Abuso del diritto e contraddittorio

l’abuso di diritto (argomento sempre più caldo nel contenzioso tributario) è rilevabile anche d´ufficio ma se il contraddittorio non viene rispettato si lede il diritto alla difesa del contribuente

Principio

Il giudice tributario non può porre a fondamento della decisione una questione (consistente nella configurabilità nella fattispecie di una forma di abuso del diritto) rilevata d’ufficio, in quanto non prospettata nell’atto impositivo né mai discussa nel corso dei giudizi di merito, senza sottoporre la stessa al contraddittorio delle parti, cosi impedendo alla ricorrente di interloquire sul punto, sia sul piano fattuale che su quello giuridico, in violazione del diritto di difesa e del principio del giusto processo, oltre che dell’espressa previsione di cui all’art. 183, c. 4 , c.p.c..

L’omessa indicazione alle parti, ad opera del giudice, di una questione di fatto, ovvero mista di fatto e diritto, rilevata d’ufficio, sulla quale si fondi la decisione, comporta la nullità della decisione per violazione del diritto di difesa delle parti, private dell’esercizio del contraddittorio e delle connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione decisiva ai fini della deliberazione, allorché la parte che se ne dolga prospetti in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere qualora il contraddittorio sulla predetta questione fosse stato tempestivamente attivato. Se il giudice tributario rileva d’ufficio la sussistenza di un’operazione che può configurare abuso del diritto ha l’obbligo di indicarla al contribuente al fine di consentirgli un’adeguata difesa. In caso contrario, se la parte è in grado di prospettare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio sulla nuova questione fosse stato prontamente attivato, la sentenza è nulla. E’ nulla la sentenza del Giudice che nel riqualificare la pretesa fiscale tra quelle abusive omette di concedere termine alle parti per integrare le proprie difese.

Il principio di nullità della sentenza a sorpresa direttamente ricavabile dagli artt. 24 e 111 Cost, e già recepito negli artt 183, c. 4, e 384, c. 3, c.p.c., ha poi assunto portata generale (anche “topograficamente”) con il secondo comma dell’art. 101 del codice medesimo, comma aggiunto dall’art. 45 della legge n. 69 del 2009. Tale principio è stato statuito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 17949 del 19 ottobre 2012. Giova osservare che il giudice di legittimità in un precedente intervento o arresto giurisprudenziale(1) aveva statuito che non trovano applicazione le regole delle disposizioni di cui all’articolo 37-bis d.p.r. n. 600/1973 e nemmeno il principio di necessità del contraddittorio preventivo in quanto il contribuente può comunque formulare delle eccezioni sin da quando viene notificato il processo verbale di constatazione.L’applicabilità d’ufficio del divieto di abuso del diritto, prescinde dalle garanzie di cui all’art. 37 bis e dal contraddittorio preventivo, poiché il contribuente può formulare eccezioni sin dalla notifica del PVC (Cass. civ. Sez. V, 11-05-2012, n. 7393).

 

Difesa del contribuente in caso di pregiudizio derivato dalla mancata concessione delle prerogative difensive previste dalla legge

La decisione del giudice può essere basata, tra l’altro, sulle questioni rilevabili d’ufficio. La novella di cui alla legge n. 69/2009 specifica che, “Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione” (art. 101 c.p.c.). La disposizione è applicabile al processo tributario, posto che anche tale modello rituale è ispirato al principio del contraddittorio, principio, che, fra l’altro, ha rango costituzionale.

