Le sanzioni penali in caso di accertamento in presenza di perdite pregresse

nel caso di accertamento per un periodo d’imposta in cui sono presenti perdite fiscali pregresse, quali rischi esistono di una sanzione penale per infedele dichiarazione?

Aspetti generali

Secondo una recente pronuncia della Corte di Cassazione, che sul punto ha dato ragione all’Agenzia delle Entrate, le sanzioni per infedele dichiarazione devono essere irrogate anche quando il maggior reddito accertato potrebbe essere compensato grazie alle perdite pregresse dell’impresa.

L’ufficio tributario non ha infatti l’obbligo di riconoscere automaticamente le perdite dei precedenti periodi di imposta, le scelte in ordine al cui utilizzo (nel rispetto delle disposizioni normative applicabili all’epoca dei fatti) spettano esclusivamente ai contribuenti in sede di dichiarazione.

La questione viene di seguito esaminata, previa breve ricostruzione della sanzionabilità della dichiarazione infedele e delle norme del TUIR in materia di perdite in regime IRES.

 

La dichiarazione infedele nel contesto sanzionatorio tributario

L’ipotesi della dichiarazione infedele, ossia dello scostamento tra quanto è dichiarato dal contribuente per un dato periodo di imposta e l’ammontare che invece emerge dalla ricostruzione effettuata dall’ufficio tributario, è sanzionata dall’ordinamento sia in via amministrativa, ai sensi dell’art. 1, secondo comma (imposte sui redditi) e dall’art. 5, quarto comma, del D.Lgs. 18.12.1997, n. 471, nonché dall’art. 32, secondo comma, del D.Lgs. 15.12.1997, n. 446 (IRAP).

Secondo le disposizioni valevoli per le imposte sui redditi, che rappresentano un «tracciato» sostanzialmente riprodotto anche per le altre due imposte – nell’ottica di un intervento sanzionatorio che ora deve essere necessariamente contenuto nell’avviso di accertamento1 (perlomeno per le sanzioni collegate al recupero di maggiori imposte) -, se la dichiarazione presentata è infedele, cioè da essa risultano:

  • un’imposta inferiore a quella dovuta;

  • (ovvero) un’eccedenza detraibile o rimborsabile superiore a quella spettante;

è applicata, secondo le previsioni dell’art. 5, comma 4, la sanzione dal 100% al 200% della differenza.

A titolo esemplificativo, l’infedeltà della dichiarazione può scaturire:

  • dall’imposta relativa a specifiche operazioni imponibili non dichiarate e precedentemente non documentate e/o non registrate;

  • dall’imposta relativa ad operazioni erroneamente ritenute esenti o non imponibili;

  • dalla maggiore imposta dovuta, in relazione a specifiche operazioni, per l’avvenuta applicazione di aliquota inferiore a quella pertinente;

  • dalla maggiore imposta risultante da accertamento induttivo;

  • dall’imposta indebitamente detratta.

La violazione di infedele dichiarazione non ricorre (salva l’eventuale applicazione, in presenza dei necessari presupposti, delle sanzioni per l’omesso versamento) quando la minore imposta o il maggiore credito risultanti dalla dichiarazione sono esclusiva conseguenza di un mero errore materiale o di calcolo commesso dal contribuente.

 

La dichiarazione infedele in ambito penale

Il reato di «infedele dichiarazione», previsto dall’art. 4 del D.Lgs. 10.3.2000, n. 74, è invece caratterizzato dalla mancanza dei comportamenti materiali di tipo fraudolento previsti dalle fattispecie precedenti.

Si tratta di un reato a struttura semplice, ma proprio per questo di portata vastissima: esso può infatti essere commesso da qualsiasi contribuente, non soltanto da quelli fiscalmente obbligati alla tenuta di scritture contabili.

Anteriormente alle modificazioni recate dal D.L. n. 138/2011, convertito dalla L. n. 148/2011, le soglie di rilevanza penale erano le seguenti:

  • imposta evasa superiore a lire 200 milioni (euro 103.291,38);

  • ammontare complessivo degli elementi sottratti all’imposizione superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, a lire 4 miliardi (euro 2.065.827,60).

Le attuali soglie di rilevanza penale, applicabili ai fatti successivi all’entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge del 2011 [art. 2, comma 36-vicies bis), D.L. n. 138/2011], sono di seguito indicate:

  • imposta evasa superiore, con riferimento a ogni singola imposta, a euro 50.000;

  • ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque superiore a euro 2 milioni.

