di accertamento con cui l’ Amministrazione finanziaria rettificava il reddito dichiarato, per gli anni 1990, 1991 e 1992 ai fini Irpef ed ILOR, da un contribuente indagato in un procedimento penale.

Il contribuente si era opposto presentando alla Commissione Tributaria Provinciale tre distinti ricorsi da quest’ultima tutti rigettati.

Secondo i giudici di prime cure l’operato della Guardia di Finanza in sede di verifica risultava legittimo e corretto rientrando nei poteri della Guardia di Finanza la raccolta delle informazioni e rese dal contribuente sulle movimentazioni bancarie contestate e non risultando, altresì elementi idonei a far emergere indizi di reato.

La Commissione Tributaria Provinciale competente aggiungeva, inoltre, che le ingenti movimentazioni rilevate sui conti del contribuente deponevano per l’esistenza di un’attività imprenditoriale e che questi non aveva dimostrato la natura non reddituale delle suddette movimentazioni.

Seguiva l’appello nel quale veniva eccepita l’inutilizzabilità delle prove raccolte durante la verifica in quanto acquisite in assenza di un difensore del contribuente e, contestualmente, contestati gli esiti dell’ispezione subita da cui era stata desunta (sulla base di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza) in capo al ricorrente la titolarità di un’attività d’impresa malgrado non fosse emersa l’esistenza di clienti o fornitori ma l’esistenza di meri rapporti finanziari personali tra contribuente e terzi (circostanza verbalizzata).

Anche i giudici d’appello rigettavano il ricorso spiegando in motivazione che il secondo motivo (inutilizzabilità dei dati acquisiti dalla Guardia di Finanza per assenza del difensore del contribuente indagato) doveva considerarsi inammissibile perché proposto per la prima volta in appello e che le dichiarazioni, sebbene inutilizzabili perché rese da persona indagata, erano ininfluenti ai fini del giudizio in quanto il contribuente non era stato in grado di fornire alcuna spiegazione in ordine alle ingenti disponibilità finanziarie rinvenute sui suoi conti.

Riguardo alla prima doglianza (inutilizzabilità delle prove acquisite dalla G.d.f.) ribadiva, inoltre, la Commissione Tributaria Regionale che proprio gli elementi rinvenuti avevano legittimato la ricostruzione dell’attività imprenditoriale di intermediazione in capo al contribuente attraverso un ragionamento “presuntivo semplice” e che il metodo di accertamento utilizzato dall’ufficio trovava giustificazione proprio nell’inadempimento da parte del contribuente del proprio onere di documentare la natura delle operazioni contestate. Il ricorrente inoltre non aveva contestato la percentuale di redditività del 20% delle movimentazioni rilevate applicata dall’Ufficio.

Il contribuente procedeva con il ricorso per cassazione affidando a 4 motivi la propria difesa. L’Agenzia delle Entrate resisteva con controricorso.

Esaminati i quattro punti del ricorso prodotto dal contribuente, precisamente:

  • violazione e falsa applicazione del D.lgs. 546/1992, art.57, in relazione dell’art. 360 c.p.c., c. 1, n.3, deducendo che erroneamente il primo giudice aveva ritenuto inammissibile il secondo motivo di appello per l’asserito carattere di novità della doglianza relativa all’inutilizzabilità delle prove documentali acquisite dalla Guardia di Finanza in assenza del difensore1;

  • contraddittorietà della motivazione della sentenza di appello rispetto all’art. 360 c.p.c., n.5, nella parte in cui, inficiando il processo logico posto a fondamento della pronuncia, aveva illogicamente ritenuto legittima l’acquisizione dei dati e, contemporaneamente, gli stessi inutilizzabili2;

  • violazione e falsa applicazione del D.P.R. 600/1973, artt. 32 e 33, in relazione all’art. 360 c.p.c., c. 1, n.3, in quanto erroneamente il giudice di appello aveva ritenuto utilizzabili i dati recuperati dalla Guardia di Finanza in considerazione della veste di indagato del contribuente nel processo penale che presuppone l’applicabilità dei principi di cui all’art. 191 c.p.p.3 alla materia tributaria essendo l’attività amministrativa fiscale legata al principio di legalità4.

  • pmessa motivazione della sentenza su diversi punti decisi della controversia, in relazione all’art.360, c. 1, n. 5, c.p.c. per non aver preso posizione in ordine al terzo motivo di appello nel quale si era dedotta la nullità degli accertamenti per assenza di contraddittorio tra contribuente ed ufficio accertatore. Fanno da corollario al quarto motivo del ricorso ulteriori profili di censura relativi ai motivi dell’appello riguardanti il merito della controversia.

