Il raddoppio dei termini per l’esercizio dell’attività accertatrice ed i rapporti con il procedimento penale

nel tentativo di combattere i fenomeni di evasione fiscale i termini di accertamento in caso di contestazioni di reati tributari raddoppiano: ecco un interessante approfondimento…

L’art. 43 del Dpr 29 settembre 1973, n. 600 disciplina i termini per l’accertamento, vale a dire il tempo a disposizione dell’Ufficio per effettuare un’attività di controllo e notificare ai contribuenti un avviso di accertamento senza incorrere nella decadenza, cioè nella preclusione dell’esercizio del diritto.

L’articolo recita ai commi 1 e 2:

Gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza,entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui e’ stata presentata la dichiarazione.

Nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla ai sensi delle disposizioni del Titolo I, l’avviso di accertamento può essere notificato fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.”

La previsione del raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento, in presenza di una notizia di reato tributario, è stata introdotta dall’articolo 37, commi 24, 25 e 26, del decreto legge 223/2006. In particolare, il comma 24 ha integrato l’articolo 43 del Dpr 600/1973, tramite l’inserimento del terzo comma, in base al quale “In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”. Medesima novazione è stata introdotta dal comma 25, per l’accertamento in materia di Iva, con l’inserimento del comma terzo nell’articolo 57 del Dpr 633/1972

Secondo tali norme, gli ordinari termini di decadenza per l’accertamento sono raddoppiati qualora il pubblico ufficiale, nell’esercizio delle sue funzioni, constati una violazione per la quale sussiste l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 74/2000, con decorrenza a partire dal periodo di imposta per il quale, alla data di entrata in vigore dello stesso DL 223 (il 4 luglio 2006), sono ancora pendenti i termini ordinari per l’accertamento.

Il raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento, ha, sin dalla sua introduzione, generato una serie di dubbi e incertezze interpretative. Con sentenza 247 del 25 luglio 2011, la Consulta si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale della relativa disciplina, enunciando, nel contempo, una serie di principi sulla corretta interpretazione della stessa.

 

La sentenza della Corte costituzionale e la notizia di reato

La sentenza n. 247/2011 della Corte costituzionale ha precisato che “il raddoppio dei termini consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia o dall’inizio dell’azione penale”. In altri termini, per la Consulta, unica condizione affinché operi la normativa sul raddoppio dei termini è la constatazione dell’esistenza di una violazione per la quale sussiste l’obbligo di denuncia di reato tributario ai sensi dell’articolo 331 c.p.p., indipendentemente dalla circostanza che tale obbligo sia stato, o meno, adempiuto.

La stessa Corte ha chiarito che l’obbligo di denuncia “sorge anche ove sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento resti riservato all’autorità giudiziaria penale” e che “la lettera della legge impedisce di interpretare le disposizioni denunciate nel senso che il raddoppio dei termini presuppone necessariamente un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato”.

Peraltro, subordinare il raddoppio dei termini a un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato, “contrasterebbe anche con il vigente regime del cosiddetto «doppio binario» tra giudizio penale e procedimento e processo tributari, evidenziato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000”.

Dalle affermazioni della Corte costituzionale consegue che non assumono rilievo, ai fini dell’operatività del raddoppio dei termini:

  • l’effettiva presentazione della denuncia di reato tributario al Pubblico ministero;

  • l’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico ministero, ai sensi dell’articolo 405 c.p.p., mediante la formulazione dell’imputazione;

  • la successiva emanazione di una sentenza penale di condanna o di assoluzione da parte dell’Autorità giudiziaria.

 

Al fine di impedire che la normativa sul raddoppio fosse utilizzata in maniera distorta (ad esempio, inoltrando notizie di reato palesemente infondate al solo per beneficiare del più ampio termine decadenziale), la Corte costituzionale ha rimesso al giudice di merito il compito di verificare l’obiettiva sussistenza degli elementi richiesti dall’articolo 331 c.p.p. per l’insorgere dell’obbligo di denuncia penale in capo al pubblico ufficiale. Al riguardo, nella sentenza n. 247/2011 è stato evidenziato che tale obbligo sussiste quando il pubblico ufficiale “sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi del reato da denunciare (escluse le cause di estinzione e di non punibilità, che possono essere valutate solo dall’autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita ”.