Per quanto riguarda il momento consumativo del reato, viene attribuita rilevanza alla presentazione della dichiarazione annuale. L’elemento soggettivo, caratterizzato dal dolo specifico, richiede la coscienza e volontà di indicare nelle dichiarazioni annuali dati e notizie false, al fine di evadere il pagamento dei tributi dovuti.

 

Le sanzioni «meramente formali»

Secondo quanto ha affermato l’Agenzia delle Entrate nella propria circolare 3.8.2001, n. 77/E (par. 3.1), l’art. 10, terzo comma, dello Statuto del contribuente (L. n. 212/2000), ha previsto la non punibilità di quei comportamenti che si traducono in una «mera violazione formale senza alcun debito d’imposta».

In attuazione di tale previsione, il comma 5-bis dell’art. 6, D.Lgs. 472/1997 dispone la non punibilità delle violazioni che, oltre a non incidere sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo, non pregiudicano l’attività di controllo dell’Amministrazione.

Secondo la pronuncia di prassi, la natura meramente formale è più facilmente riscontrabile «nelle violazioni di norme tributarie punibili con sanzioni amministrative stabilite in misura fissa, non legata cioè all’ammontare del tributo».

Per stabilire in concreto la punibilità, o la non punibilità, delle violazioni, gli uffici fiscali sono tenuti a compiere una valutazione con riferimento ai singoli casi specifici, per stabilire se gli illeciti commessi abbiano o no causato pregiudizio all’esercizio dell’azione di controllo.

Può quindi verificarsi, secondo l’esemplificazione contenuta nella circolare, che «violazioni potenzialmente idonee ad incidere negativamente sull’attività di controllo, come ad esempio le irregolarità formali relative al contenuto delle dichiarazioni (…), non siano punibili, essendo risultato in concreto che le stesse, anche per effetto dell’eventuale regolarizzazione delle medesime, non abbiano ostacolato l’azione dell’ufficio».

L’esimente non è comunque ritenuta applicabile per quelle violazioni formali che hanno ad oggetto la presentazione – entro termini normativamente predeterminati – di atti che, per definizione, sono soggetti a controllo (come, ad esempio, l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi in assenza di imposte).

Inoltre, restano sanzionabili le violazioni per le quali l’esistenza del pregiudizio all’attività di controllo «è palese per essere quest’ultima già iniziata» (a titolo esemplificativo, le violazioni consistenti nella mancata o tardiva restituzione di un questionario inviato al contribuente o nell’inottemperanza all’invito a comparire in ufficio).

Allo stesso modo, rimane punibile l’omessa tenuta delle scritture contabili prescritte dalle leggi in materia di imposte sui redditi e di IVA, e il rifiuto da parte del contribuente della medesima documentazione richiesta in sede di accesso.

Nel caso più avanti descritto, sottoposto all’esame della Cassazione, il comportamento della società contribuente è stato sanzionato per «infedele dichiarazione», e ha comportato un recupero di imposta. Non si è quindi trattato di un comportamento non incidente sulla determinazione dell’imponibile e dell’imposta, nel senso sopra illustrato.

Sotto il profilo sostanziale, però, la parte intendeva far valere il proprio «bagaglio» di perdite pregresse, che avrebbero causato l’azzeramento del recupero e pertanto anche delle sanzioni a esso collegate. In buona sostanza, l’accertamento portava all’elevazione del reddito imponibile e alla determinazione di imposta e sanzioni, ma l’eventuale impiego delle perdite avrebbe estinto i recuperi: un obbligo tributario, quindi, del quale la società intendeva dimostrare l’«inesistenza» sul piano sostanziale (non potendolo fare, evidentemente, su quello formale).

 

La deducibilità delle perdite nel sistema del reddito di impresa

Nel contesto dell’art. 102, poi 84, del TUIR, applicabile «ratione temporis» ai fatti esaminati dalla Corte di Cassazione, in ambito IRPEG la perdita di un determinato periodo di imposta, determinata con le norme valevoli per la determinazione del reddito, poteva essere scomputata dal reddito dei periodi di imposta successivi, ma non oltre il quinto, per l’intero importo che trovava capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi.

Le perdite realizzate nei primi tre periodi di imposta dalla data di costituzione potevano invece essere scomputate dal reddito complessivo dei periodi di imposta successivi senza alcun limite di tempo.