La Corte accoglie solo il primo motivo del ricorso (asserendo l’erroneità della decisione del giudice di appello che aveva escluso di poter esaminare la parte della doglianza relativa all’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal contribuente). Quest’ultima, invero, era risultava dedotta anche dinanzi al primo giudice, e cassa la sentenza impugnata rigettando il ricorso proposto dal contribuente che viene condannato al pagamento delle spese processuali liquidate in favore dell’Agenzia delle entrate.

 

Brevi considerazioni conclusive

Il ricorso per cassazione presentato dal contribuente è sostanzialmente imperniato sull’asserita illegittimità dell’operato dell’Ufficio, per aver utilizzato prove e documentazione rese dal contribuente, indagato penalmente per i medesimi fatti su cui si fondava l’accertamento fiscale, in assenza del proprio difensore.

In proposito, come spiega la sentenza in commento, è opportuno distinguere le indagini amministrative svolte dalla Guardia di Finanza in attuazione delle disposizioni di cui al d.p.r. 600/1973 (art. 33) e al d.p.r. 633/1972 (artt. 52 e 63), dalle indagini che la Guardia di Finanza svolge in veste di polizia giudiziaria sottoposte all’osservanza delle norme del codice di procedura penale.

La prima tipologia di attività, assimilabile a quella svolta dagli uffici finanziari, è assistita dalle garanzie proprie della eventuale fase contenziosa, la seconda, dall’art. 24 della Costituzione italiana in materia di inviolabilità del diritto alla difesa.

L’art. 220 c.p.p. rubricato “Attività ispettive e di vigilanza” recita “Quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”.

L’inosservanza della suddetta disposizione implica l’inutilizzabilità dei risultati delle indagini svolte. Tuttavia essa opera esclusivamente in ambito penale e non influisce sui oteri dell’ufficio dell’amministrazione fiscale e del giudice tributario che, ai fini fiscali, possono avvalersene senza ledere il diritto di difesa del contribuente.

Il principio trova conferma nella recente sentenza n. 2916 del 7 febbraio 2013 della Suprema Corte: “il divieto, posto dall’art. 270 C.P.P., di utilizzare i risultati delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi da quello in cui furono disposte non opera nel contenzioso tributario, ma soltanto in ambito penale, non potendosi arbitrariamente estendere l’efficacia di una norma processuale penale, posta a garanzia dei diritti di difesa in quella sede, a dominii processuali diversi, come quello tributario, muniti di regole proprie. Cass. 23 febbraio 2013, n.4306”.

La sentenza in rassegna mette in rilievo, inoltre, il corretto “governo” da parte del giudice di appello, della disciplina prevista dagli articoli 32 e 33 d.p.r. 600/1972 ritenendo pienamente utilizzabili all’interno del procedimento tributario, il materiale probatorio posto a fondamento degli avvisi di accertamento.

La Corte confuta, così, l’impianto difensivo opposto dal contribuente per il quale la propria condizione di indagato nel procedimento penale rendeva completamente inutilizzabile l’attività espletata dalla Guardia di Finanza in sede amministrativa, dovendosi comunque estendere i principi espressi dall’art. 191 c.p.p.. alla materia tributaria, anche in assenza di una disposizione espressa, essendo comunque l’attività amministrativa fiscale subordinata al principio di legalità.

La sentenza richiama un precedente pronunciamento (Cass. n.14026 del 3 agosto 2012) nel quale “si è pure ribadita la piena utilizzabilità da parte dell’Amministrazione finanziaria dei movimenti dei conti correnti bancari e dei risultati degli altri apporti ed operazioni intrattenute dalla banca con il contribuente , anche se questo non stato preventivamente convocato per giustificare le operazioni bancarie oggetto di verifica atteso che nessuna norma impone, in via generale, l’obbligo di previa convocazione con il contribuente in sede amministrativa prima dell’accertamento – in sede di definizione con accertamento con adesione e di attivazione dei poteri di autotutela della PA – sia nella sede contenziosa”.

 

22 aprile 2013

Cinzia Bondì

1L’Agenzia delle Entrate, deduce l’infondatezza di tale motivo del ricorso per aver il ricorrente completamente modificato in sede di appello le proprie difese.

2 Tale doglianza secondo l’Agenzia delle Entrate era infondata in quanto dalla decisione contestata non emergeva nessun elemento di contraddittorietà della motivazione.

3Articolo 191 c.p.p. – Prove illegittimamente acquisite. In vigore dal 24 ottobre 1989:

1. Le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate.

2. L’ inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento”.

4Anche il terzo motivo appare infondato all’Amministrazione finanziaria che osserva come la giurisprudenza della Corte di Cassazione abbia più volte confermato l’inapplicabilità in tema di accertamenti fiscali del principio di inutilizzabilità della prova acquisita irritualmente prevista dal c.p.p..