È necessario, pertanto, che il pubblico ufficiale sia in grado di identificare gli elementi costitutivi del reato e, conseguentemente, di delineare una notizia di reato sufficientemente circostanziata. Sul punto, la Consulta ha inoltre chiarito che il pubblico ufficiale “non può liberamente valutare se e quando presentare la denuncia ma deve presentarla prontamente, pena la commissione del reato previsto e punito dall’art. 361 cod. pen. per il caso di omissione o ritardo nella denuncia”. In altri termini, il ritardo o l’omissione della denuncia assumono rilevanza sotto il profilo della responsabilità penale del pubblico ufficiale, e non, invece, sotto quello dell’operatività del raddoppio.

 

Giurisprudenza di merito

La Commissione tributaria provinciale di Lecco nella sentenza, sez. I, 19/06/2012, n. 74 ha esaminato un caso di specie giungendo a conclusioni interessanti, richiamando giurisprudenza di merito e di legittimità.

Nel caso propostole il ricorrente aveva avuto in relazione all’anno d’imposta 2004, contestazioni di operazioni soggettivamente inesistenti, integranti, dunque, una fattispecie di reato tributario ai sensi del Dlgs 74/2000. Sulla base di tale rilievo, l’Agenzia delle Entrate, nel 2011, aveva notificato alla società un avviso di accertamento ai fini Ires, Iva e Irap.

Con ricorso alla Ctp di Lecco, la società aveva chiesto l’annullamento dell’avviso di accertamento, eccependo, in via preliminare, la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dal potere accertativo. Ad avviso della ricorrente, infatti, nel caso concreto non si sarebbero verificati i presupposti richiesti dagli articoli 43, comma 3, del Dpr 600/1973, e 57, comma 3, del Dpr 633/1972, per l’applicazione del raddoppio dei termini per l’accertamento e, pertanto, dovendo trovare applicazione il termine ordinario – di cui agli articoli 43, comma 1, del Dpr 600/1973, e 57, comma 1, del Dpr 633/1972, la decadenza si sarebbe verificata il 31 dicembre 2009; due anni prima, dunque, della notifica dell’atto impugnato.

I giudici di primo grado hanno accolto il ricorso presentato dalla società ricorrente, dichiarando l’illegittimità dell’avviso di accertamento e condannando l’Ufficio alla rifusione delle spese di lite. L’accoglimento del ricorso si basa, in sintesi, sul fatto che grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare l’avvenuta presentazione della denuncia di reato, per poter usufruire del raddoppio dei termini di accertamento, nel caso in cui il contribuente ne contesti la decadenza.

Nel motivare la propria decisione, la Ctp ha affermato di aver applicato i principi espressi dalla Consulta con la sentenza 247/2011. In particolare, osserva il giudice di merito, secondo l’interpretazione della Corte costituzionale, “a presidio del corretto uso del raddoppio dei termini”, la normativa prevede “l’obbligo della denuncia penale “senza ritardo” ex art. 331 c.p.p., sanzionato penalmente ai sensi dell’art. 361 c.p.” e “il dovere del Giudice tributario di vagliare autonomamente (o su richiesta del contribuente) la presenza dell’obbligo di denuncia (non dell’esistenza del reato) con il potere di disconoscere l’applicabilità del termine raddoppiato ricorrendone i presupposti”. I giudici hanno stabilito che, qualora ricorrano i presupposti per un reato tributario di cui al D.Lgs. n. 74/2000, l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di allegare all’avviso di accertamento la copia della denuncia penale presentata alla Procura della Repubblica, al fine di usufruire del raddoppio dei termini per procedere all’accertamento. Ergo la semplice enunciazione nell’atto impositivo dell’inoltro della notizia di reato, nel caso di specie per l’emissione di fatture inesistenti connesse ad operazioni di compravendita di rottame, non legittima l’Ufficio a beneficiare del raddoppio dei termini, perchè impedisce al Giudice tributario di verificare la sussistenza dei presupposti indicati nell’art. 43, comma 3, D.P.R. n. 600/1973.