L’innovazione comporta che il giudice non può decidere la controversia sulla base di questioni rilevabili di ufficio se non ha preventivamente attivato il contraddittorio tra le parti sul tema pena la nullità della sentenza. Con la modifica di cui all’art. 101 c.p.c., il legislatore, sulla falsariga di quanto giàprevisto per il giudizio di legittimità dall’art. 384, c. 3, c.p.c., ha previsto che, anchenei gradi di merito, le parti possono depositare memorie scritte, ogniqualvolta il giudice decida di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio. La norma replica la regola già prevista per il giudizio di legittimità dall’art. 384, c. 3, c.p.c., così come novellata dal d.lgs. n. 40/2006, e riafferma il principio del giusto processo sancito dall’art. 111, c. 2, Cost.. La formulazione dell’art. 384 c.p.c., comma 3, come sostituito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 12, che ha imposto anche alla Corte di cassazione, se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, di assegnare al pubblico ministero ed alle parti un termine per il deposito di osservazioni sulla stessa, ha chiarito che il dovere del giudice di collaborare alla effettività del principio del contraddittorio è incondizionato e non trova limiti neppure nel giudizio di legittimità e nella peculiare natura delle questioni ad esso devolute, e che le parti devono essere messe in condizioni di interloquire anche laddove la decisione “a sorpresa” possa trarre origine dal rilievo da una questione meramente processuale (cfr. cass. civ., sez. 2, sent. 9 giugno 2008, n. 15194; cass. civ., sez. un., sent. 21 giugno 2007, n. 14385).

La norma, pensata per il caso in cui il giudice abbia già trattenuto la causa in decisione e finalizzata ad evitare un ritorno in istruttoria della stessa, prevede che il giudice, prima di pronunciarsi su una questione rilevata d’ufficio e, quindi, prima di emettere la sentenza, anziché rimettere la causa in istruttoria, trattenga la causa in decisione, concedendo alle parti un termine per depositare memorie difensive in ordine alla questione rilevata d’ufficio. E’ evidente che la novella va riferita soltanto all’ipotesi in cui la questione sia rilevata d’ufficio dal giudice in quanto solo in tale momento il giudice deve concedere un termine per memorie sospendendo la decisione sulla questione. Tale modifica trova applicazione anche nel processo tributario in quanto nel D.Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992 non sussistono norme che risultino incompatibili con tale disposizione (quindi il novellato art. 101 c.p.c. trova applicazione quando la Commissione tributaria intende porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio come, ad esempio, il difetto di giurisdizione ai sensi dell’art. 3, c. 1, del D. Lgs. n. 546 del 1992;l’abuso del diritto; l’incompetenza territoriale; l’estinzione del giudizio per inattività delle parti; i termini perentori per la costituzione in giudizio del ricorrente ovvero la non tempestività del ricorso proposto; l’intempestività del gravame; inammissibilità del ricorso per mancata decorrenza del termine di novanta giorni dalla presentazione della domanda di rimborso; nullità assoluta dell’udienza di discussione tenuta nella forma della pubblica udienza senza che di tale udienza fosse stata avanzata specifica richiesta notificata all’altra parte). La disposizione è applicabile al processo tributario posto che anche tale modello rituale è ispirato al principio del contraddittorio, principio, che, fra l’altro, ha rango costituzionale. La decisione a sorpresa viola il principio del contraddittorio in relazione agli articoli 24 Cost. e 112 c.p.c., ed ancor più in relazione al principio del giusto processo, introdotto col nuovo testo dell’art. 111 Cost., proprio perchè con essa non si è svolta alcuna attività difensiva delle parti. La modifica è applicabile anche al processo tributario per i processi instaurati dopo il 4 luglio 2009.

Il giudice non può decidere la lite in base ad una questione rilevata d’ufficio senza averla previamente sottoposta alle parti, al fine di provocare sulla stessa il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle rispettive difese in relazione al mutato quadro della materia del contendere, dovendo invece procedere alla segnalazione della questione medesima e riaprire su di essa il dibattito, dando spazio alle conseguenziali attività delle parti. Infatti, ove lo stesso giudice decida in base a questione rilevata d’ufficio e non segnalata alle parti, si avrebbe violazione del diritto di difesa per mancato esercizio del contraddittorio, con conseguente nullità della emessa pronuncia. E’ nulla in relazione a questioni rilevate di ufficio la sentenza di primo grado in conseguenza dell’omesso contraddittorio; infatti, il contraddittorio adempie ad un’essenziale funzione di garanzia del diritto alla difesa ai sensi dell’articolo 24 della Costituzione; in altri i termini, l’omesso contraddittorio costituisce causa di nullità del procedimento e della decisione della Commissione tributaria, per violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio. Trattasi di nullità della sentenza di primo grado ,per un vizio processuale, che comporta la rimessione della causa dal giudice di legittimita al giudice di primo grado.