Nel testo attualmente vigente (dopo le modificazioni apportate dall’art. 23 del D.L. n. 98/2011), l’art. 84, primo comma, del TUIR, dispone che: «la perdita di un periodo d’imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del reddito, può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi in misura non superiore all’ottanta per cento del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo che trova capienza in tale ammontare».

Rispetto alla versione anteriormente vigente dell’articolo, è stato rimosso il limite quinquennale di riporto in avanti delle perdite e si è stabilito che la perdita può essere computata in diminuzione del reddito imponibile di ciascun periodo successivo in misura non superiore all’80% dello stesso.

Senza limiti temporali di utilizzo, le eccedenze rispetto all’indicata misura percentuale commisurata al reddito imponibile possono essere riportate indeterminatamente in avanti.

Sono invece rimaste invariate le previsioni riguardanti:

  • le modalità di fruizione della perdita in presenza di regimi di esenzione degli utili o dei proventi;

  • la possibilità di utilizzare la perdita in misura tale che l’imposta corrispondente al reddito imponibile risulti compensata da eventuali crediti d’imposta, ritenute alla fonte a titolo di acconto, versamenti in acconto ed eccedenze: la perdita può pertanto essere riportata anche in misura inferiore all’80% del successivo reddito, qualora il 20% di quest’ultimo non risulti sufficiente ad assorbire i citati crediti, ritenute, versamenti ed eccedenze.

Le nuove norme si rendono applicabili ai soggetti IRES, mentre è rimasto invariato l’art. 8, terzo comma, del TUIR, riguardante il regime delle perdite dei soggetti IRPEF in regime di contabilità ordinaria.

Nei casi di perdite maturate nei primi tre periodi di imposta non trova applicazione la limitazione dell’utilizzo della perdita nella misura dell’80% del reddito dei periodi di imposta successivi. Il riporto di tali perdite è quindi pieno e illimitato nel tempo, purché esse «si riferiscano ad una nuova attività produttiva».

 

Il caso esaminato dalla Cassazione

L’ordinanza della sezione tributaria della Cassazione 26.9.2012, n. 16333, ha affermato il principio secondo il quale le sanzioni per infedele dichiarazione devono essere applicate anche se il maggior reddito accertato è compensabile mediante l’utilizzo di perdite pregresse.

Nella fattispecie che era stata oggetto dell’accertamento e del contenzioso di merito, il ricorso per cassazione era stato proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della CTR Lombardia, la quale, accogliendo l’appello della società ricorrente, aveva dichiarato la non debenza delle sanzioni «dichiarative», riferite ai periodi di imposta 2000 e 2001.

La commissione di merito aveva argomentato, condividendo le tesi della parte appellante, che il comportamento della contribuente non aveva comportato variazioni nella compilazione del quadro RN6, ossia nella determinazione del reddito imponibile, dato che la società aveva documentato di avere a disposizione perdite pregresse compensabili con il reddito prodotto.

Ciò, perché l’art. 1, secondo comma, del D.Lgs. n. 471/1997 sanzionerebbe le sole ipotesi in cui in dichiarazione venga indicato un reddito imponibile inferiore a quello accertato.

Sul punto la Corte ha precisato, condividendo l’impostazione della parte erariale, che in materia di IRPEG – ma la stessa logica risulta applicabile chiaramente all’IRES, dopo le innovazioni del D.Lgs. n. 344/2003 – la sanzione amministrativa per dichiarazione infedele è dovuta «a prescindere dalla circostanza che l’imposta, non dichiarata, vada poi effettivamente riscossa oppure, come nella specie, debba essere compensata con crediti rinvenienti dalla definitiva stabilizzazione di perdite fiscali anteriori».

Puntualizza a tale riguardo la Cassazione che le previsioni normative di riferimento «riconnettono le sanzioni al dato obiettivo della dichiarazione di un reddito inferiore, mentre la invocata compensazione non spiega alcun riflesso sulla fattispecie della descritta violazione, poiché è la dichiarazione infedele a legittimare l’accertamento, che a sua volta determina l’irrogazione della sanzione, mentre la fase della riscossione ne è necessariamente successiva (Cass. n. 13014 del 2011)».

In questa prospettiva la tesi della società contribuente, secondo la quale l’amministrazione dovrebbe in ogni caso calcolare le perdite pregresse, portandole in deduzione dal reddito accertato ai fini della determinazione del maggior reddito imponibile (che nel caso in esame sarebbe, quindi, pari a zero), non viene condivisa, in quanto, come risulta dall’art. 102 (ora 84) del TUIR, al contribuente è riservata una facoltà di scelta – da esercitare mediante indicazione nella dichiarazione (inesistente nella fattispecie esaminata) – relativamente al periodo di imposta (non oltre il quinto) nel quale utilizzare in compensazione le perdite disponibili, facoltà nel cui esercizio l’Amministrazione non può sostituirsi al contribuente.