La Commissione tributaria provinciale di Treviso, sulla stessa linea, con sentenza n. 73/5/12 del 25 settembre 2012, ha affermato che il raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento è fondato su presupposti la cui sussistenza è sindacabile in sede contenziosa dai giudici. Pertanto, è indispensabile che sia depositato l’atto di denuncia alla competente procura e ogni altro elemento che permetta al giudice tributario di valutare la reale sussistenza dei presupposti previsti dall’art. 43, c. 3, D.P.R. 600/1973.

 

Le affermazioni contenute nella pronuncia della Ctp di Lecco esaminata ed in quella di Treviso, suscitano alcune perplessità oggetto di dibattito in ambito dottrinale. Nella sentenza 247/2011, infatti, la Corte costituzionale ha precisato che “il raddoppio dei termini consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia o dall’inizio dell’azione penale”.

La stessa Corte ha chiarito che l’obbligo di denuncia sorge anche ove sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento resti riservato all’autorità giudiziaria penale. In ogni caso, subordinare il raddoppio dei termini a un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato, contrasterebbe anche con il vigente regime del cosiddetto «doppio binario» tra giudizio penale e procedimento e processo tributari, evidenziato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000.

Il dovere del Giudice tributario di vagliare autonomamente (o su richiesta del contribuente) la presenza dell’obbligo di denuncia, richiamato dalla Ctp di Lecco, consiste in una valutazione ora per allora in ordine alla sola sussistenza dell’obbligo di denuncia (ex articolo 331 c.p.p.) e non in merito all’effettiva presentazione della stessa.

 

Raddoppio termini accertamento: “doppio binario”

Il citato raddoppio dei termini per l’accertamento in caso di violazioni penalmente rilevanti opera a prescindere dalle successive vicende del giudizio penale che conseguono alla denuncia presentata all’Autorità Giudiziaria.

La disposizione ha quale principale finalità quella di permettere lo svolgimento di un’adeguata istruttoria e porre l’organo accertatore nella condizione di perfezionare il controllo utilizzando anche gli elementi emersi nel corso di controlli fiscali o indagini condotte dall’autorità giudiziaria. Il legislatore ha, quindi, voluto garantire l’utilizzabilità degli elementi istruttori individuati per un periodo di tempo più ampio rispetto a quello previsto, a pena di decadenza, per l’accertamento.

La sentenza n. 507 del 5 ottobre 2012 della Commissione Tributaria Provinciale di Salerno, in proposito, ha esaminato il caso di un’impugnazione di un avviso di accertamento, emesso a seguito di PVC della Guardia di Finanza, che recuperava a tassazione maggiori imposte accertate a carico di una società ai fini IRES, IRAP e IVA per l’anno di imposta 2004.

Il contribuente nel ricorso ha lamentato la violazione dell’art. 43, D.P.R. n. 600 del 1973, pertanto ha chiesto all’adito giudice una valutazione, seppure sommaria e da effettuarsi in via incidentale, in merito alla circostanza che il fatto dedotto dall’Ufficio integrasse gli estremi di un reato tributario.

La Commissione ha ritenuto che la proroga dei termini per l’accertamento opera a prescindere dalle successive vicende del giudizio penale che conseguono alla denuncia, sia in virtù della interpretazione letterale della norma che con riferimento alle finalità della disposizione. Tenuto conto della separazione tra il procedimento amministrativo di accertamento e il processo penale di cui all’art. 20 del D.Lgs. n. 74/2000, il giudice tributario non ha la facoltà di portare il suo esame nel merito degli aspetti penali oggetto di denuncia e le vicende successive alla presentazione della stessa non possono incidere in ordine al legittimo raddoppio dei termini di accertamento.

Sulla stessa linea si è pronunciata la Commissione Tributaria Provinciale di Treviso con sentenza 11 aprile 2012 n. 44, la quale ha sostenuto che, in caso di violazioni che comportano l’obbligo di denuncia all’Autorità giudiziaria, scatta il raddoppio dei termini per l’esercizio dell’attività accertatrice, senza che assuma rilievo l’esito del procedimento penale eventualmente instauratosi. Anche nel caso di archiviazione del procedimento penale, avviato a seguito di presentazione della notizia di reato all’A.F., resta comunque efficace il raddoppio dei termini di decadenza dal potere di accertamento tributario se era sussistente l’obbligo di presentazione della denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p..

 

2 aprile 2013

Cosimo Turrisi