Tale nullità della sentenza deve essere fatta tuttavia valere secondo le regole e i termini dei mezzi di impugnazione in osservanza del principio di conversione dei vizi della sentenza in motivi di impugnazione. In caso di mancato impugnazione la sentenza sarà sanata dal passaggio in giudicato, che è la causa di sanatoria più penetrante esistente. La decisione emessa in violazione del necessario contraddittorio, ex articolo 101 del cpc ,è una pronuncia affetta da nullità, ma pur sempre esistente e, per il principio di carattere generale contenuto nell’art. 161 c.p.c. circa la conversione dei vizi della sentenza in motivi d’impugnazione, tale vizio deve essere fatto valere nel rispetto delle regole procedimentali che regolano il giudizio di gravame – fra le quali è fondamentale quello dell’osservanza dei termini per la proposizione dell’impugnazione – con la conseguenza che la mancata osservanza di tali termini, da una parte, determina il passaggio in giudicato della pronuncia e, dall’altra, rende inammissibile il ricorso in appello tardivamente proposto, senza alcuna possibilità di rilevare e sanzionare la pregressa nullità.

La mancata segnalazione da parte del giudice di una questione rilevata d’ufficio, che comporti nuovi sviluppi della lite non presi in considerazione dalle parti, modificando il quadro fattuale, determina nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa delle parti, private dell’esercizio del contraddittorio e delle connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione decisiva ai fini della deliberazione. Pertanto se la violazione si sia verificata nel giudizio d’appello, la sua deduzione come motivo di ricorso in sede di giudizio di legittimità, determina la cassazione con rinvio della pronuncia impugnata, affinché ai sensi dell’art. 394, terzo comma cod. proc. civ. possano essere esplicate le attività processuali che la parte abbia lamentato di non aver potuto svolgere a causa della decisione solitariamente adottata dal giudice (Cass. civ. Sez. III, 27-04-2010, n. 10062).

 

NOTA

1) Il principio secondo cui le ragioni poste a base dell’atto impositivo segnano i confini del processo tributario, il cui carattere impugnatorio comporta che l’ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse da quelle fatte valere con l’atto impugnato, non esclude il potere del giudice di qualificare autonomamente la fattispecie a prescindere dalle allegazioni delle parti in causa, né l’esercizio di poteri istruttori d’ufficio, nei casi previsti dalla legge, non potendo ritenersi che i poteri del giudice tributario siano più limitati di quelli esercitabili in qualunque processo d’impugnazione di atti autoritativi, quale quello amministrativo di legittimità. Il rango comunitario e costituzionale del principio di divieto di abuso del diritto comporta la sua applicazione d’ufficio da parte del giudice tributario, a prescindere da qualsiasi allegazione, al riguardo, ad opera delle parti in causa, senza che ciò integri vizio di extrapetizione. Né siffatto rilievo officioso può ritenersi precluso per effetto dell’esistenza nell’ordinamento della specifica norma antielusiva di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, poiché il principio generale di divieto di abuso del diritto esiste in ambito comunitario e costituzionale, ovverosia a livello normativo primario, ben prima ed a prescindere dall’esistenza di norme elusive espresse nell’ordinamento italiano, di rango legislativo. Sicché, quando, come nel caso in esame, esista una disposizione espressa antielusiva, sarebbe del tutto illogico escludere dall’operatività del divieto di abuso del diritto proprio i comportamenti diretti ad eludere tale specifica norma antielusiva. L’ordinamento tributario è ispirato all’esigenza di contrastare il cosiddetto abuso del diritto, individuato dalla giurisprudenza comunitaria come lo strumento essenziale, finalizzato a garantire la piena applicazione del sistema comunitario di imposta. In materia tributaria, invero, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, sebbene non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta, in assenza di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Il rango comunitario e costituzionale del principio di divieto di abuso del diritto comporta la sua applicazione d’ufficio da parte del giudice tributario, a prescindere, dunque, da qualsiasi allegazione, al riguardo, ad opera delle parti in causa.Ciascun giudice ha il potere di qualificare autonomamente la fattispecie demandata alla sua cognizione, a prescindere dalle allegazioni delle parti in causa. Da ciò consegue che non è impedito al giudicante di operare una diversa qualificazione giuridica della fattispecie concreta, che ha dato luogo alla pretesa fiscale, compresa la possibilità di operare d’ufficio, laddove ritenuto opportuno. È quindi facoltà del giudice tributario, analizzando le prove fornite, di valutare l’eventuale invalidità o inopponibilità del negozio stesso. L’abuso comporta la sua applicazione d’ufficio da parte del giudice, a prescindere, da qualsiasi allegazione al riguardo a opera delle parti in causa.Anche a prescindere da una specifica contestazione delle parti in causa, il giudice ha il potere di qualificare autonomamente la fattispecie demandata alla sua cognizione. L’applicazione del principio di diritto relativo all’abuso può avvenire, quindi, anche in modo autonomo da parte del giudice tributario il quale, indipendentemente dalle contestazioni e dalle eccezioni formulate dalle parti in causa, può rilevare l’esistenza dell’abuso senza per questo incorrere in un vizio di extrapetizione. L’applicazione del principio di diritto in merito all’abuso, può avvenire anche in modo autonomo da parte del giudice tributario indipendentemente dai comportamenti seguiti dalle parti in causa e dalle eccezioni formulate. Quindi, non trovano applicazione le regole delle disposizioni di cui all’articolo 37-bis d.p.r. n. 600/1973 e nemmeno il principio di necessità del contraddittorio preventivo in quanto il contribuente può comunque formulare delle eccezioni sin da quando viene notificato il processo verbale di constatazione.L’applicabilità d’ufficio del divieto di abuso del diritto, prescinde dalle garanzie di cui all’art. 37 bis e dal contraddittorio preventivo, poiché il contribuente può formulare eccezioni sin dalla notifica del PVC. (Cass. civ. Sez. V, 11-05-2012, n. 7393 )