Il ricorso, deciso in camera di consiglio, è stato quindi accolto dalla Corte con rinvio della causa ad altra sezione della CTR Lombardia.

 

Considerazioni di sintesi

La sentenza della Cassazione sopra esaminata stabilisce inequivocabilmente un principio: che la disponibilità di perdite compensabili da parte dell’impresa non può valere ad azzerare gli effetti di un atto di rettifica del reddito imponibile.

In questa prospettiva, occorre evidenziare che le perdite rappresentano un risultato economico negativo dell’impresa cui viene attribuita rilevanza fiscale non solamente nel periodo di imposta ma anche nei periodi successivi, con previsioni di assoluto beneficio per le imprese che si sovrappongono a quelle civilistiche e hanno la finalità di consentire il «recupero» dei periodi sfavorevoli in un arco temporale più lungo del singolo esercizio.

A quanto si comprende, nel caso di specie non si è trattato della rettifica di una minor perdita rispetto a quella dichiarata (ipotesi nella quale sarebbe difettata la base di calcolo per la sanzione), bensì del tentativo da parte della società contribuente di impiegare, azzerando il maggior reddito correttamente determinato in sede di accertamento, le perdite pregresse a disposizione.

È evidente che in tale situazione la contribuente stessa avrebbe «abusato» delle possibilità concesse in sede dichiarativa, provvedendo all’attuazione di un comportamento opzionale (in merito all’impiego delle perdite dei precedenti periodi di imposta) solo successivamente all’accertamento, ossia quando gli anni di riferimento – 2000 e 2001 – avevano ottenuto una «capienza reddituale» in precedenza inesistente, proprio grazie all’attività accertativa compiuta dall’ufficio.

In buona sostanza: le perdite pregresse non potevano essere impiegate ai fini della determinazione del reddito nei suddetti periodi di imposta 2000 e 2001, in quanto questi non disponevano di reddito sufficiente a garantirne la compensazione. Successivamente, l’attività di accertamento aveva mutato la situazione ex post rettificando le dichiarazioni presentate: da qui il tentativo, appunto, di «tirar fuori» le perdite per annullare la rettifica.

Secondo la lettura dei Supremi Giudici, insomma, quel «può essere computata» riferito dalla norma alle perdite di esercizio che vengono utilizzate nell’esercizio di formazione e in quelli successivi configura una facoltà opzionalmente esercitabile solo in sede di dichiarazione, e non successivamente (né dal contribuente, né dai giudici).

Si rammenta conclusivamente che, laddove si è inteso consentire l’utilizzo delle perdite a scomputo di imponibili rettificati in sede di accertamento fiscale, il legislatore è direttamente intervenuto in via normativa: esemplare il caso del consolidato fiscale (artt. 117-129, TUIR), ambito nel quale – art. 40-bis, terzo comma, D.P.R. n. 600/1973 – in diminuzione dei maggiori imponibili rettificati possono essere scomputate, su richiesta della società consolidante, le perdite di periodo del consolidato non utilizzate, fino a concorrenza del loro importo. La consolidante deve a tal fine presentare un’apposita istanza (modello IPEC) all’ufficio accertatore, entro il termine di proposizione del ricorso (60 giorni dalla notificazione dell’atto)2.

 

4 aprile 2013

Fabio Carrirolo

1 Con la modifica introdotta dall’art. 23, c. 29, lett. b, del D.L. 6.7.2011, n. 98, convertito dalla L. 15.7.2011, n. 111, nel primo comma dell’art. 17 del D.Lgs. n. 472/1997, l’irrogazione immediata delle sanzioni collegate al tributo cui si riferiscono, contestualmente all’avviso di accertamento o di rettifica, non è più rimessa alla facoltà dell’ufficio, ma diventa procedimento ordinario e obbligatorio.

2 In precedenza, in forza dell’abrogato (dall’art. 35, c. 3, del D.L. 31.5.2010, n. 78, convertito dalla L. 30.7.2010, n. 122) art. 9, c. 2, del D.M. 9.6.2004, operava la compensazione automatica del maggior reddito complessivo globale accertato con le perdite del consolidato non utilizzate.