 

27 febbraio 2013

Ignazio Buscema

 

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 ottobre 2012, n. 17949

Ritenuto In fatto

1. La (…) s.p.a. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio indicata in epigrafe, con la quale, rigettando l’appello della contribuente, è stata confermata la legittimità dell’avviso di rettifica in materia di IVA ad essa notificato per omessa fatturazione, nel 2002, di una prestazione di servizi resa, in qualità di mandatari a senza rappresentanza, nei confronti della s.p.a.

La pretesa erariale si basava sul fatto che la ricorrente, agendo nella detta qualità, aveva concluso con la (…) s.p.a. un contratto di sponsorizzazione, che aveva comportato un costo di circa €. 13.000.000, ma – nonostante che un accordo stipulato tra le società appartenenti al gruppo , tra le quali (…) e (…), stabilisse che i costi di pubblicità dovevano essere riaddebitati a quest’ultima entro il 31/12/2002 per la ripartizione tra le società del gruppo in base ad un criterio predeterminato – non aveva provveduto a riaddebitare detto costo alla (…), la quale invece lo aveva contabilizzato nell’importo costituente la quota parte dei costi attribuita ad (…); quest’ultima, però, aveva omesso di rilasciare la relativa fattura alla (…).

Il giudice di merito, premesso che la controversia, come esattamente aveva rilevato la contribuente, va decisa alla stregua delle sole disposizioni concernenti l’obbligo di fatturazione (tale essendo l’addebito mosso con Tatto impugnato), ha tuttavia osservato che occorre valutare se il comportamento complessivo della (…), considerato congiuntamente a quello della (…), abbia potuto determinare la conseguenza che l’obbligo di fatturazione non venisse ad esistenza. Rilevato, quindi, che è indiscusso che la contribuente – dopo aver concluso il contratto di sponsorizzazione in nome proprio ma nell’interesse della (…), in virtù del citato accordo fra le società del gruppo (…) ha il diritto di ottenere la restituzione prò quota del relativo costo e l’obbligo correlativo di emettere la fattura ai fini IVA, il giudice d’appello ha ritenuto che la tesi della contribuente, secondo cui, non avendo la (…) provveduto al pagamento del corrispettivo del servizio ricevuto, non sussiste violazione dell’obbligo di fatturazione, configura una forma di abuso del diritto, avendo finito per beneficiare due volte della detrazione IVA in relazione alla medesima operazione imponibile di sponsorizzazione: per evitare una simile illegittima conseguenza, avrebbe dovuto, entro il 31/12/2002, emettere fattura in relazione alla quota parte del costo di sponsorizzazione attribuitole da (…).

In definitiva, ha concluso il giudice a quo, la condotta (…) la quale non risulta che abbia mai chiesto o sollecitato la restituzione della quota di corrispettivo versato alla (…) s.p.a. -, nonostante la conformità alla normativa, non ha altra spiegazione che quella di conseguire un risparmio fiscale e trova, fino a prova contraria che non è stata offerta, né chiesto di offrire, la sua unica giustificazione nella volontà di non far sorgere l’obbligo di fatturazione.

2. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

3. La ricorrente ha depositato memoria.

 

Considerato in diritto

1.1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 24 e 111 Cost. e degli artt. 183, quarto comma, e 112 cod. proc. civ.

Censura in primo luogo la sentenza impugnata per avere il giudice d’appello posto a fondamento della decisione una questione – consistente nella configurabilità nella fattispecie di una forma di abuso del diritto -rilevata d’ufficio, in quanto non prospettata nell’avviso di rettifica né mai discussa nel corso dei giudizi di merito, senza sottoporre la stessa al contraddittorio delle parti, cosi impedendo alla ricorrente di interloquire sul punto, sia sul piano fattuale che su quello giuridico, in violazione del diritto di difesa e del principio del giusto processo, oltre che dell’espressa previsione di cui al citato art. 183, quarto comma, c.p.c.

Rileva, poi, che il giudice a quo ha violato anche i confini del giudizio a lui sottoposto, quali segnati dal fondamento e dall’entità della pretesa tributaria fatta valere nell’atto impositivo, avendo finito per censurare e “sanzionare”, attraverso il riscontro dell’abuso del diritto, non già l’omessa fatturazione (unicamente contestata nell’avviso di rettifica), bensì, come già il primo giudice, il diverso addebito della doppia detrazione d’imposta.

1.2. La prima doglianza è fondata.

Va, innanzitutto, ribadito il consolidato principio della giurisprudenza di questa Corte (che, del resto, la stessa ricorrente non contesta) secondo il quale la diretta derivazione comunitaria, quanto ai tributi armonizzati, e, comunque, costituzionale (art. 53), per quelli non armonizzati, del principio di divieto di abuso del diritto – secondo il quale il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale – comporta la sua applicazione d’ufficio da parte del giudice tributario, a prescindere da un qualsiasi richiamo da parte dell’amministrazione, sulla base dei fatti acquisiti al processo (Cass., Sez. un., n. 30055 del 2008, nonché, da uh., Cass. n. 7393 del 2012).

Ora, non v’è dubbio che ciò nella fattispecie sia avvenuto.

Il giudice d’appello, infatti, a fronte di una pretesa tributaria basata sulla violazione dell’art. 21 del d.P.R. n. 633 del 1972, per avere la contribuente s.p.a. omesso di fatturare il rimborso di costi di sponsorizzazione da essa sostenuti in qualità di mandatario senza rappresentanza della (…) s.p.a. (appartenente al medesimo gruppo), ha ritenuto – come in parte già detto in narrativa – di procedere ad una “considerazione globale del contesto nel quale è maturata la vicenda”, valutando “se il comportamento complessivo dell’appellante, considerato congiuntamente a quello di (..), abbia potuto determinare la conseguenza che l’obbligo di fatturazione non venisse ad esistenza”: ed ha concluso nel senso che la condotta della (…) “non trova altra spiegazione che quella di conseguire un risparmio fiscale”, poiché, non risultando che essa “abbia mai richiesto, né tanto meno sollecitato, ad la restituzione della quota di corrispettivo versato a (…) per la sponsorizzazione”, il (…) suo .comportamento “trova – sino a prova contraria che non è stata offerta, né chiesto di offrire – la sua unica giustificazione con la volontà dì non far sorgere l’obbligo di fatturazione, a sua volta prodromico alla regolarizzazione dell’imposta annuale”.

Si è, quindi, chiaramente in presenza dell’applicazione ex officio del principio di divieto di abuso del diritto, tema che non era stato, neanche implicitamente, allegato dall’amministrazione nell’atto impositivo, né, in ogni caso, era entrato a far parte del dibattito processuale. Inoltre, la questione non può considerarsi di puro diritto, implicando, come emerge espressamente dalla sentenza impugnata, anche profili fattuali (e la ricorrente ha indicato le circostanze e le argomentazioni che avrebbe potuto dedurre per contestare la tesi del giudice).

Ne consegue, in definitiva, la nullità della sentenza, in virtù del principio secondo il quale l’omessa indicazione alle parti, ad opera del giudice, di una questione di fatto, ovvero mista di fatto e diritto, rilevata d’ufficio, sulla quale sì fondi la decisione, comporta la nullità della sentenza (ad. “della terza via”, o “a sorpresa”) per violazione del diritto di difesa delle parti, private dell’esercizio del contraddittorio e delle connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione decisiva ai fini della deliberazione, allorché la parte che se ne dolga prospetti in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere qualora il contraddittorio sulla predetta questione fosse stato tempestivamente attivato (Cass., Sez. un., n. 20935 del 2009, nonché Cass. nn. 10062 del 2010, 9591 e 17495 del 2011). Il principio, direttamente ricavabile dagli artt. 24 e 111 Cost, e già recepito negli artt 183, quarto comma, e 384, terzo comma, cod. prò e. civ., ha poi assunto portata generale (anche “topograficamente”) con il secondo comma dell’art. 101 del codice medesimo, comma aggiunto dall’art. 45 della legge n. 69 del 2009.

1.3. Il secondo profilo di censura è infondato nei sensi di seguito precisati.

E’ stato più volte affermato da questa Corte che i poteri del giudice tributario sono necessariamente limitati al riscontro della consistenza della pretesa fatta valere dall’amministrazione finanziaria con l’atto impositivo, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso enunciati, il che vuol dire che l’erario aziona una specifica pretesa impositiva – e cioè accerta un determinato debito tributario in capo al contribuente e ne richiede il pagamento – e il processo che nasce dall’Impugnativa dell’atto autoritativo è delimitato nei suoi confini, da un lato, dalla pretesa tributaria, nel senso che il fondamento e l’entità di questa non possono avere latitudine diversa di quanto dedotto nell’atto impositivo, e, dall’altro, dai motivi specifici dedotti nel ricorso introduttivo dal contribuente (Cass., Sez. un., n. 30055 del 2008, cit, nonché, tra le altre, Cass. nn. 4334 del 2002, 20516 del 2006, 17119 del 2007, 6620 del 2009).

Ciò posto, la sentenza impugnata, ad avviso del Collegio, non ha violato il richiamato principio, dovendo essere interpretata nel senso che, secondo il giudice d’appello, la rilevata condotta “abusiva” della contribuente sarebbe consistita nell’evitare l’insorgenza sine die dell’obbligo di fatturazione, la cui violazione costituisce l’unico oggetto della pretesa tributaria azionata con l’atto impugnato (come del resto lo stesso giudice a quo ha espressamente premesso, nel ritenere fondato il motivo d’appello), e dovendo, pertanto, considerarsi il rilievo del beneficio della doppia detrazione d’imposta come mero riferimento ad un effetto ulteriore e consequenziale alla violazione contestata, ma ad essa estraneo.

2. I restanti motivi di ricorso, attinenti al merito della controversia, restano assorbiti.

3. In conclusione, va accolto, nel limiti e nei sensi sopra specificati, il primo motivo, assorbiti gli altri; la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio, la quale procederà a nuovo esame della controversia uniformandosi ai principi enunciati, oltre a provvedere in ordine alle spese anche del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione e dichiara assorbiti i restanti.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale dei Lazio.